Politik | La memoria

Alcide

Ripensando alla "DC di Berloffa"

Il termine riaffiora nell'autoritratto di uno dei possibili candidati alla carica di sindaco di Bolzano. "provengo - dice- dalla DC di Berloffa". Stupore venato da un po' di sarcastica diffidenza da parte degli interlocutori. Pare un richiamo ad un mondo consegnato agli archivi della storia, anzichè alla memoria del passato prossimo. Eppure è vero. Alcide Berloffa esce di scena, politicamente parlando, nei primi anni '90. E' passato quasi un quarto di secolo.  Per chi non ha superato la fatidica soglia degli "anta" è un illustre sconosciuto. Può giovare a rievocarne la figura dunque questo ritratto, scritto tempo fa, sulle ali della memoria e di un po' di emozione.

 

Dovevi scegliere uno dei giorni addossati al fine settimana. Suonavi al citofono della sede bolzanina della Democrazia Cristiana, in un piccolo cortile di via Isarco. Entravi, per poi percorrere un lungo corridoio semibuio, una grande sala, dove il lunedì sera si celebrava il rito della direzione provinciale, infine un piccolo atrio, buio anch'esso. Da una porta semichiusa arrivavano una lama di luce e una voce gradevolmente tenorile. Se avevi pazienza o necessità di attendere, alla fine, inevitabilmente, quella voce avrebbe pronunciato, in dialetto trentino ma senza alcuna inflessione, una frase precisa: "No se pol nar a dir zerte robe ‘n giro. Bisogna taser, taser, taser….”.

Una frase che è stato per oltre vent'anni il marchio di fabbrica, il “brand” come si direbbe oggi, di Alcide Berloffa, deputato democristiano e poi presidente quasi a vita delle commissioni dei sei e dei dodici, istituite per assicurare l'attuazione del secondo statuto di autonomia.

Non ho conosciuto per ragioni anagrafiche il Berloffa impegnato direttamente in politica negli anni in cui, grazie ad un sostegno della Dc di Trento che si sarebbe poi ripetuto molto raramente, riuscì a entrare in Parlamento. Ho conosciuto bene però il Berloffa degli anni più duri, quelli nei quali l'attuazione dell'autonomia pareva essersi irrimediabilmente impantanata in un groviglio di contrapposizioni etniche e di furbizie politiche. Posso dire di non aver mai conosciuto un uomo che esercitasse un ruolo politico di rilievo e che, come lui, fosse al contempo così assolutamente impolitico da bruciare sull'altare di una missione, molto del consenso che con il suo partito aveva accumulato in provincia di Bolzano negli anni precedenti.

Per capire Berloffa occorre andare a riscoprire quelli che sono stati i suoi padri politici e quelli che sono divenuti i suoi referenti principali nel corso dei decenni. Tra i padri indubbiamente Alcide de Gasperi, ma l’ispiratore vero fu soprattutto Aldo Moro, grazie ad un’identità di vedute maturata nel corso dell'evoluzione politica del partito cattolico e affinata da numerosi incontri personali, alcuni dei quali avvenuti nel Trentino durante le vacanze dello statista pugliese. Ed è Aldo Moro, tra tutti, il politico italiano che più compiutamente forse comprese, negli anni 60, che occorreva arrivare, attraverso il dialogo e non con la contrapposizione cieca della forza, a trovare una soluzione per la gravissima crisi che aveva mandato a gambe all'aria la prima autonomia regionale del 1948. Erano in molti in quegli anni, a Roma e a Bolzano, a pensare che la questione altoatesina potesse essere ancora risolta intrecciando metodi già sperimentati dal fascismo per l'italianizzazione forzata della provincia e la repressione militare dell'irredentismo sud tirolese, con qualche concessione e molte furbizie. Una politica che giorno per giorno si scontrava con la durezza dei nuovi vertici SVP, sostenuti da un’Austria che aveva riconquistato da poco piena legittimità internazionale.

Una politica che a Bolzano trovava consensi non solo nella destra post fascista, ma anche in ampi strati del partito cattolico di maggioranza relativa che facevano riferimento a quegli ambienti trentini per i quali il”Los von Trient “ di Silvius Magnago era stato un affronto duro da digerire. L'intuizione di Berloffa e di quelli che poi saranno etichettati assieme a lui come componenti della cosiddetta sinistra Dc, fu quella di rovesciare i termini della questione. Basta – dissero- con lo scontro politico e militare. Per togliere spazio ai fanatici terroristi e agli oscuri provocatori che li contrastavano, occorreva restituire il primato alla politica dell'accordo. Si sviluppò così la fase finale delle trattative con Bolzano e Vienna dalle quali scaturì l'ipotesi di accordo comunemente conosciuta come “pacchetto” per l'alto Adige e che poi, grazie ad un doppio voto parlamentare, divenne legge costituzionale e contenitore del secondo statuto di autonomia per la regione.

Il più era fatto ma le 137 norme varate dal Parlamento, con un voto favorevole del Partito Comunista, che valse a evitare la possibilità di un futuro referendum popolare, dovevano trovare attuazione pratica. Lo stesso statuto prevedeva che questo compito sarebbe stato affidato a due commissioni paritetiche tra Stato regione e province autonome di Trento e Bolzano, le quali avrebbero dovuto definire tutte le norme di attuazione.

Un lavoro che nelle previsioni doveva durare al massimo due anni e che invece si protrasse per un ventennio. A dirigere e coordinare il tutto fu chiamato lui, Alcide Berloffa, nato a Sardagna, sopra Trento nel 1922, trasferitosi con la famiglia in giovane età a Bolzano, attivo in politica e nei movimenti cattolici nell'immediato dopoguerra, consigliere comunale bolzanino dal 1948, deputato dal 1953.

Non più rieletto alla Camera dopo il 1976, fu nominato consigliere di Stato, ma il suo tempo, la sua attenzione, la sua passione furono interamente assorbiti da un compito solo: quello di condurre in porto nel migliore dei modi l'attuazione dello statuto.

Compito gravoso. La nuova autonomia era nata nel pieno di una burrasca politica che aveva flagellato sia la sponda tedesca sia quella italiana. In campo sudtirolese Silvius  Magnago aveva dovuto faticare non poco, al congresso di Merano del 1968, per sconfiggere l'ala dei “duri” che nulla volevano sapere di una possibile intesa. In campo italiano, come detto, erano in molti a vaticinare disastri e umiliazioni in conseguenza del progressivo trasferimento di poteri alla provincia autonoma e quindi alla maggioranza di lingua tedesca: una composita alleanza che andava dalla destra missina alla burocrazia statale, ad alti gradi militari a esponenti del mondo economico. Le profezie cominciarono inevitabilmente ad avverarsi attorno al 1976 quando entrarono in vigore le prime norme di attuazione di un certo rilievo politico: quelle sul bilinguismo nei pubblici uffici e sulla proporzionale etnica che sono state per decenni le bestie nere del gruppo linguistico italiano. Erano state varate dal governo, ma a predisporre era stata la Commissione dei sei, guidata da Berloffa. E fu allora che l'ondata di polemiche e di vero e proprio odio nei suoi confronti raggiunse il culmine.

Le riunioni della commissione si svolgevano a Roma, anche se per la gran parte i suoi componenti vivevano a Bolzano. Anche questa fu una scelta fatta per sottrarre l'organismo alle virulente polemiche locali, ma che indubbiamente contribuì ad allontanarlo anche dalla realtà dove le sue decisioni sarebbero state calate e renderlo ancor più inviso agli altoatesini di lingua italiana. Per parte italiana a occupare il posto in commissione erano funzionari del Governo che Bolzano l’avevano vista solo in cartolina mentre la SVP spediva a Roma i suoi cervelli giuridici migliori come Roland Riz, e i suoi mastini più tenaci come quell'Alfons Benedikter che condusse su delega di Magnago tutte le trattative dal 1972 alla chiusura.

Per vent'anni, regolare come un metronomo, Alcide Berloffa proseguì quel pendolarismo con la capitale che aveva inaugurato già in precedenza quando era stato eletto onorevole. Ogni settimana la partenza era fissata il lunedì sera dopo la riunione che nel tardo pomeriggio lo vedeva impegnato con il resto della direzione democristiana. Per vent'anni o quasi all'ordine del giorno, ogni lunedì, c'era un punto: "Comunicazioni dell'onorevole Berloffa sull'attuazione del pacchetto". Cosa poi, in quelle riunioni i democristiani effettivamente si dicessero resta per certi versi un mistero. Berloffa, l’abbiamo già detto, era più che parco d’informazioni, ma a qualche suo compagno di partito faceva comodo poter andare in giro a dire che “quel benedett’uomo fa tutto lui e non ci dice niente”.  Finita la riunione, un salto a casa a prendere la valigia e poi in stazione per prendere il treno che partiva per Roma poco dopo le ventidue. Viaggiava come gli altri onorevoli diretti a Roma in vagone letto, ma non di rado per risparmiare sceglieva il cosiddetto “doppio” assoggettandosi a dividere il piccolo scompartimento con qualcun altro. Anche a Roma la sistemazione non era, negli ultimi anni almeno, di quelle che oggi fanno gridare allo scandalo i fustigatori della casta. Andai nei suoi uffici quando la presidenza del consiglio li aveva sistemati assieme al resto del Dipartimento Affari regionali in un bellissimo palazzo che noi giornalisti, infischiandocene come il solito della precisione, avevamo ribattezzato palazzo della Minerva, solo perché si affacciava sulla piazzetta chiamata della Minerva a pochi passi dal Pantheon. Come quello di Bolzano, nella sede Dc, era un ufficio piccolo stracolmo d’incartamenti giacché a quelli riguardanti direttamente il lavoro delle commissioni, si aggiungevano quelli del Consiglio di Stato e infine tutte le pratiche che sbrigava volentieri per chi a Bolzano o in provincia si rivolgeva a lui per un aiuto e una sollecitazione.

Non era facile per un giornalista avere a che fare con Alcide Berloffa. Di fronte alla crescente impopolarità che l'attuazione dell'autonomia gli procurava, si era votato al silenzio come un monaco trappista. Vedeva tutti o quasi tutti i giornalisti come pericolosi provocatori pronti a carpirgli qualche indiscrezione per poi amplificarla e scatenare l'ennesima tempesta a sfondo etnico. A nulla valeva spiegargli che questa discrezione portata all'estremo sui lavori della commissione a poco valeva se era solo lui a osservarla. Mentre, infatti, le richieste di spiegazioni e commenti che arrivavano dalla stampa italiana, anche quella non pregiudizialmente ostile alle sue posizioni, erano rigettate con sdegno, i componenti sudtirolesi, appena finita la riunione, mentre rientravano in macchina a Bolzano davano al giornale di lingua tedesca ampi resoconti orientati ovviamente a dare rilievo illustro alle concessioni che erano riusciti o speravano di essere riusciti a strappare su questo o quell'argomento. Con il risultato che il giorno dopo la stampa italiana non poteva che attingere informazioni da quella tedesca e le polemiche c'erano lo stesso magari gonfiate proprio per mancanza di un contraddittorio con l'altra parte. Berloffa forse lo capiva, come capiva che evitare il confronto con la comunità di lingua italiana su quello che si andava facendo in materia di autonomia, non favoriva un'accettazione serena di norme che comunque colpivano nei suoi interessi e nei suoi sentimenti quella stessa comunità. Aveva però deciso in cuore suo che sarebbe stato tempo sprecato e che tanto valeva portare a termine nel più breve tempo possibile l'operazione per dedicarsi semmai in seguito al recupero delle coscienze. Su questa strada si trovò indubbiamente davanti alla volontà ferrea del gruppo dominante della SVP di estrarre da quel secondo statuto di autonomia, fino all'ultima goccia, tutto quello che poteva essere estratto, di non rinunciare a nulla, di ottenere magari più di quanto non si fosse inizialmente ipotizzato.

Si spiega così la faticosa trattativa durata vent'anni. Si spiegano così le polemiche aspre su questioni essenziali come la dichiarazione di appartenenza etnica, il cosiddetto censimento contro il quale insorsero non solo le destre italiane ma anche la neonata formazione della Nuova Sinistra di Alexander Langer. Si spiegano così le battaglie sulla norma riguardante l’uso della lingua nei tribunali che sembrava dovesse precipitare la giustizia altoatesina in una paralisi totale e che poi è stata applicata apparentemente senza troppe difficoltà.

Vent'anni in trincea per Alcide Berloffa con la sicurezza di aver davanti un nugolo di avversari implacabili e spietati e con il dubbio di trovarsi esposto un giorno sì e l'altro pure a quello che in guerra viene chiamato il “fuoco amico”. Di fronte alla rivolta rabbiosa del gruppo italiano che all'inizio degli anni 80 riempì di voti le urne degli increduli missini, il gruppo dirigente democristiano in preda al terrore giurava esteriormente fedeltà al nuovo statuto che lo aveva peraltro portato al governo di una provincia sempre più ricca, ma non mancava, sia pur sottovoce di manifestare dubbi e di compiacere le paure e le rabbie dei vecchi elettori. E il bersaglio era vicino e comodo Alcide Berloffa che voleva fare tutto da solo, che non ascoltava, che giù a Roma ne combinava di cotte e di crude.

Il carattere dell'uomo non lo aiutava, bisogna ammetterlo. Facile alla collera tendeva a isolarsi e stentava ad accettare il dialogo con chi lo aggrediva accusandolo di svendere ai tedeschi gli interessi del gruppo italiano. Con i giornalisti la stessa cosa. Aveva subito per anni la dichiarata ostilità del quotidiano Alto Adige che appoggiava senza se e senza ma la battaglia di chi si opponeva al pacchetto. Aveva allora mobilitato le partecipazioni statali e l’ENI per creare a Bolzano le pagine locali del quotidiano nazionale, Il Giorno, e avere così una voce fuori dal coro. Poi con gli anni le cose erano cambiate, ma gli era rimasta profonda la diffidenza anche verso chi si rivolgeva a lui solo per avere informazioni precise e di prima mano. Potevi telefonargli o presentarti in ufficio ed essere accolto da una sfuriata che poco o nulla aveva a che fare con quello che avevi detto o scritto. Si sfogava, ma poi si pentiva che richiamava e a quel punto scoprivi l'altro Berloffa. Una volta quietato, diventava curioso e paradossalmente le parti s’invertivano era lui che voleva sapere, capire, recuperare particolari anche minuti delle vicende politiche altoatesine che troppo spesso lo vedevano assente. Domandava giudizi su persone e avvenimenti e rispondevi sperando che alla fine ne avresti cavato, in cambio, qualcosa. Niente da fare, si chiudeva come un riccio e se proprio lo obbligavi per amore o per forza a rilasciarti un'intervista, ne veniva fuori una serie di frasi talmente generiche infarcite di vocaboli burocratici e poco comprensibili che quasi sarebbe stato il caso di non mandarla nemmeno in onda. Era lo stesso con i comunicati. In qualche caso, raramente, si decideva a produrre una decina di righe sull'attività della commissione. Conoscendolo c'è da immaginare la sofferenza di quel parto, ma il risultato era una prosa involuta nella quale la scarsa notizia era avvolta in un groviglio di ragionamenti e di riferimenti che la rendevano quasi incomprensibile. Fu allora che ha Bolzano, tra i giornalisti nacque un gruppo, di cui mi onoro di aver fatto parte, dei cosiddetti  “Berloffologi”, gli unici in grado, a loro dire, di decifrare quel codice e di trarne qualche notizia da offrire al pubblico.

Isolato e vituperato nel mondo italiano, sarebbe dovuto essere difeso e protetto almeno in quello sudtirolese. Nulla di tutto questo. L'egoismo etnico di cui erano infarciti Magnago e i suoi impediva loro qualsiasi forma di riconoscimento per chi sacrificava i propri interessi elettorali per cercare un'intesa. Nemmeno dopo, quando la fase dell'attuazione era conclusa, ci furono grandi festeggiamenti. Quando nel 2001 fu insignito del premio intitolato a un altro dei grandi padri della convivenza, il Vescovo Josef Gargitter, Silvius Magnago fu chiamato, inevitabilmente, a tenere l'orazione ufficiale. Fu l'ennesima autoesaltazione e uno tra i pochi meriti riconosciuti a Berloffa fu di aver aperto ai sudtirolesi molte porte nelle stanze del potere romano. Poco più che un maggiordomo dunque.

Ne soffrì probabilmente, anche perché i riconoscimenti gli venivano da altre parti come l'Austria, ma non se ne lamentò mai pubblicamente, proprio per quella disciplina interiore che non lo abbandonò mai sino all'ultimo giorno di vita.

Ricordo ancora con precisione un giorno della primavera del 1992, a pochi giorni dal rilascio della cosiddetta “Quietanza Liberatoria” che significava la fine della vertenza internazionale sull’Alto Adige, quando lo trovai nell'ufficio di uno dei politici a lui più vicini, Giancarlo Bolognini. Da un cassetto puntarono alcuni bicchieri di carta e fu strappata una bottiglia di spumante. Un brindisi. Questa fu in pratica l'unica cerimonia che salutò la chiusura di una vicenda ventennale.

Due anni dopo, dalle macerie della prima Repubblica emergeva trionfante il primo governo Berlusconi. Alcide Berloffa fu una delle prime vittime della nuova maggioranza che comprendeva gli eredi di quel movimento sociale italiano che lo aveva combattuto e duramente criticato per anni. Dalla mattina alla sera fu rimosso dalla guida delle commissioni e al suo posto fu insediato un ex dirigente delle aziende di Berlusconi. Se ne andò senza polemizzare e chiese solamente il permesso di portare con sé gli incartamenti che testimoniavano del lungo lavoro compiuto. Ricevette come risposta un'alzata di spalle. Quelle carte conservate per anni in un garage vicino alla sua abitazione bolzanina oggi sono state donate all'Archivio provinciale di Bolzano e diranno forse qualcosa d’interessante su quegli anni e quelle vicende.

Anche dopo la conclusione formale del suo incarico istituzionale Berloffa rimase lo stesso. Non gli cavavi una parola di più dello stretto necessario su quanto era successo prima e su quanto andava accadendo. I pochi illusi che si erano aspettati finalmente una fase di distensione etnica dopo la chiusura del pacchetto dovettero deporre le loro speranze mentre i deputati e i senatori SVP, approfittando del caos prodotto dallo sfaldamento del vecchio ordine politico, iniziavano una guerra di corsa per strappare concessioni a ogni piè sospinto, tanto che anni dopo uno di loro avrebbe usato, in un congresso del partito, la famosa similitudine del limone italiano spremuto dai sudtirolesi fino all’ultimo.

Ben più amara, però, doveva essere la delusione della destra italiana che è arrivata finalmente al potere, entrata nella cosiddetta stanza dei bottoni sperava di capovolgere la politica altoatesina di un ventennio. Nonostante qualche annuncio propagandistico e molte frasi a effetto i rapporti di forza non cambiarono e anzi ci si rese conto che quello che era venuto a mancare era un solito anello di collegamento tra il mondo politico italiano dell'Alto Adige e gli ambienti di governo.

Per oltre vent'anni quell'anello era stato lui, Alcide Berloffa.

I dirigenti democristiani lo avevano eletto interlocutore esclusivo o quasi per le vicende altoatesine. Così Aldo Moro di cui abbiamo detto, ma così anche Amintore Fanfani e soprattutto Giulio Andreotti con il quale, da parte di Berloffa, l'intesa era forse meno stretta sul piano dell'idealità, ma molto salda su quello delle azioni concrete. Fu Andreotti, dopo la scomparsa di Moro, il politico che prese in mano le reti di della vicenda altoatesina e che la portò a conclusione nei primi mesi del 1992, poche settimane prima che il sistema politico italiano subisse il collasso di Tangentopoli. E dietro Andreotti c'era sempre Berloffa, silenzioso interlocutore del governo su tutti che le questioni che toccavano la provincia di Bolzano. Quando il filo diretto s'interruppe, o si allentò come nei mesi della presidenza Craxi che volle cercare una sua strada autonoma per la soluzione dei problemi altoatesini, i rapporti si congelarono e nessun passo in avanti fu fatto. Poi il disgelo e la conclusione. Alla fine degli anni 90 Alcide Berloffa era ormai un pensionato della politica. Seguiva in modo sempre più distaccato lei tortuose vicende degli eredi della vecchia Democrazia Cristiana che dal canto loro parevano ben felici di non doversi più confrontare con i suoi giudizi aspri e con le sue posizioni sempre nette e assolute. Una sorte simile se vogliamo a quella del suo grande interlocutore Silvius Magnago, anch'egli pensionato anzitempo da una nuova classe dirigente, ansiosa di poter sfruttare al meglio i benefici crescenti dell'autonomia.

Ci sarebbe stata ogni opportunità per Alcide Berloffa se avesse voluto rinfacciare a molti dei suoi critici di un tempo gli scarsi successi del centro destra al potere nel mitigare le richieste SVP o se avesse voluto irridere chi un tempo lo aveva definito servo dei tedeschi e che ora cominciava a parlare di accettazione dell'autonomia e a salire i gradini che portavano verso la condivisione del potere in provincia. Non fece mai nemmeno questo, tanto era scolpita in lui la necessità di evitare polemiche inutili e di salutare positivamente ogni avvenimento che andasse verso una pacificazione delle coscienze e un'unione più stretta dei gruppi linguistici conviventi.

Tutte le lodi e tutti i riconoscimenti che in vita gli furono elargiti con estrema parsimonia, gli sono stati tributati dopo la scomparsa. Sono certo che se fosse stato possibile fargli notare che nel coro dei “laudatores” c'erano anche coloro che lo avevano svillaneggiato o che pochissimo lo avevano aiutato nello sforzo titanico di evitare all'Alto Adige uno scenario da guerra civile simile a quello dei Paesi Baschi o dell'Irlanda e che su quelle contraddizioni qualcosa bisognava pur dire,non avrebbe battuto ciglio e avrebbe replicato ancora con quella frase, con quelle parole: “No putei, bisogna taser”.