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“Meno divisioni, più senso pratico”

La giornalista e scrittrice Lilli Gruber sul suo ultimo libro “Inganno”, il Sudtirolo tormentato, le oscurità del presente e quell’intervista al neonazista Norbert Burger
Lilli Gruber
Foto: upi

salto.bz: Gruber, di “Tempesta” disse che fu un libro molto faticoso da elaborare in particolare perché, come in “Eredità”, ripercorreva le sue radici. L’ultimo romanzo della trilogia, “Inganno”, è stato altrettanto difficile da scrivere?

Lilli Gruber: Lo è stato, per gli stessi motivi e per altri più legati agli anni di cui si parla, i Cinquanta e i Sessanta. Questo libro si apre nel 1957 ed entriamo nella storia recente. Il materiale a disposizione è moltissimo, la sensibilità sui temi è alta, e i fatti storici più vicini a noi sono sempre più difficili da interpretare.

In merito allo sviluppo dei tre romanzi lungo il percorso tracciato si fa largo un’interpretazione precisa della storia sudtirolese o prevalgono le contraddizioni, la diversità inconciliabile dei punti di vista?

Il quadro diventa più chiaro. In particolare emerge un filo rosso che è quello dell’illusione e dell’inevitabile delusione. Dopo la Prima guerra mondiale, il periodo raccontato in Eredità, l’illusione di poter tornare a far parte dell’Impero austroungarico – che di fatto non esisteva più – e la durissima disillusione della violenza fascista e dell’italianizzazione. Subito dopo, al tempo della Seconda guerra mondiale raccontato in Tempesta, l’illusione mortale di Hitler, del Terzo Reich come via per “tornare tedeschi”, e la delusione nel trovarsi alla fine del conflitto sconfitti e dalla parte dei colpevoli. Negli anni Sessanta, di cui parla “Inganno”, l’illusione che l’autodeterminazione sarebbe stata ottenuta attraverso la lotta armata, una terza occasione in cui in nome di una causa giusta, la tutela dell’identità, si è passati dalla parte sbagliata. Questo filo rosso per fortuna si è interrotto, grazie a un’autonomia forte tutto sommato ben gestita. Il Sudtirolo degli anni Duemila non è più vittima, ma protagonista del cambiamento.

 

 

Il periodo delle bombe è ben presente nella memoria e nella storiografia locale, ma nel resto d’Italia se ne sa poco. Si è mai imbattuta, in questi anni, in testi o figure che invece le hanno fatto aprire gli occhi su aspetti che a un autoctono di lingua tedesca non sarebbero venuti in mente?

Mi hanno sorpresa e appassionata in un modo che non mi attendevo i documenti. Ho avuto modo di cercare in vari archivi, in particolare in quello – ancora mai esplorato dagli studiosi – del defunto questore Silvano Russomanno, uno degli uomini chiave dei servizi segreti durante gli anni di Piombo, che negli anni Cinquanta era stato di stanza in Sudtirolo. Le carte delle questure, le segnalazioni, i resoconti mi hanno aiutato a capire un aspetto della questione che non avevo mai indagato: quale fu la risposta dello Stato italiano al primo fenomeno di stampo terroristico sul territorio nazionale? Qual era la percezione della realtà locale, quale lo stato d’animo di carabinieri, polizia, guardia di Finanza, esercito che si trovarono sotto attacco, quale percorso seguivano le informazioni ma anche i depistaggi e i doppi giochi degli agenti? Da sudtirolese, sapevo degli “anni delle bombe” qualcosa di più rispetto alla media degli italiani. Credo che le voci riemerse dagli archivi possano stimolare gli italiani a riappropriarsi di una parte della loro storia. Ma anche i sudtirolesi, legati per motivi diversi a una “narrazione” sui “combattenti per la libertà” spesso edulcorata e ingenua. Come sempre, anche la storia del terrorismo in Alto Adige nel pieno della Guerra Fredda, è molto più complessa: piena di dinamiche segrete e di giochi sporchi le cui origini erano lontane dalla nostra terra, trasformata in un ideale campo di battaglia.

“Combattenti per la libertà” li definiva allora, infatti, una parte della Provincia, “terroristi” l’Italia intera, come del resto sottolinea nell’introduzione del suo ultimo libro. Lei come ritiene che debbano essere chiamati?

Quando muoiono degli innocenti la  violenza politica non è mai giustificata.

Il Sudtirolo degli anni Duemila non è più vittima, ma protagonista del cambiamento.

E nella storica querelle tra chi pensa che gli attentati siano serviti a smuovere l’autonomia, Eva Klotz, ad esempio, e chi invece, come Rolf Steininger, sostiene che l’abbiano ostacolata, lei da che parte sta?

Come nota anche Luis Durnwalder, intervistato nel libro e che non manca di intelligenza politica, gli anni delle bombe vanno nettamente suddivisi in almeno due periodi: quello in cui davvero si pensava che gli attentati potessero, senza causare vittime, favorire la causa dell’autodeterminazione o almeno accelerare il conseguimento dell’autonomia; e quello, già dal 1962-63, in cui il gioco cambiò radicalmente e qualunque possibile strategia politica naufragò in un grande gioco di manipolazione e depistaggio. Nel libro racconto anche questo passaggio, per me cruciale, e credo sia importante alzare lo sguardo dalle querelle locali e considerare che il Sudtirolo, confine d’Europa, fu un campo di battaglia strategico della Guerra fredda. Quando ci si ritrova a parlare con un generale italiano di piani antisovietici che prevedevano bombe atomiche gettate sul Brennero, si mettono in prospettiva molte cose…

Cosa ha significato per la popolazione italiana residente la stagione delle bombe? Pensa che il senso di minaccia e insicurezza sia sparito?

Penso che il senso di minaccia e insicurezza di quegli anni oggi si avverta se mai su ben altri temi e su ben altra scala. A partire dagli attentati alle Torri gemelle il significato del termine terrorismo è cambiato, oggi indica una minaccia globale. Proprio per questo è fondamentale riflettere su anni in cui per la prima volta il termine “terrorismo” si affacciò alla coscienza del nostro Paese, su come lo Stato si organizzò per affrontarlo e sul modo in cui la paura dei molti fu usata e manipolata per servire gli interessi di pochi.

Quando ci si ritrova a parlare con un generale italiano di piani antisovietici che prevedevano bombe atomiche gettate sul Brennero, si mettono in prospettiva molte cose…

“Inganno” ed “Eva dorme” (2010), libro che peraltro è valso all’autrice Francesca Melandri l’onorificenza del Grande Ordine di Merito conferita in occasione della Giornata dell’autonomia, sono entrambi romanzi sugli anni delle bombe. Sono le donne a riportare il Sudtirolo e questa peculiare fase storica sulla scena letteraria, con quale ambizione, per quanto la riguarda? E crede che lo sguardo femminile possa in un certo senso dare alla ricostruzione una sfumatura particolare?

C’è un dato diffuso dall’Aie (Associazione italiana editori) che spiega molto: in Italia nel 2017 aveva letto almeno un libro il 47,1 per cento delle donne contro il 33,5 per cento degli uomini. Sono le donne che leggono, e che decretano il successo dei libri. Non è stupefacente che anche nella ricostruzione storica, e nel romanzo storico, emergano e abbiano successo voci femminili, anzi, c’è da augurarsi che siano sempre di più. La mia ricerca per “Inganno” è stata a tutto campo e credo che i temi che emergono – dalla lotta armata alla Guerra fredda – non abbiano genere, però è vero che alcuni personaggi femminili emergono particolarmente. Come Herlinde Molling, l’attivista nordtirolese che attraversava la frontiera per minare i tralicci portando con sé la figlia di pochi anni… è chiaro che a confronto con una figura simile una donna si pone in maniera diversa la domanda fondamentale: perché? Anche per questo attraverso Klara, la protagonista femminile della mia fiction, ho cercato di creare non solo una figura di giovane donna moderna, seducente, determinata, ma di analizzare l’approccio femminile al desiderio di potere e alla tentazione della violenza.

 

 

Come giudica i recenti passi che sono stati fatti per sanare le ferite del passato, ovvero il depotenziamento dei due principali reperti fascisti di Bolzano, il Monumento alla Vittoria e il fregio di Piffrader?

La ex senatrice Lidia Menapace, che pure è nata non in Sudtirolo ma in Piemonte, conclude l’intervista che potete leggere nel libro proponendo di trasformare il Monumento alla Vittoria in “una grande aiuola”, una rotonda verde da primato insomma. È una boutade ma mi sembra incarni lo spirito giusto: meno divisioni, più senso pratico. Il rischio di un ritorno delle istanze totalitariste e della violenza, in Italia, è reale ma non sono certo i simboli di un regime sconfitto dalla Storia a incarnare oggi questo pericolo. 

Credo che le voci riemerse dagli archivi possano stimolare gli italiani a riappropriarsi di una parte della loro storia. Ma anche i sudtirolesi, legati per motivi diversi a una “narrazione” sui “combattenti per la libertà” spesso edulcorata e ingenua.

I tre ragazzi protagonisti del romanzo, che mescola elementi di Storia e finzione, vengono “tentati dalla radicalizzazione”. Non c’è il rischio che oggi, con il globo politico che pende a destra e l’impianto della democrazia che vacilla, possa accadere qualcosa di simile, sebbene in altre forme?

Lo dice Massimo Cacciari nell’intervista che chiude il libro: se la crisi economica si aggrava, e più che mai nella catastrofica ipotesi di un’uscita dall’euro, ci sarebbe la possibilità di disordini sociali. Allora sì, molti giovani sarebbero a rischio. Non solo perché in Italia vivono ormai generazioni intere che si sentono in balìa di un futuro incerto. Ma perché è nella natura dei giovani accettare l’avventura, e le avventure possono essere pericolose. Max, Peter e Klara, i miei protagonisti, sono molto diversi per ceto sociale, inclinazioni e carattere, ma hanno in comune la voglia di fare qualcosa, la passione per il cambiamento che è propria della loro età. Un potente motore di miglioramento che può essere troppo facilmente strumentalizzato, in nome di chissà quali sogni e promesse. Ci vorrebbe una classe politica in grado di far innamorare i giovani della promessa migliore che ci siamo mai fatti: la democrazia e la pace in un’Europa Unita.

A proposito di classe politica lei conosce il potere da molti anni, avendolo raccontato. Com’è cambiato?

Il potere cambia forma di continuo. Ma un aspetto è rimasto uguale: molto spesso chi ha il potere è disposto a tutto pur di mantenerlo, alle proprie condizioni e senza preoccuparsi dei “danni collaterali”. L’accesso a un’informazione vigile e libera è una delle più importanti garanzie a difesa dei cittadini, e non a caso il potere – altra costante – si è sempre scagliato contro l’informazione libera.

Parlando di informazione, sopravviverà il giornalismo sfibrato dalla mancanza di spazi, risorse e spesso anche contestato nella sua credibilità?

Oppongo a ogni possibile pessimismo della ragione l’ottimismo della volontà e rispondo con un deciso: sì, sopravvivrà.

Ci vorrebbe una classe politica in grado di far innamorare i giovani della promessa migliore che ci siamo mai fatti: la democrazia e la pace in un’Europa Unita.

Nel modo in cui appare ogni giorno sullo schermo tutto in lei trasmette una sensazione di equilibrio e il suo programma, “Otto e mezzo”, riflette lo stesso “temperamento”. Un controcanto anche all’imbarbarimento del linguaggio pubblico che raggiunge il suo climax sui social network.

Dico spesso che per non farsi “possedere” dal video, occorre saperne fare a meno. La visibilità e l’influenza che il mio mestiere offre possono essere anche una droga. Se davvero do una sensazione di equilibrio, forse è perché cerco di tenere a mente che la televisione è il mezzo, non il messaggio. Sui social network personalmente non ci sono: l’unica strategia social di cui mi interesso, perché fa parte del mio lavoro, è quella di “Otto e mezzo”. Forse sbaglio ma chissà che non sia, questa “dieta social”, un altro buon modo per cercare almeno di mantenere l’equilibrio?

 

 

Una deviazione sulle elezioni in Sudtirolo: crede che dalle urne, il 21 ottobre, usciranno sorprese? Potrebbe aprirsi una nuova era segnata da un governo Svp-Lega? O, sempre se avrà i numeri, il Pd sederà ancora “alla destra del Padre” come è stato in questi anni?

Sono anni che non voto in Sudtirolo, quindi mi astengo dal commentare le elezioni locali.

D’accordo, allora da romana che vive a Bolzano le chiedo: cosa le manca, vivendo nella capitale, del Sudtirolo?

Per la verità, soprattutto la mia famiglia: vorrei avere più vicino mia madre Herlinde e mia sorella Micki, che abitano là. Ma anche la qualità della vita e la bellezza, che il Sudtirolo esprime a un livello credo eccezionale. Scrivere i libri di questa serie è anche un modo per sentirmi più vicina alla mia terra e alle mie radici… e una “scusa” per venire più spesso!

Sui social network personalmente non ci sono: l’unica strategia social di cui mi interesso, perché fa parte del mio lavoro, è quella di “Otto e mezzo”. Forse sbaglio ma chissà che non sia, questa “dieta social”, un altro buon modo per cercare almeno di mantenere l’equilibrio?

L’intervista più appagante e quella più deludente della sua carriera?

Difficile dirlo. C’è però in “Inganno” un capitolo a cui tengo molto in cui compare da protagonista una delle figure più nere del neonazismo austriaco degli anni Cinquanta e Sessanta (e anche dei decenni successivi): Norbert Burger. Un uomo che troviamo implicato in tutti gli eventi più sanguinosi di quel tempo e la cui figlia era peraltro un’amica di Heinz-Christian Strache, l’attuale vicepremier austriaco. Mi è tornata all’improvviso alla mente un’intervista ormai dimenticata che feci proprio a Burger, nei lontani anni Ottanta, quando si candidò alle presidenziali in Austria.

Racconti.

Ero una giovane cronista di TeleBolzano e lo andammo a intervistare insieme al caporedattore Silvano Faggioni: mi aspettavo di trovarmi a confronto con il Male. Ma parlando con quel vecchio mai pentito, eppure superato dalla storia, del male misurai anche la banalità. L’intervista, potrei dire, fu quindi appagante e deludente al tempo stesso… Dall’archivio di Silvano Russomanno è riemersa tra le altre cose l’agenda di Burger, e ho potuto vedere che la mia impressione di allora era corretta. Il male, visto da vicino, comunica anche l’enorme tristezza di una vita sprecata.

 

 

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Martin B. Mo., 17.09.2018 - 19:33

Es tut mir leid aber die Hollywoodisierung der Gesichter von reiferen Moderatorinnen im italienischen TV stößt mich ab; 2003 wirkt noch alles harmonisch und natürlich. Jaja der pöhse Druck der AnhängerInnen ewiger Jugend und das Werk nicht so guter "Schönheits"-Chirurgen.

Mo., 17.09.2018 - 19:33 Permalink
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Karl Trojer Di., 18.09.2018 - 12:26

Herr Martin B. Ihr Frontal-Angriff auf die Moderatorin Lilli Gruber ist erbärmlich und strotzt vor "männlicher" Arroganz ! Was tut Ihnen dabei denn leid ?

Di., 18.09.2018 - 12:26 Permalink