Gesellschaft | Il ritratto

Rosetta, la rivoluzione e l’immersione

L'ex preside Infelise Fronza racconta la fuga da Milano quando Curcio chiamò alla lotta armata, il ritiro, la militanza nel PCI, Langer e l'idea delle sperimentazioni.
rosetta infelise fronza nel 1971
Foto: Fam. Fronza

"Quando Renato Curcio e gli altri dissero che per continuare nella lotta era necessario passare in clandestinità fu un vero choc. Marco disse: Ma cos’è questa, un’operazione della CIA? Io mi alzai. Ero una leader del Collettivo politico metropolitano, e quindi convinta che mi seguissero non dico tutti, ma tanti. Ce ne andammo solo in cinque. La ferita fu così grande, che da quel momento e per parecchi anni io e mio marito abbiamo smesso di fare politica attiva”. Rosetta Infelise Fronza oggi ha 81 anni (Marco Fronza, ex sindacalista Cgil è deceduto nel 2018,) e quando ricorda quella giornata di agosto del 1970 gli occhi grandi e gentili si velano di tristezza e lo sguardo diventa interrogativo, come a cercare di leggere la reazione dell’interlocutore. Lo sgomento è dovuto al fatto che quella riunione del CPM tenutasi a Costaferrata/Pecorile, non lontano da Reggio Emilia, viene comunemente ricordata come l’atto di fondazione delle Brigate Rosse. E’ un argomento di cui Rosetta, arrivata come molti alla sinistra extraparlamentare da “cristiana per il socialismo” e seguace di Don Milani, non ha mai parlato pubblicamente. Ma in realtà l’ex preside della Scuola Archimede, “madre” delle sezioni bilingui, non ha in realtà di che rimproverarsi: è come se fosse scesa precipitosamente da un aeroplano durante la fase di rullaggio, non appena compreso dove i suoi compagni di viaggio avevano deciso di condurlo con una sorta di dirottamento per lei inaspettato. “In quel momento io e Marco realizzammo che quelle persone stavano buttando via il grande lavoro fatto in quegli anni e i sogni di un’intera generazione. Fu una ferita enorme”, ricorda Rosetta, abbassando gli occhi. Una ferita che sta forse iniziando a chiudersi oggi, a oltre 50 anni di distanza.

 

Prima di proseguire nel racconto è necessaria una frettolosa contestualizzazione storica.

L’Italia degli anni ‘60 è un Paese iper conservatore. Il boom economico fa entrare tv e lavatrici in molte case, ma l’industrializzazione a tappe forzate fa sì che nelle fabbriche milioni di operai lavorino 48 ore alla settimana (da contratto) percependo salari da fame. Il “cottimo” è ancora la norma. Al Nord centinaia di migliaia di lavoratori provenienti dal Sud vivono in condizioni abitative disperate. Dal punto di vista strettamente politico i governi centristi democristiani sono tendenzialmente reazionari e trovano talvolta l’appoggio neofascista del Movimento sociale italiano. Le istituzioni sono permeate di figure che hanno mantenuto gli stessi ruoli che avevano nel Ventennio. Sono rimasti praticamente uguali il codice penale, il codice di famiglia, le dinamiche nel mondo della scuola e dell’università. Nel mondo l’attenzione è concentrata sul conflitto in Vietnam e le tensioni da Guerra fredda fanno sì che ovunque la sinistra rischi di arrivare al governo, gli Stati Uniti favoriscano o organizzino direttamente colpi di stato. Pure in Italia nel 1964 si sente il famoso “tintinnar di sciabole” evocato da Nenni e più recentemente da Oscar Luigi Scalfaro. Nel 1967 in Grecia prendono il potere i colonnelli. Spagna e Portogallo sono già governati da dittature fasciste. Nel 1968 anche in Italia esplode la contestazione studentesca e in molti sentono aleggiare il rischio di una svolta autoritaria. La repressione è durissima, gli scontri tra studenti, operai e Polizia sono quotidiani. Il clima diventa sempre più incandescente. Il PCI resta un partito molto forte che cerca inutilmente di accreditarsi come forza di governo.  Ogni mese spuntano come funghi nuovi movimenti extraparlamentari con sigle sempre diverse.

In questo contesto, l’8 settembre 1969, Rosetta Infelise e Marco Fronza contribuiscono alla fondazione del Collettivo politico metropolitano assieme a Renato Curcio, Mara Cagol e Corrado Simioni. Nel gruppo di militanti della sinistra extraparlamentare ci sono operai della Pirelli, tecnici di Ibm e Siemens, membri dei collettivi lavoratori studenti. Il collettivo prende in affitto un vecchio teatro in disuso, nelle vicinanze di Porta Romana e vi partecipano “essenzialmente marxisti-leninisti e cattolici progressisti (o cattolici del dissenso), i primi delusi dalla svolta moderata e dalla conseguente rinuncia alla rivoluzione dei partiti della sinistra storica, Partito comunista in testa, i secondi convinti che fosse necessario un maggiore impegno per modificare l’assetto sociale” (De Prospo-Priore).

Il 12 dicembre 1969, dopo un autunno caldissimo per le lotte operaie (secondo l’Istat scioperarono almeno 7,5 milioni di persone su una popolazione di 53 milioni di abitanti), avviene la strage di piazza Fontana, che presto si configura come strage neofascista e di Stato. Cambia tutto. Il CPM organizza a Chiavari un convegno che propone questa lettura del momento storico: “Così la repressione in Italia è obiettivamente una rottura della stessa legalità costituzionale, promossa dalla destra che è passata all'offensiva. Si tratta in sostanza dell'inizio di una guerra civile strisciante, nel corso della quale la lotta per il potere tra destra e sinistra si farà sempre più dura, anche se tenderà a svolgersi «sopra la testa delle masse», e con la possibilità di compromessi istituzionali (la repubblica presidenziale, i governi d'ordine, le tregue sindacali o politiche, ecc.). E' questo il duro terreno di lotta sul quale dovremo misurarci”. Con gli occhi di oggi il pensiero può far sorridere, ma per i “movimentisti” dell’epoca la rivoluzione è una cosa seria, palpabile, e ogni giorno più necessaria. Si discute quotidianamente la via migliore per reagire alla repressione poliziesca. Movimenti come Lotta continua pensano che la strada sia l’insurrezione e lo scontro a viso aperto. Altri gruppi pensano all’entrata in clandestinità e a colpire “il cuore dello Stato”. Il clima, per usare l’espressione del CPM, è da guerra civile strisciante.

E Rosetta come arriva al CPM?

Dopo la laurea in filosofia alla Cattolica l’ex preside di origine calabrese vive e insegna nella Milano via via sempre più irrequieta degli Anni Sessanta. Il suo impegno politico, racconta, “comincia nel Gruppo unitario milanese per la pace nel Vietnam”, un organismo del quale, dopo ore di ricerche sul web, riesco a trovare dapprima solo una traccia, e cioè questa immagine..

 

Me la faccio inviare in HD dall’archivio lombardo che la custodisce e la giro a Rosetta. “Sì, quelli eravamo proprio noi. Vedere questa foto, mi commuove”, risponde.

Non riesco a rassegnarmi al fatto che non vi siano altre tracce.  Provo tutte le occorrenze possibili eppure non trovo nulla di scritto, un volantino, due righe en passant in uno dei miliardi di documenti che si trovano in rete. Come avviene con il telecomando della tv, dopo aver cercato e ricercato per ore sempre negli stessi archivi del web spunta questa.

 

Mi viene un sussulto, ma la ragazza al centro è di profilo, non sono certo che si tratti proprio di Rosetta, anche perché in bassa definizione proprio non si capisce. Dopo un lungo tira e molla il Cfp Bauer mi manda la versione in HD. La invio via whatsapp. “E’ per caso lei quella nella foto?” “Certo, sono io, con il mio adorato baschetto. Voglio stamparla e mostrarla ai miei nipoti”, dice.

 

Segno che, allora, la Rosetta che diventava via via più grande non ha mai smesso di riconoscere alla Rosetta di allora la totale buona fede con cui si è messa in gioco, spendendo molte energie intellettuali e fisiche per quella che lei, assieme a molte altre centinaia di migliaia di persone, riteneva una giusta causa: la lotta di classe per rendere l’Italia un paese migliore. “Per me, per molti di noi, la rivoluzione si sarebbe dovuta compiere attraverso le proteste delle masse, paralizzando il Paese con un grande sciopero. Non ho mai concepito l’agire clandestinamente e tanto meno con la violenza”, racconta.

Altra breve divagazione.

Se si guardano le foto delle manifestazioni pro-Vietnam antecedenti al fatidico anno 1968, anche solo del 1967, come ad esempio questa,

 

appare evidente che le strade erano percorse da famiglie, normali “signore e signori” con cartelli e cori educati. Non si vedono forze dell’ordine. Confrontando le immagini con quelle del 1969/70, sembrano essere passati in realtà 10 o 15 anni. Dopo gli scontri di Valle Giulia del marzo ’68 il Paese subisce una metamorfosi velocissima ed entra in una vera e propria spirale di violenza. Giovani e operai alzano il livello della protesta, e la Polizia spesso reagisce in modo sproporzionato.

Ma qual è il percorso che ha portato Rosetta a quella riunione nell’osteria da Gianni in un paese sperduto degli Appennini nell’ agosto 1970? Ora il passo indietro bisogna farlo nella sua vita.

"Sono di Catanzaro – racconta - dove ho fatto il liceo. Sarei dovuta andare studiare a Messina, appoggiandomi a mio fratello, che stava a Reggio Calabria e fare la pendolare con il ferryboat. Ma io soffro terribilmente il mal di mare … . Nel 1959 l’Università Cattolica del Sacro cuore di Milano indice un concorso per quattro posti gratuiti. Vinco la selezione assieme, tra gli altri, a Luisa Muraro, che poi diventerà una nota femminista e filosofa e che, tra le altre cose, collaborerà alla pubblicazione "Il pensiero filosofico delle donne ed il '900" ad opera dell'Istituto Scienze religiose di Bolzano. Ricordo che prima dell’esito del concorso lei mi chiede: se non vinci il posto, cosa farai? Io rispondo: morirò sul ferryboat (ride). Gli anni universitari sono molto belli e intensi. Tra i docenti ho Emanuele Severino, con cui faccio due esami, la storica della filosofia Sofia Vanni Rovighi e Gustavo Bontadini, di cui rimango assistente per parecchi anni. In quel periodo  alla Cattolica c’è anche Lidia Prisca Menapace, che insegna italiano. E’ così brava che vado alle sue lezioni anche se non sono nel mio corso. Mi laureo con una tesi dal titolo 'Per una possibile interpretazione del pensiero di Marx' (la tesi è stata pubblicata e si può ancora ordinare, qui). Poi inizio subito ad insegnare in un Liceo a Monza e con questi studenti, per dire, sono ancora in contatto".

"Come ho conosciuto Marco? Mentre ero a Milano - continua -  lui era in Israele con la comunità ebraica di Merano ed aveva fatto il pecoraio in un Kibbutz per un anno. Era iscritto alla Cattolica e non pensava in realtà di tornare in Italia. Lo fa quando sente che abbiamo occupato l’università. Allora io avevo un amico consigliere comunale che una sera mi invita ad una riunione in una sezione del PCI ingraiana, quindi molto a sinistra. Ad un certo punto vedo da lontano Marco e ho come un presagio: è lui, mi dico. Ci hanno incaricati di fare un volantino assieme e da allora, come dico io, non si è più schiodato dalla mia vita (ride)".

In quel momento storico c’era una coincidenza tra le idee che si volevano portare avanti e la piazza. Tutti avevano voglia di condividere le loro visioni con gli altri e di farlo in piazza

La prima grande svolta è, dunque, l’occupazione della Cattolica.

"Siamo stati i primi, era il novembre 1967. Io ero assistente assieme, fra gli altri, a Chiara Saraceno e Gian Enrico Rusconi e abbiamo aderito all’occupazione con documento di appoggio, in quanto gli studenti non chiedevano la luna, ma cose giuste e concrete come la diminuzione delle tasse universitarie. Lo sgombero da parte della Polizia fu molto tranquillo rispetto a quello che si vedrà negli anni successivi. I poliziotti non ci vedevano come nemici e nemmeno noi vedevamo come nemici i poliziotti. Anzi eravamo convinti di poterli convincere delle nostre ragioni, se devo essere sincera. Le autorità ci hanno allontanato dall’Università cercando di non rovinare la nostra esistenza. A me ad esempio hanno offerto una cattedra alla facoltà di Sociologia a Trento ma la sociologia non mi piaceva. Ho seguito invece il consiglio di Sofia Vanni Rovighi, professoressa che insegnava Kant come nessun altro: Lei, Infelise, mi disse, faccia tutti i concorsi per insegnare nei licei. E così ho fatto".

"In quel momento storico – ricorda Rosetta - c’era una coincidenza tra le idee che si volevano portare avanti e la piazza. Tutti avevano voglia di condividere le loro visioni con gli altri e di farlo in piazza. La nostra attività comincia con una serie di volantinaggi del Gruppo unitario milanese per la pace nel Vietnam. Andavamo alle 5 del mattino fuori dalle fabbriche e cercavamo di capire come venivano percepiti i messaggi. Se i volantini non venivano buttati per terra, voleva dire che gli operai li avrebbero letti e per noi era questa la cosa importante. Quindi man mano l’attività viene portata alle altre fabbriche, alla Pirelli, alla Ibm. Lì oltre agli operai c’erano anche quelli che venivano definiti colletti bianchi che iniziavano a schierarsi dalla parte degli operai. Tra questi emergevano figure trascinanti come Raffaello De Mori, del Comitato unitario di Base della Pirelli, che avevano un grado di elaborazione molto alto e facevano da tramite tra noi e gli operai della fabbrica. C’era un grande fermento e io molte volte alla settimana andavo a volantinare prima di andare a insegnare a scuola".

A questo punto avviene l’incontro di Rosetta con Renato Curcio e Margherita Cagol. Che tipi erano?

 

“Quando si parla del passato si rischia spesso di modificare la realtà alla luce del percorso che si è fatto. Cerco dunque di essere obiettiva. Io da sempre, ho un pregiudizio involontario nel mio modo di considerare le persone, ed è quello del lavoro. Io insegnavo, fare attività politica per me e per molti altri che lavoravano, costava un grande impegno. L’unica cosa che avevo notato è che entrambi non lavoravano. Quando arrivarono anche loro alla Pirelli chiesi a Curcio come si guadagnasse da vivere. Mi disse: ‘io ho una madre in Inghilterra che mi manda dei pacchi’, ma non era ovviamente vero. Questo credo di ricordarlo perché con il senno del poi avrei fatto qualche pensiero in più sul fatto che già allora fossero militanti “professionisti”. Ma allora lo notai e basta, e andai oltre. Dopodiché non posso dire che ci fossero delle fratture interne fin dagli inizi. C’era un confronto sulle idee che definirei normale. Tra il 1969 e il 1970 ci impegnammo davvero molto per portare avanti i comitati di base in diverse fabbriche e per il coinvolgimento dei colletti bianchi. Ricordo che pubblicammo un primo opuscolo con il CUB della Pirelli che non faceva altro che riflettere sulla necessità della crescita della classe operaia che non doveva essere mobilitata solo per le questioni sindacali. L’autunno caldo fu la vera svolta e poi, ovviamente, la bomba di piazza Fontana. In molti pensavano che ci sarebbe stato un colpo di Stato. Io sinceramente non credevo davvero ci fosse quel rischio. Riguardando indietro, direi che siamo stati davvero degli utopisti. Credevamo sul serio che il movimento di contestazione sarebbe cresciuto sempre di più, come in effetti stava avvenendo, e che questo avrebbe portato a forti cambiamenti sociali e avrebbe dato la convinzione alla base per cambiare i sindacati e unire nella lotta operai e impiegati. Io da buona luxemburghiana (da Rosa Luxemburg, ndr) credevo che da queste spinte si sarebbe creata una situazione radicalmente nuova nel nostro Paese. Invece non andò affatto così. Lo Stato andò avanti per la propria strada".

Quando arrivarono anche loro alla Pirelli chiesi a Curcio come si guadagnasse da vivere. Mi disse: ‘io ho una madre in Inghilterra che mi manda dei pacchi’, ma non era ovviamente vero.

Il 1970 è un anno tesissimo. Il 17 agosto a Costaferrata di Casina (Reggio Emilia), nei pressi di Pecorile, si tiene, come detto, un convegno con una settantina i partecipanti. Oltre ai nomi fatti finora ci sono Alberto Franceschini, Prospero Gallinari, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Roberto Ognibene, che poi diventeranno tutti brigatisti. Le discussioni si svolgono nei boschi, nei campi della zona e proseguono nella trattoria “da Gianni”.

A raccontare per primo nero su bianco la vicenda della partecipazione di Rosetta e Marco all’incontro di Costferrata/Pecorile  è stato il loro grande amico e poeta Franco Loi, in un bellissimo libro di memorie uscito qualche anno fa.  Online poi si trova qualche altra traccia, con alcune imprecisioni, come una successiva adesione a Lotta continua che in realtà non c’è mai stata.

 

Questo è ciò che ricorda Rosetta a oltre 50 anni di distanza.

“Prima che inizi il convegno dell’inizio delle relazioni diamo tutte le nostre carte di identità, ed è per questo che resta traccia di tutti i partecipanti. Il tema dell’incontro è l’imperialismo. Essendo una delle leader del Collettivo politico io devo fare una relazione. Al mattino i gli altri leader del gruppo non si vedono. Alle 15 ricompaiono e invece di ascoltare la mia relazione sull’imperialismo fanno la proposta di entrare in clandestinità per continuare attraverso la lotta armata. Spiegano quali sono le condizioni, dicono che bisogna azzerare tutti i legami, che le persone non si possono sposare …  Per me e Marco fu un vero choc”.

Un colpo al cuore. All’improvviso per Rosetta e Marco si sgretola tutto. “In un istante ho realizzato che i grandi sforzi, il grande lavoro e il grande impegno messi da tutti noi venivano all’improvviso buttati via. Ricordo lo sgomento del momento in cui chiesero chi ci stava. Mi alzai, sicura che si alzassero in tanti. Uscimmo in cinque”. Al termine di quella giornata fu trovato il nome al neonato movimento: Brigate Rosse. Si decise anche il simbolo, la stella a cinque punte.

 

“Io dopo quel momento ho detto: con queste persone non voglio più avere nulla a che fare e ho buttato via tutti i libri tutte le riviste tutte le opere d’arte che mi avevano regalato. Non ho più voluto saperne nulla. E’ stato un trauma per me molto doloroso. Vedere i tuoi compagni, le persone che mangiavano con te tutti i giorni, che prendono quella strada è stato difficile da credere possibile. Quando Marco disse: questa è un’operazione della Cia, si alzò Corrado Simioni e disse: “se c’è qualcuno della CIA quello sono io”, e rise. Io, per quello che c’è stato negli anni successivi, a partire dall’uccisione di Aldo Moro, devo dire che resto convinta ancora adesso che ci sia stato una mano esterna a spingere verso quella direzione”.

Dunque, questo è un terreno scivolosissimo sul quale non è possibile addentrarsi senza usare condizionali. Su Corrado Simioni agente della CIA si è detto e scritto molto, anche da parte di un capo storico delle Br come Franceschini, non è un’opinione di Rosetta e Marco. Certo è che l’ex militante del partito socialista, “il grande vecchio del terrorismo” cui alludeva regolarmente Bettino Craxi, fu un personaggio controverso. Il suo Superclan (destino) trapiantato a Parigi e la scuola di lingue Hyperion restano per molti versi ancora un oggetto molto misterioso.

La domanda è: come è stato possibile non percepire prima che quella direzione stava per essere imboccata? “Ci ho pensato a lungo. Per me era un’opzione talmente inconcepibile, che non credevo che i compagni di allora la potessero prendere sul serio. All’epoca c’era tutta una serie di persone che ritenevano che la lotta partigiana non fosse stata portata a compimento. Moltissimi di quelli che poi si sono impegnati nella lotta armata avevano famigliari, nonni che erano stati partigiani. Quindi forse da subito avevano considerato l’opzione della violenza come reale. Il non avere partigiani nella nostra genealogia può aver forse creato una frattura “culturale” della quale non eravamo neppure coscienti. O almeno, è questa una delle spiegazioni che mi sono data. Io ero una cristiana per il socialismo, una cattolica del dissenso, e nessuna tra le persone che ho frequentato anche dopo con la stessa provenienza culturale avevano mai concepito l’uso della violenza. Per me, per noi, il punto di riferimento era Don Milani”. E non i Tupamaros.

La nuova vita

Dopo lo spavento di Pecorile, Rosetta e Marco sono storditi al punto da restare “in panchina” dal punto di vista politico per  quasi un decennio, riavvicinandosi all’attivismo con la Neue Linke di Alexander Langer, nel 1978.  Ben inteso: Rosetta fa l’insegnante di liceo ma continua ad avere l’approccio della studiosa “di sinistra”, passando dalla tesi di laurea su Marx all’amore agli intellettuali della cosiddetta Scuola di Francoforte. A lei, per dire, si deve il primo articolo in lingua italiana su Walter Benjamin (pubblicato niente meno che sulla prestigiosa rivista Aut Aut nel 1979), allora sconosciuto in Italia. “Durante l’università – racconta - ho iniziato a studiare da subito il tedesco, che è una lingua che amo e trovo molto adatta alla Filosofia, la mia materia, e permette di leggere i libri dei grandi pensatori tedeschi in originale. Per questo negli anni a venire feci diversi soggiorni a Berlino e l’idea dell’immersione linguistica venne proprio da un’esperienza nella capitale tedesca, ma riuscii a realizzarla solo molti anni più tardi”. Altro grande amore filosofico al quale l'ex preside ha dedicato lunghi studi è quello per Hannah Arendt. “Sono molto felice di aver partecipato al percorso che ha portato ad apporre in piazza Tribunale la scritta “nessuno ha il diritto di obbedire”, spiega.

Nei primissimi anni Settanta Rosetta e Marco frequentano persone attive in politica ma non aderiscono ad alcun movimento. “Noi abbiamo sempre avuto buoni amici in Lotta continua, ad esempio, a partire da Alex Langer, ma non abbiamo mai aderito al movimento. Frequentavamo, però, la comunità della Visitazione sorta attorno a Don Giuseppe Rauzi. I cattolici di sinistra si trovano ovunque tra loro, e quello fu per noi un punto di riferimento importante per moltissimi anni. In verità fu anche un punto centrale di incontro e di riferimento per credenti e non credenti bolzanini e di intellettuali  di entrambi i gruppi linguistici”.

 

Poi all’inizio degli anni 80, apprezzando molto Enrico Berlinguer, Rosetta si iscrive al PCI , si candida, e diventa capogruppo in consiglio comunale a Bolzano e poi, partire dal 1992, la notissima “inventrice”, assieme a Mirca Passarella, dell’immersione linguistica. “Vinsi un concorso per diventare dirigente. Iniziai alle Fermi e lì accadde un episodio molto importante. Un giorno arrivai a scuola, e durante un incontro salutai gli studenti in tedesco. Rimasi davvero indignata nello scoprire che, poveri, non erano in grado neanche di rispondere ad un saluto. Con 2020 ore di tedesco? Chiuderebbero tutte le scuole di lingue se con quel monte ore non riuscissero a far imparare la lingua agli studenti, mi dissi. Parlai con altri colleghi e capii che dovevamo fare qualcosa. Poi arrivai alle Archimede e lì cominciò tutto”.

Altro inciso. L’anno in cui partono le primissime sperimentazioni linguistiche è quello della quietanza liberatoria dell’Austria. Inizia di fatto la fase dell’autonomia dinamica, ma l’eco degli ultimi attentati di Ein Tirol del 1988 non è poi così lontana.  Il clima del 1992 non è quello di oggi. La destra italiana rema ancora contro il bilinguismo all'insegna del “qui siamo in Italia e si parla italiano”.  L’Svp ancora più di oggi è tenace oppositrice di qualunque ipotesi di immersione linguistica anche nelle scuole italiane. La motivazione che viene data e che ancora oggi è difficile da comprendere è che questa apertura potrebbe scatenare gli appetiti anche nel mondo di lingua tedesca e quindi indurre a violare l’art. 19 dello Statuto.

Rosetta, animo ribelle, decide che è il momento di provare a fare qualcosa di concreto per la convivenza. “Siamo riusciti ad avviare la sperimentazione grazie all’autorizzazione del ministero che prevedeva due ore di insegnamento veicolare della geografia in lingua tedesca. Ci arriviamo però dopo un percorso di studio e approfondimento.  Proprio durante un soggiorno a Berlino mi dicono: dovete fare come abbiamo fatto noi nei quartieri turchi. Il metodo è appunto quello dell’insegnamento veicolare. E' l’intendente Bruna Rauzi a muoversi con il ministero e ad ottenere le autorizzazioni”.

La morte di Alex Langer è stata una perdita incolmabile per il territorio. Da quel momento si è interrotto il famoso “ponte”

Negli anni Novanta si tengono poi grandi convegni e nascono, assumendo velocemente un ruolo centrale nel dibattito pubblico, i Genitori per il bilinguismo. “Capiamo subito che è necessario muoversi su terreni paralleli – spiega -  preparando i docenti e motivando il territorio in modo che non ci sia nemico. Quello che mi muove è il desiderio di superare i blocchi di appartenenza linguistica, dare un contributo per far uscire le persone dall’isola monolingue nella quale sono costrette da un sistema nato per tenere le due società divise. Nei primissimi anni delle sperimentazioni accade che una mattina arrivo a scuola e trovo una parata di televisioni e giornalisti locali. Mi chiedono se è vero che nella mia scuola si fa una cosa illegale e se si va oltre ciò che è stato autorizzato. Io non mi spavento e rispondo serenamente la verità, e cioè che noi facevamo quello che era autorizzato dal ministero. Non ho mai saputo chi c’era dietro e come mai i giornalisti vennero tutti assieme. Ad ogni modo quello è il momento in cui capisco che abbiamo l’attenzione della politica e dei media e che quindi il nostro esperimento non è puramente didattico. Devo comunque riconoscere che ho sempre avuto un ottimo rapporto con l'ex presidente Durnwalder. Credo che dopo quel fatto sia divenuto chiaro a tutti che non facevamo nulla di illegale e che saremmo andati avanti per la nostra strada”.

 

Raccontato così sembra un percorso tutto sommato lineare. Ma le cose stanno diversamente. “Abbiamo speso energie spropositate per ottenere una cosa davvero semplice. Ci sono stati anni di incertezza, la sperimentazione veniva votata ogni anno dal collegio docenti, ma devo dire che abbiamo trovato un grande sostegno da parte degli Istituti pedagogici e piano piano le sperimentazioni sono diventate la normalità. Oggi però credo che l’insegnamento veicolare non vada impartito indiscriminatamente, ci vorrebbe prima una scelta da parte delle famiglie. L’ultimo step che abbiamo fatto è stato poi quello delle sezioni trilingui, che devono preparare i ragazzi all’Università trilingue”.

Risultati questi, dei quali il suo caro amico Langer sarebbe andato fiero. Quando parla di "Alex", Rosetta si intristisce. “Quello con lui è stato per noi un rapporto privilegiatissimo. Avevamo una grande affinità. La sua morte è stata per me, per noi, un dolore enorme. Ed è stata una perdita incolmabile per la città di Bolzano, per il territorio. Da quel momento si è interrotto il famoso “ponte”, nessuno è riuscito o ha voluto portare avanti con la stessa determinazione e autorevolezza il tema della convivenza. Credo che la città gli sarà debitrice per sempre. Nel 1995 lui voleva diventare veramente sindaco, e non voglio immaginare che meravigliosa rivoluzione sarebbe stata se ci fosse riuscito. Quell'anno nessuno fece un piccolo passo verso di lui. Ricordo che chiamai diversi politici, dicendo, vi prego chiamate Langer, dategli il vostro plauso. Non si mosse nessuno. Alex in quel momento aveva molti pesi, primo fra tutti la guerra in ex Jugoslavia. Per  usare un’espressione della Arendt, gli è mancata un’oasi. E per me, per noi, per questa terra, si è aperta una voragine”.

Per il piccolo Sudtirolo ultra conservatore quella di Rosetta Infelise Fronza e Mirka Passarella è stata una rivoluzione piuttosto grande che ha permesso di aggirare legalmente l’interpretazione restrittiva data all’articolo 19 dello Statuto. Ma, per portare gli effetti sperati, avrebbe dovuto essere accompagnata da una miriade di altri passi che nessuno ha finora ha avuto la minima intenzione di fare. Negli anni le conoscenze linguistiche di una percentuale significativa di ragazzi di lingua italiana sono migliorate rispetto ad un tempo, ma si è lontanissimi dall’essere una società realmente plurilingue. Nella scuola tedesca, per dire, l'insegnamento della seconda avviene più o meno come negli anni Ottanta del secolo scorso. Ma Rosetta, intanto, il suo l'ha fatto.

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Giancarlo Riccio Sa., 11.03.2023 - 15:29

Non ne ho nessun merito ma mi rallegro molto nell'essere il primo a intervenire. I complimenti a Fabio per il pezzo sono superflui e forse (ma spero davvero di no) anche il mio abbraccio, dolce e forte, a Rosetta. Lei è stata la mia insegnante al "Torricelli" per due anni fino alla Matura. Per vari motivi frequentavo molto anche Alex Langer. Ho imparato da loro, almeno qualcosa, senza che mai questi due magnifici ragazzi si mettessero in cattedra.

Sa., 11.03.2023 - 15:29 Permalink
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Sergio Fratucello Sa., 11.03.2023 - 16:38

La mia impressione è che non ci sia da parte di entrambi gruppi linguistici un vero interesse all'apprendimento dell'altra lingua, altrimenti si sarebbero trovate valide soluzioni dopo tutti questi anni.

Sa., 11.03.2023 - 16:38 Permalink
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Enrico Hell Sa., 11.03.2023 - 21:50

Sono d'accordo con la conclusione di questo bellissimo articolo di Fabio Gobbato:
"Quella di Rosetta Infelise Fronza (...) è stata una rivoluzione piuttosto grande che ha permesso di aggirare legalmente l’interpretazione restrittiva data all’articolo 19 dello Statuto. Ma, per portare gli effetti sperati, avrebbe dovuto essere accompagnata da una miriade di altri passi che nessuno ha finora ha avuto la minima intenzione di fare."

I passi ad oggi non fatti sono davvero molti e cerco di elencarli e descriverli:

- I passi mancanti della politica.
la politica non ha mai proposto norme positive per una interpretazione dell'articolo 19 che includesse l'immersione. Fa accezione una proposta di modifica dell'art 19 dello Statuto, presentata nel 2017 dall'allora senatore indipendente Francesco Palermo, poi del tutto ignorata al successivo rinnovo delle Camere.
http://www.gebi.bz.it/bilinguismo/?p=141
Ma si potrebbe anche pensare a una norma di attuazione che oggi regolamenti l'introduzione dell'immersione "CLIL", da anni raccomandata dall'Unione Europea, nelle scuole dell'Alto Adige.

- I passi mancanti dell'Amministrazione.
l'immersione di Rosetta Fronza era pensata come un vero e proprio programma di apprendimento a lungo termine di contenuti in altra lingua. Serviva dunque il supporto normativo dell'Amministrazione provinciale per regolamentare il passaggio tra ordini e gradi di scuole diverse secondo un coerente programma di immersione. Infatti se la scuola superiore non conosce quello che è stato fatto linguisticamente e contenutisticamente alle scuola media e la scuola media non conosce quello che è stato svolto alla scuola primaria il programma non funziona. L'amministrazione provinciale questo tipo di supporto normativo non lo sta ancora dando. E i genitori non sanno cosa avverrà al momento del passaggio dei propri figli a una scuola di livello superiore.

- I passi mancanti dei Sindacati.
I Sindacati hanno mantenuto una visione miope secondo la quale l'introduzione dell'immersione linguistica nella seconda lingua "ruberebbe" posti di lavoro agli insegnanti di prima lingua. Per questo assistiamo ancora oggi a resistenze sindacali all'immersione.

- I passi metodologici mancanti.
Non è ancora a tutt'oggi chiaro che l'immersione (o in una sua versione più ridotta "CLIL") propone sempre i contenuti in seconda lingua senza ricorso alla traduzione. L'affiancamento di insegnanti di prima lingua a insegnanti CLIL significa in realtà fare ricorso proprio alla traduzione vanificando la metodologia CLIL e generando costi e organici gonfiati.
Non è nemmeno a tutti chiaro che l'immersione non sacrifica mai le materie alla lingua. Se questo avviene e a giustificazione si ricorre all'affiancamento di insegnanti di materia in prima lingua, allora quella non è immersione o non è un buon CLIL.

-La mancanza di consapevolezza teorica.
L'immersione presuppone che ogni lingua sia di per se capace di esprimere i medesimi contenuti fondamentali. In Alto Adige tuttavia, è radicata la convinzione opposta che lingua e cultura siano aspetti inscindibili, due facce della medesima, unica medaglia. Secondo questa ipotesi una lingua soltanto può esprimere una cultura. Questa ipotesi è alla base della posizione SVP volta a mantenere scuole rigidamente monolingui con l'obiettivo di non compromettere, nel caso della scuola in lingua tedesca, la cultura tedesca. Questa ipotesi giustifica tuttavia anche chi, pur essendo genericamente a favore di una scuola bilingue, nega il valore dell'immersione, a volte bollandola come utilitaristica e argomentando che solo l'incontro interculturale, in particolare al di fuori dalla scuola, può dare lingua. Serve quindi una seria riflessione teorica in Alto Adige sul rapporto lingua cultura.

- I passi mancanti del mondo accademico
Ad oggi l'Università del territorio non ha ancora realizzato un intervento sistemico e non episodico per il monitoraggio e la valutazione dei programmi di immersione e per la correlata formazione degli insegnanti.
La ricerca accademica inoltre sembra avere spesso come presupposto guida l'ipotesi Whorf-Sapir (lingua e cultura come aspetti inscindibili).

- I passi mancanti della società.
L'azione di stimolo delle famiglie è fondamentale per la realizzazione di un programma di immersione. Ad oggi le famiglie non sembrano rivestire un ruolo di reale interlocuzione con Amministrazione, Politica e Ricerca.

Sa., 11.03.2023 - 21:50 Permalink
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Simonetta Nardin So., 12.03.2023 - 12:51

Grazie a Rosetta Fronza per la preziosa testimonianza, e grazie davvero a Fabio per averla raccolta. È importante ricordare e capire quella stagione di cambiamento e le preziose persone che l’hanno popolata - a noi la riflessione sulla miriade di altri passi mancanti.

So., 12.03.2023 - 12:51 Permalink