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“Il mio lavoro nella shock room”

Nicola Bettera, dal pronto soccorso di Bolzano: la medicina di emergenza, il viaggio sulle navi dei migranti, la sanità locale. “Qui tanta qualità. E imparo il tedesco”.
Nicola Bettera
Foto: Nicola Bettera

Una voce da dentro le corsie del pronto soccorso di Bolzano, nell’ospedale spesso al centro delle cronache per i presunti disservizi e le condizioni precarie dell’edificio (in attesa della nuova clinica). Dal punto di vista opposto - ma spesso vicino, più di quanto si pensi - a quello dei pazienti, che magari non vedono il lavoro nascosto degli operatori sanitari. La prospettiva, in altre parole, di chi opera ogni giorno nell’emergenza, quando il tempo, la rapidità delle decisioni e lo spirito di squadra possono salvare la vita. E dove a volte, purtroppo, si assiste alla morte in diretta, senza poter più fare nulla, e bisogna trovare le parole giuste per comunicarlo ai familiari. 

Ma l’esperienza di Nicola Bettera, medico 37enne originario di Bergamo, da meno di un anno nel capoluogo altoatesino - e da ottobre alle prese con il tedesco - è anche altro: dal viaggio come volontario sulle navi dei migranti al periodo di lavoro negli Stati Uniti. Uno sguardo ampio che può servire per un confronto più oggettivo sullo stato della sanità altoatesina, messa a dura prova in questi mesi per la carenza di personale e la frizione tra i due sistemi di reclutamento per medici e specializzandi, il modello austriaco e italiano. I segnali positivi però non mancano, a sentire Nicola: “Qui - dice - le risorse economiche sono maggiori e si vede che ci sono due mondi che si confrontano. Io ho iniziato a studiare il tedesco, lo parlo già in corsia. Devo raggiungere il livello massimo del patentino entro tre anni. Non è facile, ma mi piace”.

 

 

salto.bz: L’emergenza come professione quotidiana: è difficile?

Nicola Bettera: Faccio una premessa: non c’è nulla di facile, tantomeno nella medicina. In secondo luogo, la medicina di emergenza è una precisa specializzazione della scienza medica: piuttosto nuova in Italia, visto che è stata introdotta nel 2009, più consolidata in altri Paesi. Io sono uscito nel 2015 dalla specialità svolta presso l’università Villa salute al San Raffaele di Milano. Detto questo, anche se è ritenuta una delle discipline più stressanti nella medicina, assieme all’anestesia, nella realtà forse è un luogo comune che sia sempre frenetica. 

Ci sono quindi dei momenti di calma anche in un pronto soccorso?

Lavoro in un reparto di emergenza dal 2011, a Bolzano dal primo settembre 2018, e sì, a volte ci sono momenti tranquilli. Ma in generale ogni giorno è diverso, il che rende il lavoro a mio giudizio più interessante.

Dà soddisfazione?

Certamente. È l’ambito che ho scelto, per cui mi sono formato e quello in cui devi avere ampie vedute per gestire al meglio tutte le situazioni.

Non esiste una giornata tipo. Ci sono anche momenti di calma, ma tutto può cambiare rapidamente. Qualche settimana fa abbiamo avuto un infarto, un ictus e due politraumi per incidente. In questi casi conta l’addestramento e il lavoro di squadra

Esiste una giornata tipo?

Direi di no. Noi lavoriamo su turni, sei ore la mattina o sei ore il pomeriggio, oppure la notte dalle 20 alle 8 e nei weekend ci sono altri turni da 12 ore. Siamo 5 medici per turno diurno, due dalle 20 alle 24 e uno la notte. Rispetto ad altri colleghi magari lavoriamo un po’ più nei festivi. Quello che succede è che la situazione può cambiare repentinamente nel giro di venti minuti. Qualche settimana fa abbiamo avuto contemporaneamente un infarto, un ictus e due politraumi per incidente. In questi casi conta molto l’addestramento, la formazione specifica nell’emergenza, saper gestire più situazioni allo stesso tempo nella shock room. Anche se va detto che solitamente abbiamo diversi minuti per prepararci.

Vi avvisano con le chiamate del soccorso?

Sì, la centrale del 112 annuncia l’arrivo di lì a pochi minuti del paziente, con una prima diagnosi. Il medico soccorritore, faccio un esempio, comunica che il paziente ha dolore toracico, che forse si tratta di infarto. Noi ci prepariamo ad accoglierlo. Poi se uno di noi ha bisogno di aiuto lo chiede, possiamo essere più medici a lavorare in contemporanea e operiamo anche in team con altri specialisti, visto che per i traumi ad esempio il protocollo prevede il chirurgo rianimatore e il radiologo. Sempre in team si decide in base alla gravità e al quadro clinico se il paziente va avviato alla sala operatoria o ad una terapia medica.

La morte, purtroppo, accade. E la cosa peggiore è dirlo ai parenti: nessuno ti insegna quali parole usare

La morte è una circostanza frequente?

Purtroppo, capita. Ci sono momenti, i peggiori, in cui non puoi incidere. Magari perché la persona ha perso troppo sangue, perché è passato un tempo eccessivo. A Bolzano succede meno, ha una casistica inferiore alla Lombardia di casi mortali. 

 

 

Come medici ci si fa l’abitudine?

L’abitudine mai, ma un distacco emotivo è essenziale, nel rispetto umano e professionale. Altrimenti uno non lavorerebbe con coscienza. Ci sono momenti in cui non si può fare più niente e ci si limita a non effettuare accanimenti terapeutici. Con l’esperienza si affrontano questi passaggi con più serenità.

E dovete avvisare i parenti o i congiunti. Si imparano le parole giuste o no?​

Non esistono e comunque nessuno te le insegna. Ognuno impara a rapportarsi nel modo migliore. Sono momenti in cui penso: ho sbagliato mestiere. Ma bisogna mantenere una certa fermezza caratteriale, procedere con tatto ma anche - così mi è capitato di fare - in modo diretto. Sicuramente sono momenti che nessuno vorrebbe vivere e naturalmente nemmeno lo vuole chi perde qualcuno di caro.

La situazione peggiore che ha vissuto da medico del pronto soccorso, e la più bella?

È brutto, molto brutto, quando muore un ragazzo, qualcuno di giovane. Non lo dimentichi mai. Ricordo il caso successo in Lombardia di un operaio di vent’anni morto perché gli è esplosa la bombola, un compressore, mentre lavorava. E la difficoltà di dirlo ai parenti.

Cos’aveva detto in quella situazione?

“Mi spiace signora, ma è morto”. Sapevano già che l’incidente era grave, poi ho raccontato cos’è successo. Non si dimentica.

I casi peggiori sono quando muore un ragazzo. Non si dimenticano. Ma ci sono anche situazioni a lieto fine: ricordo una bambina che era stata sott’acqua per dieci minuti, non c’erano speranze, poi si è rianimata

La situazione a lieto fine?​

Una bambina, aveva 5 o 6 anni, portata dal 118 dopo essere stata immersa a lungo in acqua, mi pare una decina di minuti. La rianimazione ha avuto successo e si è ripresa. Pensavamo non ci fosse più nulla da fare e invece. Sarebbe stato bello anche se avesse avuto 90 anni, ma quando sono bambini è tutto più emotivo. La famiglia era lì in ansia. Era stato uno dei primi casi che ho visto.

Il pronto soccorso è anche uno spaccato sociale, visto che accoglie tutti senza distinzioni. Questo rende il carico eccessivo?

Il pronto soccorso è un ammortizzatore sociale. La carenza di medici sul territorio e in ospedale, e naturalmente non è un caso solo altoatesino, ha portato l’utente a rivolgersi al servizio più facile, che non può per sua natura respingerlo. Sui ticket non commento, ma l’hanno messo anche in Lombardia e non è servito a nulla.

Il pronto soccorso è un ammortizzatore sociale. Il paziente non trova il medico di base e si rivolge dove trova il servizio sicuro. La risposta non è il ticket ma aumentare le risorse umane della sanità

Bisogna investire nella sanità in generale, a partire dai medici di base?​

La risposta a mio avviso sono effettivamente le risorse adeguate. Se vai dal tuo medico di base e non c’è, perché magari fa solo due ore al giorno e non tutti i giorni, e trovi il sostituto, ma non ti fidi, oppure ‘non risponde al telefono’, come spesso sento dire in reparto, è chiaro che vai dove trovi un servizio. Le persone sono stanche di non avere le prestazioni a cui pensano di avere diritto. Di qui la pressione sull’emergenza.

 

 

Fronteggiate anche la maleducazione e gli eccessi di comportamento?

Ci sono gli educati e i maleducati, chiunque siano. In Alto Adige devo dire che il tasso di educazione è elevato, l’alterco è difficile. A Milano era più frequente. Poi, la saccenza è peccato universale e viviamo in un mondo di ipocondriaci importanti. Detto questo, è fondamentale cercare di fornire sempre il servizio migliore, questo è il nostro compito.

Il paziente non ha l’esatta percezione del lavoro dei sanitari e talvolta si sente abbandonato o non servito al meglio.​

Può verificarsi, sì. Magari vede solo la barella e il corridoio e non tutto il lavoro che si fa.

Sono stato volontario sulla nave militare San Giorgio che salvava i migranti nel Mediterraneo durante Mare nostrum. Un giorno 1.200 persone alla volta. Capisci quando preferisce morire piuttosto che restare dove non ha niente

Lei è stato medico volontario nell’operazione Mare nostrum, sulle navi militari che hanno soccorso i migranti nel 2014. Cos’ha ricavato da quell’esperienza?​

Ho passato quindici giorni assieme a diversi colleghi sulla nave San Giorgio della marina militare, tramite un’associazione di Milano. Stavamo nel corridoio di mare al largo della Libia e dell’Egitto e soccorrevamo le persone che si trovavano su imbarcazioni di fortuna, aiutandoli e poi accompagnandoli nei porti più vicini, in Sicilia. Un’esperienza pazzesca. C’erano eritrei, siriani, ghanesi e via dicendo, uno sguardo sul mondo e sulle differenze geografiche e culturali, ad esempio tra gli istruiti siriani che parlavano inglese e gli eritrei che parlavano solo tigrino ed erano poverissimi. In due giorni abbiamo caricato 1.200 persone, la stiva della nave era piena.

Ha visto qualcosa di brutto?​

Tutto sommato no, le condizioni sanitarie erano buone, visto che passavano in mare uno o al massimo due giorni. Ho visto il cadavere di un ragazzo di 20 anni che era stato picchiato selvaggiamente in Libia ed era morto sulla barca. I compagni si sono seduti sopra per impedire agli altri compagni della traversata di buttarlo in mare. In generale quando sei lì capisci perché le persone preferiscono morire piuttosto che restare nei loro Paesi.

I bambini mi hanno colpito. Mentre i genitori, siriani e eritrei, stavano distanti, loro se ne fregavano e giocavano assieme

Però c’è anche qualcosa che dà speranza, non è vero?​

Sì, i bambini. Mentre gli adulti siriani non volevano stare vicino agli eritrei per le differenze culturali e di provenienza, ai loro bambini, di entrambe le nazionalità, non fregava nulla e giocavano assieme sulla nave.

Lei è stato negli Stati Uniti per lavoro. Anche lì ha capito qualcosa di utile?​

Nel 2015 in Florida, ho lavorato sei mesi nel trauma center di Miami, in Florida. È stato interessante vedere la mentalità molto competitiva che hanno là. Si sacrificano parecchio e però hanno già da giovani più responsabilità rispetto all’Italia. Quanto alla qualità del servizio, non abbiamo nulla da invidiare.

Lei sa che la sanità altoatesina è spesso al centro delle critiche, in queste settimane pure per il contenzioso tra Bolzano e Roma sugli specializzandi austriaci. Partendo dal pronto soccorso, sono rilievi fondati?​

Non penso assolutamente sia deficitario rispetto ad altre realtà, e ne ho viste ad esempio in Lombardia che è la regione di punta in Italia. Riguardo a Bolzano attendiamo il trasferimento nella nuova clinica. In generale, per molti aspetti qui in Alto Adige mi trovo bene, si avverte la dotazione di maggiori risorse economiche. I posti letto sono maggiori e non capita di dover lasciare pazienti sulla barella in corsia, come succedeva in Lombardia.

L’Alto Adige mi piace, si vede che si sono due mondi linguistici che convivono. Io sto imparando il tedesco e devo raggiungere il C1 in tre anni. In reparto già lo mastico, quando non mi parlano in dialetto [sorride]

Il bilinguismo aumenta la complessità?​

Sapevo venendo qui che avrei avuto uno stimolo culturale importante, si avverte che ci sono due mondi, di lingua tedesca e di lingua italiana, che hanno fatto fatica a parlarsi e però hanno iniziato a farlo. Io sono stato assunto in deroga, ho tre anni di tempo per arrivare al livello più alto del patentino, il C1. 

Più difficile che salvare vite?​

Mi piacerebbe integrarmi il più rapidamente possibile e ho iniziato a studiare subito, da ottobre 2018. È impegnativo perché devi aggiungere un’attività continuativa alla giornata di lavoro, ma mi sta dando soddisfazioni, me la cavo con il tedesco con i pazienti, sempre se non parlano dialetto [sorride].

Mi chiedo, cosa accadrà con chi nella sanità dopo tre anni non raggiungerà il requisito linguistico? Verrà lasciato a casa contando però il problema di risorse che esiste? Io però mi impegno al massimo

Il requisito linguistico è un problema che si aggiunge alla carenza di medici e sanitari.​

È così, tanti lavoratori della sanità sono stati assunti in deroga e mi chiedo, se dopo tre anni non raggiungeranno il livello del patentino cosa farà l’amministrazione, li lascerà a casa con il problema di organici che c’è? E capisco i colleghi che sono qui da più tempo e fanno fatica, vuoi per la famiglia o per altro. Tuttavia, il bilinguismo è una realtà e io mi sono posto questo obiettivo.

L’Alto Adige le piace?​

Mi piace, sono molto soddisfatto della scelta.

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Sepp.Bacher Fr., 09.08.2019 - 09:34

Ich beschränke mich mit meiner folgenden Bemerkung auf folgende Aussage: " Dal punto di vista opposto - ma spesso vicino, più di quanto si pensi - a quello dei pazienti, ..(....) in altre parole, di chi opera ogni giorno nell’emergenza, quando il tempo, la rapidità delle decisioni e lo spirito di squadra possono salvare la vita. E dove a volte, purtroppo, si assiste alla morte in diretta, senza poter più fare nulla, e bisogna trovare le parole giuste per comunicarlo ai familiari." Ich glaube, diese Ebene wird einerseits schon anerkannt. Aber wenn jemand in einem dringenden Notfall in die erste Hilfe kommt, dann ist seine Priorität - und seiner Begleiter - so schnell wie möglich eine Hilfe zu bekommen. In einer Supervision oder Betriebsberatung würde man feststellen, dass das Problem im "System", d.h. in diesem Fall auf der Managment- bzw. politischen Ebene liegt. Wenn aber da die Schwachstelle ist, wie ja offensichtlich, dann muss man dort ansetzen und nicht bei den Patienten, die meistens einen Leidensdruck haben. Warum wird nie jemand zur Rechenschaft gezogen, wenn Fehler und lange Verzögerungen passiere, wie beim KH-Neubau? Warum streicht man den Spitzenmanagern nicht mindestens die Erfolgsprämie? Ziel erreicht weil gespart! Anscheinend stand nicht mehr das Wohl der Patienten im Vordergrund!

Fr., 09.08.2019 - 09:34 Permalink