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Politik | Maltrattamenti

Populismo versus élitarismo

Dietro la dicotomia alla moda si nasconde la vittoria dell'ultima élite, quella di chi è riuscito a farsi interprete dell'inesistente volontà generale.

À l'instant que le peuple considère en particulier un ou plusieurs de ses membres, le peuple se divise. Il se forme entre le tout et sa partie une relation qui en fait deux êtres séparés, dont la partie est l'un, et le tout moins cette partie est l'autre. Mais le tout moins une partie n'est pas le tout; tant que ce rapport subsiste il n'y a donc plus de tout, mais deux parties inégales. Au contraire quand tout le peuple statue sur tout le peuple, il ne considère que lui-même, et s'il se forme un rapport, c'est de l'objet entier sous un point de vue à l'objet entier sous un autre point de vue, sans aucune division du tout. Alors l'objet sur lequel on statue est général, et la volonté qui statue est aussi générale” (Jean-Jacques Rousseau, Émile ou De l'éducation, livre V, Pléiade, p. 842)

Nonostante la passione per la sintesi e l'unità siano sempre molto forti, è vero che quella per l'analisi e le dicotomie lo è ancora di più. Ultimamente la dicotomia che va per la maggiore, quella che chiama a dividerci e a farci salire su questa o quella barricata è – a quanto si legge – quella tra “élitaristi” e “populisti”. In società, e per società qui intendiamo ormai in prevalenza la società dei social network, adesso siamo dunque chiamati a posizionarci così. Come lo facevamo in precedenza, se lo facevamo, non conta più. Dire che si è di destra o di sinistra, per esempio, non conta più. A questo proposito bisogna dire che si tratta di una dicotomia “sbagliata”, “superata”. Non sono né di sinistra né di destra, ecco, questa è la risposta da dare. Anzi, non è più neppure una risposta perché è diventata una premessa, qualcosa di talmente scontato da non richiedere alcuna puntualizzazione. Si parte da qui e si arriva, per l'appunto, all'obbligo esplicito o implicito di rivelarci o élitaristi o populisti. Sui due termini è bene intenderci. Soprattutto sul secondo, ché – se ben individuato – ci dà modo di comprendere per converso il primo. Il nuovo premier Giuseppe Conte l'ha messa per esempio giù così: “Se populismo è l'attitudine della classe dirigente ad ascoltare i bisogni della gente, se anti-sistema significa mirare a introdurre un nuovo sistema, che rimuova vecchi privilegi e incrostazioni di potere, ebbene queste forze politiche meritano entrambe queste qualificazioni”. Populismo significa ascoltare i bisogni della gente e rimuovere vecchi privilegi e incrostazioni di potere. Ergo: élitarismo sarà non ascoltare i bisogni della gente e mantenere vecchi privilegi e le vecchie incrostazioni di potere. Qui però bisogna fare attenzione. Quando si parla di “gente” e di “bisogni della gente” cosa, o per meglio dire, CHI si intende? Dietro al populismo (che può, l'abbiamo visto, essere apprezzato e lodato persino da un presidente del consiglio professore di diritto privato in tre atenei, e quindi purissima espressione dell'élite del Paese) non si nasconderà piuttosto il losco “gentismo”, vale a dire quell'atteggiamento politico di calcolata condiscendenza verso interessi, desideri, richieste presuntivamente espresse da un insieme di persone tanto vasto e indistinto da risultare vuoto e quindi modellabile a piacimento? In effetti, sembra proprio così. Il successo di questa dicotomia (con l'evidente prevalenza del secondo termine sul primo – si riscuote certo più successo a dichiararsi populisti anziché élitaristi) si basa sulla possibilità di attribuire un contenuto illimitato alle istanze provenienti dal basso, arruolando legioni di persone sfruttabili per quello che “sono” al di là di ogni specificazione ulteriore. È il trionfo dell'inquilino della porta accanto, purché resti confinato nella nebbia di una pervasività che lo rende al contempo sempre incombente e sempre distante. E mentre le élite di una volta cercano di rendersi conto a fatica di quel che è accaduto, le nuove prosperano spacciandosi per interpreti di una volonté générale che non esiste, non è mai esistita e mai esisterà.

 

 

 

 

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Stephan Lausch Mo., 11.06.2018 - 13:15

Scrivi: "... le nuove (élite) prosperano spacciandosi per interpreti di una volonté générale che non esiste, non è mai esistita e mai esisterà." Sono d'accordissimo che la volonté générale non è mai esistita, ma è proprio il parlamentarismo puro che si basa sulla concezione che l'insieme del Parlamento riesca a riprodurre la volonté générale. Così allora finora ci si è dato sempre l'assoluzione generale e ci si è legitimati in tutto l'operato del Parlamento e del Governo. La nuove élite, almeno per quanto essa scrive della propria intenzione nel contratto di governo per il cambiamento, non si spaccia affatto per interprete di una volonté générale ma prevede un profondo rinnovamento degli istituti di democrazia diretta (l'abolizione del quorum, l'introduzione del referendum propositivo e la trattazione obbligatoria in tempi brevi delle iniziative popolari), che certo, non sono la garanzia assoluta che si formi una volonté générale veramente generalizzata e ben fondata ma è, per quanto sappiamo e sia dimostrato dalla realtà, l'unico modo per la formazione di una consapevolezza su un tema e di conseguenza di una volontá almeno maggioritaria. Almeno come intenzione espressa in un documento di fondo allora non si tratta più un'élite che sa tutto alla meglio di tutto il popolo senza che questo abbia la possibilità di mettere in dubbio quanto viene fatto in nome del popolo ma una che è disposta ad imparare e di farsi mettere in questione nella propria interpretazione di un volere generale.

Mo., 11.06.2018 - 13:15 Permalink