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"Tedesco a scuola? Serve un reset"

Secondo Aldo Mazza di Alpha Beta "l'aumento delle ore non ha portato i frutti sperati". Lo studioso apre al "Dialekt" sui banchi ma "a piccole dosi".
Aldo Mazza
Foto: (Foto: salto.bz)

Le ore di tedesco a pioggia non possono essere una soluzione “di sistema” e non bastano per far imparare la seconda lingua a intere generazioni di studenti altoatesini. La tesi, esposta più volte su salto.bz attraverso il parere di numerosi esperti e in un editoriale pubblicato ad agosto, non trova, come giusto, tutti d’accordo. Neanche a dirlo, il tema è comunque saltato a piè pari dal mondo politico, anche dai partiti di opposizione. Se anche qualcuno fosse d’accordo sarebbe davvero troppo impopolare chiedere un ripensamento delle politiche linguistiche, soprattutto perché da tre lustri si vende una “gioventù bilingue” che lo è in misura largamente inferiore a quanto si voglia far credere. E questa non è un'opinione, ma lo dicono le uniche statistiche rese pubbliche fino ad oggi. Ma tant’è. Ora, in questo dialogo con uno dei fondatori dell’agenzia linguistica alpha beta, Aldo Mazza, proviamo a fare qualche passo avanti nell’analisi e, fra le altre cose, a rompere un tabù: quello dell’approdo del dialetto sudtirolese a scuola. In dosi omeopatiche, ovviamente.  

salto.bz: Aldo Mazza, ma perché è così difficile imparare la seconda lingua?

Aldo Mazza: Vorrei partire da una premessa. Il problema dell’apprendimento linguistico nella nostra terra è molto complesso e coinvolge diversi piani, non solo quello didattico. E che dobbiamo rassegnarci al fatto che non esiste una soluzione pronta, una sorta di ricetta magica. Sarebbe un errore o un’ingenuità illudersi di averne trovata una, valida per sempre. Se le scelte operate sinora dalla scuola non hanno, come sembra, generato tutti i frutti sperati, ciò non è dovuto all’incapacità di qualcuno, ma alla complessità stessa del problema. Beckett diceva: “Provare, sbagliare, riprovare e sbagliare meglio”.

Non dobbiamo buttare via tutto quello che è stato fatto, ma riprovare, sapendo che sbaglieremo ancora, e però sbaglieremo meglio.

Nella società c’è una forte domanda, da più parti si parla di vera e propria ansia da bilinguismo.

Mi rendo conto che intorno al tema del bilinguismo si è creato un clima ansiogeno e sono convinto che quest’ansia vada rispettata e non sottovalutata. Spesso viene citata per giustificare alcune scelte che, per andare incontro alle richieste delle famiglie, hanno portato a un deciso aumento dell’offerta di ore nella seconda lingua. Ecco, secondo me bisogna prima di tutto affrontare quest’ansia: è legittima e comprensibile, ma ciò non vuol dire che la si debba assecondare del tutto. Per attenuarla, quanto meno, si dovrebbe lavorare esplicitamente e direttamente con gli interessati, indagando sui fattori che la generano e dire chiaramente che sono stati fatti vari tentativi, che è stato profuso un forte impegno, ma con il passare del tempo i risultati non sono sempre stati quelli auspicati. Bisogna aprire un’ampia riflessione che coinvolga tutte le parti in causa. E qui torniamo alla complessità. Non dobbiamo buttare via tutto quello che è stato fatto, ma riprovare, sapendo che sbaglieremo ancora, e però sbaglieremo meglio.

Si dà per scontato, tuttavia, che ormai sia tardi per tornare indietro. Da dove si comincia dunque?

Nella sua intervista alla direttrice della scuola di Monaco, lei ha parlato di “svantaggio di contesto” per l’apprendimento linguistico dei ragazzi che vivono qui in Alto Adige/Südtirol rispetto a quelli che vivono a Monaco. È un assunto che rispecchia la realtà, anche se, a una prima considerazione, il fatto che il nostro contesto – un territorio plurilingue dove le lingue italiana e tedesca convivono – a volte non aiuti e porti addirittura “svantaggi” può sembrare paradossale. Ecco, io partirei da qui, ovvero da quanto ha affermato Dietmar Larcher: “Niente è più difficile che imparare la lingua del vicino” – si pensi a come viene vissuto invece l’inglese, in maniera del tutto differente. La storia di questa terra, il clima che qui per decenni si è respirato, sono fattori che possono influenzare negativamente l’apprendimento. Sono le “insidie della vicinanza” di cui parla Siegfried Baur.

Se pensiamo al tedesco, una delle due “seconde lingue” di questa terra, mi sento di affermare che noi facciamo finta che esso lo sia, ma in realtà non è così.

Può spiegarsi meglio?

Da un punto di vista tecnico si è soliti distinguere tra “lingua seconda” e “lingua straniera”. Qual è la differenza? La lingua straniera la si impara in un luogo in cui non è lingua d’uso: il tedesco a Verona o l’italiano a Innsbruck sono appunto lingue straniere. La lingua seconda, invece, è una lingua d’uso nel contesto in cui si vive. Ma questo da noi è vero solo in parte. Se pensiamo al tedesco, una delle due “seconde lingue” di questa terra, mi sento di affermare che noi facciamo finta che esso lo sia, ma in realtà non è così. Tutto è scrupolosamente tradotto, è vero, ma per quanto riguarda il piano orale il nostro “contesto” trasforma spesso il tedesco in una lingua straniera: un po’ per il fatto che si vive in società parallele che si incontrano di rado, a volte lontane anche geograficamente, un po’ per il problema piuttosto trascurato – se non per lamentarsi – della marcata presenza del dialetto sudtirolese. Dobbiamo partire da qui: il tedesco che impari a scuola non è quello che viene parlato quando incontri l’altro, laddove i contatti tra persone di lingue diverse sono già di per sé poco frequenti. Se pensiamo all’italiano poi per il gruppo tedesco, a parte i centri maggiori, l’assenza fisica dei parlanti italofoni rende quasi nulle le possibilità di uso della lingua. Una vera occasione di scambio e di comunicazione, insomma, si realizza solo di rado, mentre sappiamo bene che le possibilità di utilizzare la lingua nella realtà, al di fuori di un ambito didattico, sarebbe il modo migliore per farla crescere. Più la usi, più impari. Come succede a Monaco.

 

Che fare allora?

Pur sapendo che questa posizione relativa al dialetto è ampiamente condivisa, rispondo con una domanda: cosa fa e cosa ha fatto in concreto la scuola per dare allo studente gli strumenti utili a rapportarsi con questa specifica realtà, oltre che limitarsi a denunciarla a più riprese come evidente “svantaggio di contesto”? Lo chiedo senza alcuno spirito polemico. Mi interesserebbe veramente conoscere quali iniziative sono state intraprese in questi ultimi anni nelle nostre classi per affrontare una questione che appare decisiva rispetto ai progressi nell’apprendimento. A quanto mi risulta non sono state moltissime, ma spero di sbagliarmi. Non è colpa di nessuno, ma è un dato di fatto che in Alto Adige/Südtirol vi sia un iperuso del dialetto sudtirolese. Nel 1994 a questo tema noi di alpha beta, in collaborazione con le Intendenze scolastiche tedesca e ladina (quella italiana decise di non partecipare), organizzammo un convegno su Dialetto e plurilinguismo (di cui pubblicammo anche gli atti) nel quale cercammo di stimolare un’ampia riflessione sulle peculiarità dell’uso del dialetto in zone plurilingui, sulla necessità di tutta la scuola, a prescindere dalla lingua d’insegnamento, di confrontarsi con i comportamenti linguistici in contesti plurilingui.

Meno dialetto, allora?

Non è che si può vietare l’uso del dialetto. Chi parla dialetto sudtirolese deve però sapere che dovrebbe sforzarsi di venirti incontro linguisticamente, e tu devi sapere che esiste un idioma differente dal tedesco standard che non viene usato contro di te, per escluderti, ma ha una sua ragion d’essere, dietro la quale vi sono anche motivi storici. Durante il ventennio fascista il tedesco era bandito dalle scuole, ed è ovvio che si sia rafforzato l’uso del dialetto, anche se questa ovviamente non è l’unica spiegazione, né può essere una giustificazione. I sudtirolesi non sono cattivi perché parlano il dialetto, né siamo bravi noi perché parliamo l’italiano standard. Se l’immigrazione in Alto Adige fosse stata tutta dal Veneto, oggi a Bolzano parleremmo un dialetto veneto.

Che cosa consiglierebbe, dunque.

I sudtirolesi tendono spesso a rimuovere il fatto che parlano dialetto, mentre nei contesti plurilingui anche loro dovrebbero sforzarsi di tener conto degli interlocutori; allo stesso modo da parte italiana si dovrebbe compiere lo sforzo di non chiudere l’orecchio appena si sentono pronunciare frasi in dialetto. Una persona di lingua italiana proveniente da una regione del nord che si trovasse a vivere per diversi anni a Salerno, imparerebbe, almeno passivamente, a capire qualcosa del dialetto salernitano. Non si tratta di impararlo alla perfezione, ma di avere una familiarità con esso, una confidenza che poi facilita i rapporti sociali. Chi parla tedesco è comunque avvantaggiato dal fatto che per ragioni storiche gli italiani altoatesini non hanno un proprio dialetto, e l’italiano che studia è quello che effettivamente viene parlato per strada. Gli italofoni si trovano invece di fronte sudtirolesi che al dialetto ricorrono sempre più frequentemente. Dialetto che fanno ancora più fatica a cogliere nella sua importanza “emotiva” per i sudtirolesi perché, appunto, non ne hanno uno proprio. È pur vero che persino in ambiti ufficiali e formali non di rado si usi il dialetto, laddove sarebbe invece richiesto il tedesco standard. E la domanda sorge spontanea: viene imposto l’attestato di bilinguismo ai dipendenti pubblici e poi nella comunicazione si utilizza il dialetto? Io credo che su questo punto il mondo della scuola e della politica dovrebbero dare risposte più chiare e nell’interesse di tutti. A maggior ragione, dunque, il problema va affrontato.

Bisogna insegnare dialetto a scuola, allora?

No, sarebbe assurdo. Si tratta invece di affrontare il tema in maniera esplicita e non casuale. Basterebbe, alcune volte nel corso di un intero anno scolastico, far vivere agli studenti brevi esperienze di ascolto della lingua parlata fuori dalla classe, spingerli ad avere il coraggio di ascoltare e ad elaborare almeno ipotesi sul contenuto, ma anche sfruttare simili occasioni per tematizzare la problematica, cercando anche possibili strategie comportamentali di contrattazione con l’altro sull’uso della lingua. E la cosa non riguarda solo la scuola in lingua italiana: anche nella scuola tedesca sarebbe necessario che l’insegnante di italiano L2 (ma non solo lui) invitasse gli studenti a riflettere sui propri comportamenti linguistici in presenza di parlanti una lingua diversa, rendendoli inoltre consapevoli che il gruppo italiano vive “senza dialetto” e quindi offre loro un modello di lingua molto standardizzato.

A proposito di comportamenti linguistici, credo si possa affermare che nel mondo italiano vi sia una chiusura totale verso il dialetto, e in quello tedesco un tabù sull’uso della lingua standard nei contesti in cui magari sono presenti persone di lingua italiana che il tedesco lo conoscono bene. In simili casi, il sudtirolese passa direttamente all’italiano. 

Fino a oggi da parte italiana la questione dialetto è stata associata spesso a una scelta po’ aggressiva ed escludente dell’altro gruppo linguistico, mentre da parte tedesca si è ignorato che le persone che si sforzano di imparare la seconda lingua vorrebbero poi poterla usare anche fuori dal contesto scolastico. La scuola, ribadisco, dovrebbe “allenare” gli studenti a vivere e ad agire in un contesto strutturalmente plurilingue come il nostro. Anni fa promuovemmo una ricerca sui bambini che partecipavano alle Sprachferien. Un ragazzino di otto anni di lingua italiana era stato ospitato da una famiglia della val Venosta. Alla domanda “Cosa facevi quando non capivi?”, lui rispose: “Prendevo tempo”. Può sembrare una risposta banale, ma non lo è affatto: indica infatti la ricerca, se non di una tecnica, almeno di una strategia. Al contrario, ci fu un’altra ragazzina che alla stessa domanda rispose: ”Niente, non capivo per colpa loro, che non parlavano bene il tedesco. Io sono uscita dalla scuola con ottimo”. Due possibili uscite: affrontare il problema “prendendo tempo” o chiudersi.

Il concetto di fondo, semplificando, è che l’emotività funziona da “acceleratore” o “freno” ai processi di apprendimento.

Dialetto a parte, anche l’apprendimento del tedesco standard, pur migliorato, non è esattamente ai livelli che ci si aspettava vent’anni fa. La responsabilità è solo della scuola?

Per quanto riguarda le presunte responsabilità della scuola va evidenziato che la didattica ha in effetti dei limiti. Esistono una buona e una cattiva didattica, aspettarsi però che la sola didattica risolva il problema è una mera illusione. Barbara Gramegna, in risposta al suo articolo, cita la teoria, molto importante, del “filtro affettivo” di Krashen. Il concetto di fondo, semplificando, è che l’emotività funziona da “acceleratore” o “freno” ai processi di apprendimento. Krashen ipotizza l’esistenza di un filtro affettivo che funziona secondo un meccanismo di difesa, di volta in volta abbassata o alzata. Quali sono, secondo lo studioso, i fattori di influenza? 1) Il desiderio di integrazione nella nuova cultura; 2) i buoni rapporti con i parlanti della L2; 3) ansia, autostima e sicurezza. In virtù di questi tre fattori il filtro affettivo determina un apprendimento migliore o peggiore, spinge o meno a mettersi in gioco.

Proviamo ad esaminarli uno ad uno.

Desiderio di integrazione. Esiste? Non ho una risposta secca. Ci sono sicuramente molte eccezioni, ci sono diverse famiglie mistilingui, ma i grandi numeri dicono chiaramente che viviamo in società parallele e nebeneinander. In generale non vedo grande curiosità verso l’altro, stiamo vivendo una fase in cui mi sembra prevalere una netta indifferenza. Non c’è conflitto, soprattutto grazie al benessere economico, ma non possiamo dire che ci piacciamo a vicenda.

Buoni rapporti con i parlanti della L2. I rapporti sono poco frequenti. Prevale appunto la logica del nebeneinander, delle due società parallele, che peraltro ha contribuito a risolvere i conflitti e posto fine alla stagione delle bombe. Non ci sono più divieti o tabù come una volta, ora è tutto possibile, ma sembra non esserci tanta voglia di relazione. Ci sono, come detto, diverse eccezioni, ma il sentimento più diffuso è l’indifferenza.

Ansia, autostima, insicurezza. Soprattutto nel gruppo di lingua italiana si è diffusa l’ansia di non farcela, di rimanere indietro e dover recuperare. Su quest’ansia bisognerebbe lavorare.

Ecco, se mettiamo insieme questi tre fattori, mi pare evidente che qui abbiamo un “filtro affettivo” che rallenta o addirittura impedisce l’apprendimento della seconda lingua. Un ostacolo che ovviamente non si può pensare di superare solo aumentando le ore di tedesco o di italiano a scuola. Bisogna agire su più piani: è questa la grande sfida, non solo per i docenti di L2, ma per la scuola tutta.

 

Veniamo ad un altro tema cruciale, quello della formazione degli insegnanti.

Credo che gli insegnanti di L2 dovrebbero ricevere molto più rispetto e considerazione nella nostra società, innanzitutto perché sono chiamati a operare “in trincea”. Si trovano infatti a svolgere la loro attività all’interno dell’altra comunità, in buona parte votata all’indifferenza verso il vicino, portandovi la lingua dell’altro. Questi docenti hanno un compito enorme. Ricordo che quando insegnavo glottodidattica alla SSIS di Bressanone, per descrivere il loro ruolo ricorrevo alla metafora di Sisifo: sali, sali, sali sempre più su, e arrivato in cima alla montagna il masso ricade. Invitavo tuttavia i miei studenti a fare come il Sisifo di Camus, un Sisifo sorridente, che sa che è così, ma non soccombe, e ci prova ugualmente ogni giorno. Questi docenti, dicevo, hanno davanti un compito difficile per i motivi che ho appena spiegato, con in più – aspetto sottovalutato – una sorta di delega. Hanno l’obbligo di essere up to date per quanto riguarda la didattica, ma in realtà dovrebbe essere la scuola tutta ad aiutarli nell’assolvere quella che è la loro missione, ovvero creare curiosità e interesse per l’altro, desiderio di conoscerlo. Per ciò che concerne la formazione, credo che si sia fatto e si faccia moltissimo, e che in generale disponiamo di un corpo docente qualificato, certamente non inferiore a quello di altre discipline.

Ha qualche proposta da fare rispetto all’offerta didattica?

È difficile per me in questa sede addentrarmi nel dettaglio dell’offerta didattica senza incorrere nel rischio di fare affermazioni superficiali e semplicistiche. Basta leggere, a proposito del tedesco nella scuola italiana, la risposta della professoressa Gramegna per rendersi di quanto sia stato articolata e competente l’offerta didattica. Se proprio insiste per cercare di rispondere in qualche modo sul piano pragmatico alla sua domanda mi viene in mente una semplice proposta. Se una persona si presenta da noi, ad alpha beta, per imparare una lingua, le viene fatto un test di ingresso per verificare le conoscenze di partenza e cercare di inserirla in un gruppo il più possibile omogeneo rispetto alle sue competenze linguistiche: se vieni classificato, per esempio, come B1, nel corso troverai persone del tuo stesso livello. Se mettessimo i primi dieci che arrivano nella stessa classe a prescindere dal loro livello di partenza, sarebbe un disastro per tutti, e sono sicuro che saremmo sommersi dalle proteste e obbligati a restituire la quota di iscrizione. A quanto mi risulta, a scuola questo non avviene. So che non si può paragonare una scuola di lingua alla scuola pubblica, che ci sono differenze sostanziali nei numeri, nelle finalità e nei compiti, ma mi chiedo se non varrebbe la pena, a livello sperimentale, di provare a formare, laddove è possibile, gruppi omogenei solo per la lingua, almeno per una parte del monte orario. Non si tratta di creare classi differenziate, ma di prendere atto che si impara meglio in gruppi omogenei, anche solo per un numero limitato di ore. Bisognerebbe avere il coraggio di rompere l’assetto classe, affrontare questo problema con una buona dose di pragmatismo.

Per fare tutte queste cose ci vorrebbe una sorta di ripartenza.

“Ricomincio da… tre” diceva Troisi. Ecco, secondo me sarebbe il momento di fare una sorta di reset della politica di apprendimento linguistico sia da parte italiana sia da parte tedesca, cercando di sviluppare almeno questa volta una strategia comune, proprio perché è nell’interesse di tutti avere cittadini con un buon livello di bilinguismo. Anche se ogni gruppo linguistico continuerà ad avere la propria scuola, sarebbe quanto mai opportuna una riflessione non “di parte” che porti a un ripensamento delle politiche linguistiche senza buttare via quanto di buono è stato fatto. Un ripensamento che non prescinda dalla complessità della questione, perché, è bene ribadirlo, la gente si aspetta risposte subito, mentre bisogna avere il coraggio di dire che non esiste una ricetta risolutiva, che garantisca un funzionamento perfetto. Tra gli aspetti positivi vi è sicuramente il fatto che fino agli anni Novanta la competenza del gruppo italiano era sottozero e nel frattempo è senza dubbio migliorata, mentre sull’altro fronte come segnala lo studio “Kolipsi II” che, a mio modo di vedere fotografa molto bene la realtà, il gruppo di lingua tedesca ha maggiori e più salde conoscenze della L2, ma è in forte calo rispetto al passato. Siamo ancora purtroppo però lontani quindi da un bilinguismo diffuso. E al riguardo vorrei aggiungere che non bisogna avere paura delle indagini linguistiche e psicosociali, anzi, queste misurazioni andrebbero fatte spesso e direttamente nelle scuole, e confrontate nel tempo, perché comunque offrono elementi di riflessione sui quali elaborare nuove strategie.

Purtroppo si è creata una sensazione diffusa per la quale tu vai a scuola, “per imparare il tedesco”. A scuola si va invece per ricevere una formazione completa

Nel sentire comune non solo la scuola ha tutte le colpe, ma è una specie di entità infallibile come il papa. Solo che il papa attuale è almeno capace di ammettere i propri errori e quelli della Chiesa. Nessuno, invece, che abbia un ruolo nella scuola ammetterà mai che c’è una rotta da correggere. Va sempre tutto benissimo. E se qualcosa non va, si possono sempre aumentare le ore di tedesco alla settimana. 

Purtroppo si è creata una sensazione diffusa per la quale tu vai a scuola, “per imparare il tedesco”. A scuola si va invece per ricevere una formazione completa, si va per l’intero pacchetto. Sull’equivoco per cui all’aumento di domanda di apprendimento della seconda lingua si è risposto aumentando via via le ore, è necessario riflettere senza mettersi automaticamente sulla difensiva. Se si incrementa il tedesco e si riducono le altre materie, è inevitabile che ciò abbia degli effetti, ed è inutile fingere il contrario. Senza buttare via quanto si è fatto sinora, sarebbe necessaria, torno a ripeterlo, una sana autocritica, a partire soprattutto da ciò che non ha funzionato. Non perché qualcuno si è dimostrato inadeguato o incompetente, ma perché la questione è complessa.

Il vostro corso Hoi Hanni dà una ottima infarinatura per iniziare a codificare il dialetto sudtirolese. Un’iniziativa simile non potrebbe essere proposta negli ultimi anni delle superiori, quando i ragazzi hanno già una buona conoscenza del tedesco standard?

L’offerta di cui lei parla è stata elaborata nei primi anni Novanta e accompagnata dallo sviluppo e produzione di materiali didattici che la rendessero realizzabile. A quanto mi consta, ha riscontrato scarso interesse nel mondo della scuola italiana. Forse si potrebbe provare con le modalità cui ho accennato prima. Nell’ambito della scuola tedesca poi non mi risulta un dibattito approfondito in materia di dialetto e contesto plurilingue. A proposito di questo voglio raccontare un piccolo aneddoto. Insegnavo seconda lingua alla facoltà di Scienze della Formazione a studentesse e studenti che provenivano dalla scuola tedesca. Preso atto, con sorpresa, delle scarse competenze nella lingua italiana di alcuni di loro, ho sfruttato le poche ore a disposizione anche per invitarli a riflettere consapevolmente sui loro comportamenti linguistici nelle rare e poco sfruttate occasioni di contatto con il “vicino”. E così siamo arrivati al dialetto. Cosa ho fatto, allora? Ho fatto ascoltare una canzone in napoletano, ‘A tazza ‘e cafè di Roberto Murolo. Alla fine del primo ascolto chiedevo: “Cosa avete capito?”. “Niente” rispondevano quasi all’unisono. Dopo averla riascoltata per diverse volte erano in grado, da soli, di ricostruire il significato generale della canzone. Dopodiché mi sono permesso di dire: ragazzi, siete all’università, studiate italiano da anni e all’inizio non avete capito niente. Ecco, questo è ciò che capita a un italiano che studia per anni il tedesco, esce da scuola e sente parlare intorno a sé una lingua che ha su di lui lo stesso effetto che questa canzone ha su di voi. Perciò, ragazzi, dovete sempre tener conto che l’altro parlante non è della vostra stessa madrelingua. Se quando sono arrivato qui, io avessi parlato solo il mio dialetto salernitano, non avrei comunicato con nessuno, né “italiani”, né “tedeschi”. 

 

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kurt duschek So., 18.09.2022 - 10:41

....solange die Vereine grundsätzlich immer nach Sprachen getrennt sind, z.B. SCM und ASM oder AVS und CAI, braucht es nicht zu wundern, dass Kinder und Jugendliche wenig Kontakte zur anderen Sprache haben. Als Kind lernt man Sprachen zusammen mit den Gleichaltrigen kinderleicht und spielend!

So., 18.09.2022 - 10:41 Permalink
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Liliana Turri So., 18.09.2022 - 12:10

Antwort auf von Verena Agostini

Aiuterebbe, ma non sarebbe sicuramente sufficiente. Se invece ci fosse la possibilità di scegliere un intero percorso scolastico bilingue comune a partire dalla scuola dell'infanzia, ebbene lì si imparerebbe spontaneamente a parlare anche il dialetto, e a comprenderlo, che è quel che conta. Ma di scuola bilingue non si parla nell'articolo. D'altro canto è comprensibile che un intellettuale del sistema, che ha ricoperto cariche importanti nel settore, non possa dire che la vera unica soluzione è la scuola bilingue.(Emojis not available)(Emojis not available)

So., 18.09.2022 - 12:10 Permalink
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Lucio Giudiceandrea Mo., 19.09.2022 - 08:47

Antwort auf von Liliana Turri

E già! Ha ragione la intellettuale non di sistema: in Alto Adige/Südtirol non ci sono persone di casa in entrambe le lingue e pure nel dialetto. E sapete perché? Perché manca la scuola bilingue. Ovvio no? Diavolo d'una intellettuale non di sistema: solo lei poteva arrivarci.

Mo., 19.09.2022 - 08:47 Permalink
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rotaderga So., 18.09.2022 - 13:47

Erziehung, Lernen, Weltoffenheit, Sozialkompetenz uvm- oder kurzum Hausverstand haben die Basis im Elternhaus. Keine Schule kann voll aufholen, was das Elternhaus versäumt hat.
Aber es ist leichter die Mängel im Kindergarten und Schule zu suchen als bei sich selbst im Elternhaus.
Kinder aus einer Elternhausmentalität - siamo in Italia oder mir san Südtirola- starten sprachlich benachteiligt.

So., 18.09.2022 - 13:47 Permalink
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Hartmuth Staffler So., 18.09.2022 - 14:53

Es stimmt überhaupt nicht, dass die Italiener in Südtirol keinen Dialekt haben und daher alle Standard-Italienisch sprechen. Bei den verschiedenen Einschüchterungs-Hausdurchsuchungen, die bei mir vorgenommen wurden, haben sowohl Carabinieri als auch Finanzpolizisten sich so sehr im Dialekt ihrer süditalienischen Heimat ausgedrückt, dass ich, trotz perfekter Kenntnis der italienischen Standardsprache, große Schwierigkeiten hatte, sie zu verstehen. Auch meine Frau, die italienischer Muttersprache ist, konnte nur raten, was die Uniformierten sagen wollten, ebenso mein zweisprachiger Anwalt (Vater Italiener). Das Problem Dialekt besteht also auf beiden Seiten, aber es ist natürlich bequem, nur den Südtirolern die Schuld zu geben.

So., 18.09.2022 - 14:53 Permalink
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Verena Agostini Di., 04.10.2022 - 16:21

Antwort auf von Hartmuth Staffler

Non si sta parlando di un lavoro in particolare, come quello dei carabinieri, in cui si possono trovare molte persone emigrate da poco dal sud Italia. Si parla in generale di questo territorio e in generale l'italiano nato qui o qui da qualche generazione parla italiano correttamente e nella vita quotidiana. Per il gruppo linguistico tedesco è esattamente il contrario, il tedesco scritto non viene parlato praticamente da nessuna parte. Quindi è evidente che il "problema dialetto" esiste per gli italiani, non per i tedeschi.

Di., 04.10.2022 - 16:21 Permalink
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Karl Trojer Mo., 19.09.2022 - 11:26

Deutschsprachige Südtiroler können in Südtirol zwar italienisch lernen, da es keinen hiesigen, italienischen Dialekt gibt und die meisten italienischsprachigen Menschen auch untereinander die Hochsprache sprechen; aber die deutsche Hochsprache kann man hier kaum erlernen, dazu ist der Dialekt zu ausgeprägt. Nach meiner Erfahrung lernt man eine Fremdsprache dann an besten, wenn man für die Dauer von mindestens einem Jahr vollständig in einen Raum eintaucht, in dem die zu erlernende Hochsprache allgemein gesprochen wird.

Mo., 19.09.2022 - 11:26 Permalink
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Verena Agostini Di., 04.10.2022 - 16:28

Antwort auf von Karl Trojer

Esattamente, secondo me è questo il problema. Come risolverlo? Forse con la scuola unica, con associazioni sportive/musicali ecc. uniche, non divise per gruppo linguistico. Perché dubito che si possa sperare in un passaggio alla lingua standard nel quotidiano da parte del gruppo linguistico tedesco. Addirittura mi capita di leggere che molte persone del gruppo linguistico tedesco preferiscono rispondere in italiano perché non conoscono l'Hochdeutsch...come se fosse un'altra lingua che studiano a scuola ma non praticano. Eppure tutto quello che leggono è in lingua standard... mah. Questa cosa mi lascia perplessa.

Di., 04.10.2022 - 16:28 Permalink