Kultur | Riscoperte

Nirgendheim

Pensieri pasquali e poco pasquali leggendo un libro in cui si dice che nessuno può mai dire di sentirsi veramente a casa.

L'altro giorno ho comprato per cinque euro un libro sotto al tendone che a Bolzano, in piazza Walther, ogni anno viene allestito in modo che un po' di volumi invenduti, stampati dalle case editrici locali, trovino finalmente qualcuno disposto a leggerli. Un'iniziativa lodevole, visto che ognuno ha l'occasione, a prezzi veramente stracciati, di tornare a scoprire qualcosa che magari non era stato notato, o era stato dimenticato.

Ho acquistato, tra le altre cose, un testo firmato da Dietmar e Agnes Larcher, intitolato Interkulturelle Neugier, oder Narrative Empirie als Opera Buffa. Casi di studio, come si legge nelle note di copertina, tratti però da incontri quotidiani e nei quali la dimensione del confronto tra culture diverse si pone ormai senz'altro come la regola del mondo in cui viviamo. Il capitolo che mi ha incuriosito di più, e che ho subito letto, non è incentrato tanto sull'interculturalismo al quale si potrebbe pensare immediatamente, quello basato cioè su appartenenze lontane. Al contrario, in esso i due autori ripercorrono le vicende del loro insediamento in un piccolo villaggio austriaco, Trattenberg, scelto per trascorrervi gli ultimi anni di vita. Un buen retiro che, casualmente, coincide con il villaggio nel quale Ludwig Wittgenstein insegnò per alcuni anni – dal 1920 al 1926 – e dal quale poi fu costretto ad allontanarsi in seguito a uno spiacevole incidente (maltrattò o comunque venne accusato di aver maltrattato un suo allievo).

Sovrapponendo il ricordo dell'esperienza di Wittgenstein alla propria, la coppia racconta la difficoltà di penetrazione in un contesto che in sostanza non cessa mai di resistere, di dimostrarsi cioè impermeabile rispetto agli sforzi d'integrazione che vengono prodotti dai nuovi abitanti. Il restauro di una vecchia villa diventa così l'occasione per comprendere i meccanismi di questa inospitale ospitalità, fatta anche di contrattempi e di maldicenze. Certo, le circostanze non assumono mai toni drammatici, perché il signor e la signora Larcher, rappresentanti dell'élite culturale, non hanno “bisogno” di essere davvero integrati e, anzi, lo si capisce con facilità, alla fine godono persino un po' di questa condizione di apolidi di lusso, con un piede dentro e un altro fuori. A Wittgenstein andò senz'altro peggio, anche se nel suo caso ci si può immaginare che gli sforzi di rendersi ben accetto non fossero stati molto più accentuati di quelli dei coniugi Larcher.

E' un bene o un male non riuscire sentirsi a casa in nessun posto? Quando abitiamo in un luogo dobbiamo per forza sentircene parte, oppure possiamo coltivare una sorta di virtuosa leggerezza che ci rende, come riferiscono quasi tutti gli immigrati o le persone che si spostano molto, incerti e sempre con la valigia pronta per ripartire, anche se questo non vuol dire quasi mai tornare poi a casa, quella da cui proveniamo, che infatti non è già più la nostra casa e non lo potrà più essere? Sospensione, essere sospesi, bisogna amare e non solo sopportare l'esser sospesi. Mi pare che gli autori la vedano così. Von Wo auch immer, Wo auch immer, Wo auch immer, Im Nirgendheim...

Alla fine del testo, un capitoletto si intitola “Ewige Heimat”. Si parla di un funerale, osservato dalla finestra. Una folla è radunata per dare l'addio a un contadino morto sul lavoro. “Jetzt wird uns klar: Der Tod ist hier der Eintrittspreis fuer das Leben im sterbenden Dorf” (Ora è chiaro: la morte qui è il biglietto d'ingresso per la vita in un paese che si sta estinguendo). Ma bisognerebbe pensare anche alla morte come uno stato di sospensione? Pasqua, per chi ci crede e la festeggia, è solo un passaggio verso qualcosa che non passa. Saranno per questo dannati quelli che non ci credono?

 

 

 

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Hannes Obermair Sa., 26.03.2016 - 19:46

Grande Gabriele--riesci sempre, col tuo penser grandement, a tirarci fuori dai nostri casini piccoli piccoli !!! Trattenberg ist überall, und es ist gut, dass Gabriele "unser", "euer" tägliches Kleinbozen erleuchtet. Chapeau!

Sa., 26.03.2016 - 19:46 Permalink
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Luca Sticcotti So., 27.03.2016 - 10:16

"E' un bene o un male non riuscire sentirsi a casa in nessun posto?". Secondo me è un bene. Si tratta di una prospettiva che promuove un profilo 'viandante', secondo me molto affine alla natura umana. Se in primo piano resta comunque la ricerca continua di 'una' casa, l'aspettativa delusa può essere comunque in grado di offrire molteplici esperienze di casa 'parziali'. Che possono dare comunque soddisfazioni e che riportano inevitabilmente al succitato profilo viandante.

So., 27.03.2016 - 10:16 Permalink