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“I nuovi muri? Sono patetici”

Intervistato da salto il celebre scrittore e giornalista Paolo Rumiz parla in modo molto disincantato di Europa e frontiere. Geografiche e della comunicazione.

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Foto: web

salto.bz : Rumiz, lei incarna l’antica e gloriosa tradizione del giornalista che consuma le suole delle scarpe ed è anzi in perenne movimento. Per questo forse ci può parlare della grande inquietudine che sta attanagliando il nostro vecchio continente, di nuovo alle prese con grandi migrazioni e paure. E con le varie nazionalità che sono tentate di compiere un passo indietro, rivalutando il ruolo dei confini. 
Paolo Rumiz - Visto che sono triestino il primo confine con cui mi sono dovuto confrontare è stato naturalmente quello con la Jugoslavia, una frontiera che dai miei genitori è vissuta in modo sofferto. Vivevano nella loro città come se si trovassero su una linea sismica e quindi molto pericolosa. Io invece ho vissuto come se il sismografo che avevo attorno fosse davvero magnifico. Il mio approccio era positivo perché personalmente non avevo brutte memorie di guerra da gestire. 
Gli altri confini che ho incontrato sono stati quelli relative alle terre conquistate dall’Italia nel 1918. Quindi soprattutto Alto Adige e il Tarvisiano, per un motivo molto semplice e cioè perché mio padre in quanto ufficiale nell’esercito italiano poteva disporre delle ex caserme asburgiche trasformate in alberghi per trascorrervi le vacanze con la propria famiglia. Dall’infanzia all’adolescenza dunque le mie estati e i miei inverni li ho trascorsi  tra Colle Isarco in Alto Adige e Tarvisio in Friuli. 

Qual è stato il suo primo approccio con l’Alto Adige?
Naturalmente nella prima fase non avevo la minima conoscenza del passato storico di questi luoghi, oltre al fatto che era trascorso davvero poco tempo dalla fine della seconda guerra mondiale. Il mio primo rapporto con i miei luoghi di confine è stato quindi totalmente primo di paturnie, come esempio nei confronti degli autoctoni di lingua tedesca della provincia di Bolzano, con i quali fraternizzavo. Ed ai quali mi presentavo in Lederhosen e con il cappello con tanto di piuma di gallo cedrone. Avevo gli occhialetti tondi da scienziato pazzo, ma al contempo facevo il tentativo di somigliare a un mondo che in quel momento non era il mio. Ma che mio poi lo è diventato, visto che ho consumato quasi una vita sui confini e venendo da questo segnato per sempre. 

Cosa vuol dire essere segnati per sempre dal confine?
L’ho già detto: per me il confine non è mai stato un luogo claustrofobico come per i miei genitori, ma un’opportunità immensa che mi veniva data per  venire in contatto con i ‘diversi’. 

In realtà negli ultimi tempi in Alto Adige un confine che sembrava sopito, quello del Brennero, ha dimostrato un’inaspettata vitalità. Grazie soprattutto alle minacce di chiusura messe in atto dall’Austria a fronte delle ondate di profughi. I sudtirolesi si sono insomma dovuti confrontare con il fantasma di un vecchio trauma…
Bah. Questi cosiddetti muri che risorgono per me sono un po’ patetici. Non bloccano niente, ma va anche detto che i muri in sé non hanno mai chiuso nulla e lo sappiamo bene tutti. Quando Marco Polo è arrivato in Cina gli hanno mostrato la muraglia cinese. Che era stata costruita contro i mongoli, ma guarda caso in quel momento l’imperatore cinese era proprio un mongolo. Quale migliore dimostrazione del fatto che i muri hanno un ruolo esclusivamente propagandistico ed elettorale? 

“Se andate a vedere i reticolati che hanno messo tra Slovenia e Croazia capite subito che sono esclusivamente mediatici. 500 metri più in là passi tranquillamente per il bosco. Homo erectus, homo sapiens.”

Secondo lei i sudtirolesi ne sono consapevoli?
Sì. E in ogni caso non possono neanche accusare troppo l’Austria, essendo la loro madre patria. 
D’altronde va detto che pure tra Veneto e Trentino alcuni luoghi stanno diventando un ‘puntiglioso confine’. Come sta avvenendo ad esempio per la strada che collega a Vallarsa a Recoaro, gestita in modo tignoso dai trentini con la scusa peraltro piuttosto fondata che altrimenti sarebbero invasi dai bracconieri. Una cosa simile la vediamo anche tra Lazio e Campania dove correva il vecchio confine del Regno delle Due Sicilie. Un confine che viene di nuovo vissuto come reale da parte dei neoborbonici.

“E’ davvero interessante questa resurrezione di frontiere morte e sepolte, che fanno la pernacchia a Google Earth”

Un altro tema interessante è quello delle memorie di guerra. Lei in più occasioni ha parlato dei difetti sia dell’assenza che degli eccessi di memoria. E questa questione ha una sua peculiare declinazione proprio in Provincia di Bolzano. 
Io ho l’impressione che l’Alto Adige in questo senso sia molto avanti rispetto a Trento. Il Trentino ancora si lacera tra il Battisti traditore e il Battisti eroe. Mentre invece questa è una cosa che i cittadini di lingua tedesca del Sudtirolo hanno già ampiamente superato, inquadrandola storicamente. 
Il mito dell’Austria rinasce dunque in Trentino e anche in altre parti del Nord Italia sulla scia di una semplice considerazione politica legata al presente. L’Italia fa acqua e allora ti butti sul mito, esattamente come i fautori del Brexit si sono affidati al mito dell’Inghilterra imperiale. A me pare una pazzesca dimostrazione di immaturità. 
A Caprile vicino ad Alleghe in Veneto io conosco un ristoratore, italianissimo, ma che si incazza quando arrivano degli italiani da sud di Belluno. Non si riconosce: li tratta malissimo perché vorrebbe avere solo tedeschi. E poi ci sono anche i friulanisti, che vogliono ora costruirsi le case con i gerani, come i sudtirolesi. 
Sulla grande guerra io ho fatto anche uno spettacolo teatrale. Con l’obiettivo di dire che, in un’epoca in cui i morti vengono riesumati per separare, bisogna invece parlare dei morti per poter unire, celebrando una sorta di armistizio postumo. 
Insomma: deve esserci memoria e onore per tutti. D’altronde i soldati italiani avevano un rapporto più stretto con i loro nemici piuttosto che con i loro stessi ufficiali. E questo perché avevano vissuto nello stesso fango e nella stessa tragedia. 

“C’era molta più consapevolezza di Europa negli anni terribili della grande guerra. Nel 1918 noi eravamo davvero pronti per fare l’Europa, se solo i vincitori non avessero deciso di punire gli imperi in un modo così assurdo.”

L’Europa oggi vacilla e lei in merito recentemente ha detto delle cose piuttosto provocatorie. Ad esempio ha sostenuto che l’avvento di Donald Trump negli USA potrebbe essere fonte di speranza per l’Europa. Facendo nascere nei cittadini del nostro continente finalmente una posizione diversa, autonoma. E lei è arrivato addirittura ad invocare un patriottismo e un nazionalismo europei. 
Sì, perché l’Europa in realtà è un paradiso rispetto al mondo che la circonda. Ci dimentichiamo di una cosa banale e cioè che le garanzie che l’Europa offre all’individuo non esistono in nessuna altra parte del mondo, se non in piccole isole privilegiate. E invece noi stiamo buttando a mare tutto questo, sotto la spinta della paura del terrorismo. Siamo ormai al punto tale che se io fossi un terrorista mi fregherei le mani, pensando che ora non c’è più bisogno di attentati. E dicendo: lasciamo che facciano da soli.

Nel 2001 lei ha scritto un libro dedicato alla Lega ed alla cosiddetta rabbia del profondo Nord. In realtà da allora la Lega ha subito un’importante metamorfosi, assumendo un ruolo diverso. Lei come la vede?
Nella mia totale contrarietà alle buffonate razziste di Salvini, bisogna dire che l’uomo porta avanti un’unica intuizione valida, a mio parere, che è quella di sbarcare al sud. Se è vero che questo paese si può salvare solo attraverso il federalismo, visto che la nostra sola ricchezza sono le diversità, allora in questo senso è giusto e politicamente corretto che si tenti di esportare il messaggio anche a sud. D’altronde io mi sento contemporaneamente austroungarico e garibaldino. 

Sembra una contraddizione in termini…
No, perché nella parte finale della sua vita Garibaldi si eclissò dal panorama politico italiano perché vide completamente tradito il pensiero federalista che aveva assunto in pieno dalle parole di Carlo Cattaneo. 

Ultima domanda. Rumiz narratore e viaggiatore che tipo di futuro si immagina per il giornalismo, in un'epoca come la nostra di comunicazione ipertrofica e spasmodicamente veicolata da smartphone e social network? 
Abbiamo affidato delle fuori serie a degli analfabeti. E’ chiaro che questi oggetti affascinano e ci portano via i figli. Ma oggi però ci ritroviamo anche una generazione di dipendenti dal web, incapaci di esprimere una fantasia personale. Ci siamo spenti completamente, abbiamo perso il senso dell’orientamento, il senso del pericolo ed anche la capacità di narrare. Non siamo più capaci di immaginare cose che non siano rappresentate graficamente. 
Secondo me non se ne esce se non si investe nella scuola. Ma questo non verrà fatto perché in tutta Europa il sistema richiede consumatori proni. E che - soprattutto - non pensino al'esistenza di poveri, immigrati e malattie. Queste cose vanno nascoste perché deprimono i consumi e noi siamo permanentemente sedati da questo continuo essere in rete e reperibili. Quando invece saremo nient’altro che le prossime vittime della stessa macchina che ha generato i profughi. 
Io oggi prego affinché i figli di coloro che maledicono i profughi non debbano in futuro sperimentare una guerra e perdere in questo modo tutto quello che hanno avuto.

“In ogni caso la cosa che mi spaventa di più è il silenzio dei benpensanti. Non è possibile che si sentano solo le urla di coloro che seminano zizzania."

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Karl Gudauner So., 16.04.2017 - 11:02

Bella intervista! Pensieri profondi che allargano gli orizzonti e puntualizzano le sfide da affrontare. Complimenti!

So., 16.04.2017 - 11:02 Permalink