Gesellschaft | Intervista

“Non siamo pompieri sociali”

La criminalizzazione del disagio psichico e l’enfatizzazione mediatica dei casi di cronaca che vedono protagonisti i minori possono provocare effetti nefasti.
Koler Peter
Foto: Stefanie Arend

“Vi prego, smettiamo di chiamarle baby gang”.  L’invito spassionato che ha fatto eco in consiglio comunale le settimane scorse era stata pronunciato dal direttore del Forum prevenzione Peter Koler, in occasione di un’audizione sui temi della sicurezza urbana, con specifico riferimento al fenomeno delle cosiddette baby gang. Ad allarmare i consiglieri del comune di Bolzano erano stati una serie di episodi di cronaca, riportati con ampio risalto dai media, e imputati ad alcuni minori del capoluogo.  
Tuttavia, sia l’unità di strada del progetto streetwork.bz (che in soli quattro mesi, da maggio ad agosto, ha effettuato ben 217 uscite di monitoraggio sul territorio), sia il comandante della Comandante della Polizia Municipale Fabrizio Piras, hanno smentito l’esistenza a Bolzano di gruppi organizzati a tal punto da poter essere definite “baby gang”. 
Smorzati i toni, l’attenzione va spostata necessariamente altrove, cambiando prospettiva e individuando le intersezioni che tra mille variabili attraversano la complessità sociale. 
Criminalizzare il disagio, anche psichico, rende difficoltoso ogni tentativo di intervento. Ed ecco perché limitarsi ad applicare il pugno di ferro, percorrere la scorciatoia dell’intervento poliziesco e giudiziario, può avere effetti nefasti.

salto.bz: Koler, molti degli stessi consiglieri comunali che hanno richiesto l’audizione alcune settimane fa, avevano una scarsa conoscenza, se non vera diffidenza, delle modalità di intervento dell’unità di strada. Siete riusciti a smuovere le opinioni delle opposizioni?

Peter Koler: Devo dire che la grandissima maggioranza ci ha dato un feedback positivo, pur riconoscendo di non avere chiaro quale fosse il nostro lavoro. Ad ogni modo, stando al dibattito in aula, i consiglieri sembrano condividere l’importanza di un tipo di approccio sociale nell’affrontare una serie di fenomeni.

Perchè il lavoro dello street worker non viene capito?

L’operatore di strada non deve essere visibile. Il suo compito principale è quello di avviare un contatto con persone o gruppi marginalizzati. Essere identificato come parte del sistema impedisce di entrare in connessione con queste realtà complesse. L’anonimato e il rispetto della privacy sono fattori importantissimi per conquistare la loro fiducia, proprio perché non si tratta di un intervento rivolto al grande pubblico bensì a una minoranza messa all’angolo. C’è poi l’altro estremo.

C’è un’idealizzazione eccessiva del nostro lavoro

Ovvero?

C’è un’idea distorta dell’operatore di strada. Spesso viene trattato come un pompiere sociale, chiamato da una parte all'altra per domare degli incendi. C’è un’idealizzazione eccessiva del nostro lavoro ma tre persone non possono risolvere tutte le problematiche sociali innescate da una combinazione infinita di altri fattori.

Quanto influisce il contesto sociale di appartenenza nella buona riuscita dell’intervento? 

Questo tipo di società produce e tende a spingere ai margini chi lo è sin dall’inizio. Per questo la reintegrazione nel tessuto sociale non è scontata. La differenza la fa il tipo di rete che una città riesce a costruire per non far rimanere le persone sconnesse. L’educatore di strada può riuscire a relazionarsi e a ottenere fiducia ma è un intervento che serve a poco se non ci sono scuole, quartieri, datori di lavoro disponibili a offrire possibilità di reintegrazione reale.

 

Una narrazione mediatica scorretta può avere delle ripercussioni su quel lavoro di sinergia che ha appena menzionato?

Influisce sicuramente, soprattutto perché contribuisce a mischiare e confondere dinamiche decisamente diverse tra di loro. Se un gruppo di adolescenti al parco consuma alcolici e lascia il posto non ordinato possiamo parlare, se proprio vogliamo, di maleducazione. Non si può invocare l’allarme sociale per episodi di questo tipo, soprattutto se poi si va a guardare all’età dei protagonisti. Tuttavia, se per un certo tipo di cronaca questi adolescenti diventano soggetti pericolosi ecco che allora è possibile far scattare tutta una serie di dinamiche. A livello mediatico si crea uno stato di allerta, si definisce baby gang un gruppo che semplicemente è diventato più visibile. A sua volta il gruppo, che magari non era stato nemmeno valutato problematico durante il monitoraggio degli operatori, può trarre forza e ispirazione negativa dal riconoscimento che gli è stato affibbiato. Ecco quindi che un certo tipo di comunicazione rischia di peggiorare una situazione che poteva essere facilmente risolvibile.

È capitato anche questo a Bolzano?

Il caso più emblematico è quello accaduto circa cinque anni fa, quando i giornali locali hanno cominciato per la prima volta a parlare di baby gang. In quel caso i protagonisti erano un gruppo di giovani in cui preesistevano delle situazioni di difficoltà non di poco conto. Per alcuni casi era coinvolto il tribunale dei minori, altri erano seguiti dai servizi sociali. Non avevano nulla che li accomunava se non il senso di appartenenza a quel gruppo che li faceva sentire a casa. Quando i giornali hanno cominciato assiduamente a enfatizzare i casi di cronaca di cui si sono resi protagonisti, utilizzando ossessivamente il termine “baby gang” ecco che allora hanno cominciato a identificarsi con quel nome. La narrazione giornalistica secondo la quale riuscivano a tenere in scacco un intero quartiere ha costituito per loro un riconoscimento che li ha rafforzati più di prima. 
Oggi qualcuno di loro si è salvato, qualcuno è in carcere, qualcun altro è rimasto per strada. La sinergia tra diversi attori ha comunque sfaldato il gruppo e ha mostrato i suoi membri per quello che erano veramente, ovvero dei ragazzi di 14 anni andati dispersi. La baby gang implica un'organizzazione, la gestione di una serie di traffici, riti di iniziazione. Possiamo parlare di questo fenomeno nei sobborghi parigini o newyorkesi. Di certo, almeno per ora, non a Bolzano.

Chi deve essere curato, viene invece arrestato

Un altro episodio particolarmente enfatizzato dai giornali locali, a tal punto da finire su alcune pagine di cronaca nazionale, è  stato il caso di un uomo di origine straniera con gravi problemi psichici continuamente arrestato nei pressi della stazione a causa di atteggiamenti molesti nei confronti di un’edicolante. Quali sono i rischi di ridurre le persone con un disagio psichico a un problema sociale?

Quello è un caso emblematico di un soggetto con un problema psichiatrico, a cui erano associate sindromi psicotiche, positivamente risolto grazie a un intervento sociale applicato in un contesto familiare. La persona in questione entrava e usciva dal carcere. Appena fuori ritornava dall’edicolante per poi venire arrestato nuovamente. La combinazione di un disturbo psichico ad altri fattori strutturali, come un background migratorio, possono contribuire a un mix di fenomeni di difficile trattazione. Non a caso due degli street workers impegnati a Bolzano stiano facendo un percorso di formazione in etnopsichiatria. Questo tipo di persone non sono in cura perché non risultano in carico al Sistema sanitario nazionale. Vivono per strada, spesso con violenze alle spalle. Ci sono gravi scompensi che non solo non vengono riconosciuti come tali ma vengono additati come comportamenti criminali. Questo produce un circolo vizioso per cui anziché trattare il fenomeno sul piano sanitario viene incanalato in quello giudiziario e poliziesco. Chi deve essere curato, viene invece arrestato. Chi è per strada spesso si interfaccia solamente con le forze dell’ordine. Finiscono in carcere e lo stato di salute precipita ulteriormente.  È necessario che la città si rimetta a pianificare le proprie strategie. Le emergenze sono cambiate in questi vent’anni. E il canale sociosanitario deve tornare a essere il primo anello della catena di contatto.