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Gesellschaft | Come comunichiamo

Difendersi dai sostantivi

Dovrebbero aiutarci a capire, ma spesso sono ridondanti e inutili. Se è vero che il mondo è tutto ciò che accade, per raccontarlo bisognerebbe usare più verbi che nomi.

“Attendere prego ... l'elaborazione della Sua richiesta è in corso”.

“Bitte warten … die Bearbeitung Ihrer Anfrage ist im Gange”.

Non suona goffo e pomposo questo avviso che appare sui monitor di certi bancomat? D'accordo, chi preleva soldi va rassicurato; ma per questo basterebbe il semplice “Attendere prego” … “Bitte warten” (e infatti, se si sceglie come lingua l'inglese, lo schermo se la cava con uno spiccio “please wait”). Qui invece dominano tre sostantivi, di cui due ridondanti e quello di mezzo umiliante: ”elaborazione” e “corso” ripetono lo stesso concetto, mentre “Sua richiesta” fa capire che sei pur sempre tu a chiedere (per quanto con la maiuscola) e loro a concedere. Come insegna la semiotica, le parole denotano e connotano, veicolando messaggi di cui non sempre siamo consapevoli.

Presi in prestito dal burocratese e altri gerghi, i sostantivi dominano i testi della comunicazione pubblica. Gli uffici sono chiusi “in ottemperanza alle vigenti disposizioni”; nell'autocertificazione dichiariamo “di essere a conoscenza delle misure di contenimento”; il summit è “in corso di svolgimento”; un cartello avvisa che “L'accesso a questo edificio è subordinato al mantenimento di una distanza tra le persone presenti di almeno un metro”; gli imprenditori auspicano “provvedimenti di apertura”; sul giornale leggiamo “Abolita la limitazione della presenza di un massimo di cinque lavoratori”; il meteo annuncia “fenomeni significativi dai quadranti sud-occidentali” e così via.

Quest'ultimo esempio è particolarmente interessante. Chi dà le notizie sul tempo, dovrebbe preoccuparsi in primis di farsi capire; ma allora perché “fenomeni significativi dai quadranti sud-occidentali” e non semplicemente “temporali da sud-ovest”? La risposta è che leggendo le previsioni, il colonnello dell'aeronautica militare vuole sì annunciare che domani ci attendono vento e pioggia; ma piazzato lì, in divisa, investito di un mandato ufficiale, coi suoi paroloni gonfi come le nuvole del temporale, è portatore anche di un messaggio più sottile: ossia che ci sono coloro che sanno e che capiscono, anche se tu non sai e non capisci – e anzi in certi casi proprio il tuo non capire ti dà a intendere che loro invece capiscono.

 

Ci sono coloro che sanno e che capiscono, anche se tu non sai e non capisci

 

Gli specialisti usano i loro termini tecnici, semplicemente perché non si può ogni volta partire da zero nel definire ciò di cui dicono. Sentiamo parlare i medici di patogeni, anticorpi e antigeni; i giuristi di dolo specifico, combinato disposto ed esimenti; gli economisti di settore primario, secondario e terziario... tutti termini con un significato preciso per chi conosce quelle discipline, anche se non sempre chiaro al grande pubblico. Non sono loro a comportarsi da colonnelli. E d'altra parte i sostantivi, anche quelli astratti, sono elementi irrinunciabili del comunicare, appunto in quanto sintesi di ciò che vediamo, sappiamo, supponiamo, immaginiamo, sentiamo e cerchiamo di esprimere. Non se straripano però, come avviene quando a parlare o scrivere è l'istituzione, l'autorità, l'ufficialità e chi si sente investito di tali ruoli. Si usano molti espedienti retorici per captare e dirigere l'attenzione di chi ascolta; uno di questi consiste appunto nel moltiplicare i sostantivi, rimandando a concetti altisonanti e a sempre nuovi livelli di sintesi. Chi ne conosce tanti acquista autorevolezza e stabilisce tra sé e il pubblico una gerarchia che è doveroso rispettare; e pazienza se il significato delle parole affoga: importante è fingere di sapere e di capire. Tiriamo pure in ballo il principio d'autorità: è ciò a cui punta gran parte del comunicare in tivù, alla radio, sui giornali, negli avvisi pubblici e anche in contesti del tutto informali.

Nessuno è padrone della lingua: questo è ciò che di fatto accade. Tanto meno lo sono i filosofi che la studiano e che pretendono di stabilire di cosa si possa parlare e di cosa si debba invece tacere


Spesso astratti (“ottemperanza”, “disposizione”, “corso”, “fenomeni”, “limitazione”, “presenza”); spesso usati al posto di un verbo (“essere a conoscenza” anziché “conoscere”, “L'accesso a questo edificio è subordinato al mantenimento...” anziché “Si accede a questo edificio solo mantenendo...”); spesso del tutto inutili (“Nella giornata di domani” anziché “Domani”; “Si registra un'impennata del numero dei morti” anziché “S'impenna il numero dei morti”; “La tendenza al rallentamento del contagio” anziché “Il contagio rallenta”; “Il piano ha come obiettivo il ripristino dell'assistenza” anziché “Il piano per ripristinare l'assistenza”; la “rimozione delle prescrizioni sull'uso dei dispositivi di protezione” anziché un più immediato “abolito l'obbligo delle mascherine”...): ecco alcuni sintomi di ciò che, con un nuovo enfatico nome, si potrebbe definire “sostantivite”. Una delle patologie che affliggono il nostro linguaggio e pregiudicano il comprendersi.

È giusto citare almeno un esempio contrario, che dimostra come la comunicazione pubblica possa essere precisa e diretta nel trasmettere informazioni importanti. Sono i “Dieci comportamenti da seguire” contro il Coronavirus, scritti dal Ministero della salute: “Lavati spesso le mani... Evita il contatto ravvicinato..., Non toccarti gli occhi... Copri bocca e naso...”. Ecco la prova che quando si deve e quando si vuole, si riesce a parlar chiaro, il che è necessario per ogni società, soprattutto in tempi di crisi - e non solo sanitaria.

 

Meglio i verbi?

 

In tutte le lingue moderne i sostantivi sono molto più numerosi dei verbi. Anche questo ci porta a descrivere il mondo citando e inventando i nomi delle “cose” di cui lo riempiamo. Per contrasto, è curioso ricordare quanto sostiene Ludwig Wittgenstein quando scrive “Il mondo è tutto ciò che accade” (“Die Welt ist alles, was der Fall ist”) e subito dopo “Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose” (“Die Welt ist die Gesamtheit der Tatsachen, nicht der Dinge”). Per raccontare questo mondo non di “cose”, ma di fatti, accadimenti, movimenti, interazioni non sarebbero più appropriati i verbi dei sostantivi?

Nessuno è padrone della lingua: questo è ciò che di fatto accade. Tanto meno lo sono i filosofi che la studiano e che pretendono di stabilire di cosa si possa parlare e di cosa si debba invece tacere. La lingua è dei parlanti (e degli scriventi) e può servire a tanti scopi: mostrare e nascondere, definire e confondere, illuminare e oscurare, andando persino al di là delle intenzioni di chi la usa. Non farsi usare dalla lingua è poi affare di chi ascolta.

 

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Verena Girardi Sa., 20.06.2020 - 21:08

Ciao lucio, totalmente d'accordo con te. E con wolf schneider, der sprachpapst, che ha scritto diversi libri su questo aspetto. Un caro saluto, verena

Sa., 20.06.2020 - 21:08 Permalink
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Ingrid Beikircher Do., 20.08.2020 - 09:24

Zu dem von mir überaus geschätzten Sprachpapst Wolf Schneider möchte ich erwähnen, dass er vehement die Sprachungetüme mit dem „-innen“ Wurmfortsatz in Sprache und Text ablehnte; in Schreibform mit Binde-, Schräg-, Großschrift usw. Ich sehe z.B. im Ausdruck Mitglied alle Geschlechter inbegriffen. Denn folgerichtig müsste es genauso heißen, die Menschin oder die Personin und der Person. Hören wir doch endlich auf mit diesen unsinnigen Stolpersteinen im Rede- und Lesefluss und kehren wir wieder zurück auf die ursprüngliche Ausdrucksform. Wenn eine Frau sich nur mit dem „-innen“ respektvoll angesprochen sieht, dann mangelt es wohl an deren Selbstsicherheit. Ich jedenfalls will mich nicht nur auf das „-innen“ reduziert sehen – und viele meiner mir bekannten Frauen (oder Bekantinnen?) auch nicht. Wir Frauen können und müssen uns in anderer Form beweisen, Achtung gewinnen und was auch immer, aber nicht im trotzigen Durchsetzen solcherart Sprachverhunzung. Abgesehen davon bräuchten wir der Fairness halber dann noch einen Ausdruck mit Klammern, Schrägstrichen, Sternchen für Menschen, die sich nicht eindeutig dem einen oder anderen Geschlecht zugehörig fühlen.
Ich weiß, es wurde bereits jahrelang über dieses Thema diskutiert. Aber wir erfahren heute die Früchte dieser Gender*-Hysterie: komplizierte, langatmige Reden und vor allem das Abwürgen des Leseflusses in jeder Art von Texten.

Wolf Schneider würde sich ob all der „-innen“ in Wort und Schrift jedenfalls im Grabe umdrehen. Und mit ihm Hesse, Goethe und andere, denen Sprache Kunst, Lautmalerei und Rhythmus war.

Do., 20.08.2020 - 09:24 Permalink