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Da sponda a sponda

“Traducendo non facciamo altro che segnare un tracciato, scegliere una via e dare una vita. Oppure un’altra”. La traduttrice Donatella Trevisan sull’arte della traduzione
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale del partner e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
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Foto: Donatella Trevisan

Tradurre significa trasportare verso una mèta, del resto anche übersetzen significa trasportare da una sponda all’altra. Ed è questo che si fa sempre, quando si usa una lingua. Anche la propria. Si trasporta un significato nella parola, ed è grazie alla parola che il significato in un certo senso si rivela, si stabilizza, diventa condivisibile, si fa patrimonio comune che consente di comunicare contenuti. La parola per la specie umana è dunque un approdo. L’approdo del significato.

La linguistica si è lungamente occupata della questione che riguarda il legame tra significato e significante (la parola, appunto). Vi sono due grandi tesi contrapposte: una afferma che il significato è universale e le parole solo un mezzo che, a seconda della lingua, utilizza particolari forme per esprimerlo, l’altra invece che sono le parole, una volta diventate lingua particolare, a plasmare la nostra percezione del significato. 

Abbracciare una tesi o l’altra ha conseguenze piuttosto rilevanti rispetto allo status che si attribuisce al mezzo linguistico. È chiaro che se il significato è universale e la lingua solo un fattore accidentalmente specifico (perché facciamo parte di una data comunità linguistica e non di un’altra), tutto è traducibile e quel che pensiamo non dipende dalla lingua che parliamo. Se invece è la lingua (ogni specifica lingua) a determinare il nostro rapporto con il significato, allora il significato non è più “universale”, ma diventa una funzione della lingua: in questo caso la nostra lingua determina il nostro pensiero e nulla è veramente traducibile da una lingua all’altra. 

Tutto questo discorso potrà sembrare alquanto astratto, ma la nostra terra è l’esempio concreto di quanto invece la questione possa avere un impatto massiccio sul rapporto che lega o divide parlanti di lingue diverse. Mi pare chiaro che per lunghi decenni da noi, per lo meno a livello politico, sia prevalsa la tesi della radicale diversità indotta dalla lingua, e quindi della sostanziale „incomunicabilità“ tra chi ne parla una e chi ne parla un‘altra, con conseguente divisione della comunità in base a criteri di appartenenza linguistica. 

La traduzione, meglio di ogni altra attività, rivela infatti lo scarto tra lingua e mondo, ci costringe a prendere atto sia dell‘approssimazione insita nel linguaggio in sé che della differenza di approssimazioni operate dalle diverse lingue.

Per fortuna da sempre, anche qui da noi, esistono persone che parlano più lingue e dunque costituiscono la smentita vivente di questa tesi. Tra chi conosce più lingue c’è poi chi si dedica professionalmente a fare la spola tra una e l’altra per consentire alle informazioni, ai pensieri, ai sogni, alle emozioni – insomma, ai contenuti che costellano la nostra esistenza - di raggiungere tutta la comunità, che è la cosa che più conta per creare un presente e un futuro condivisi. 

Ma torniamo alla lingua e alla traduzione. Se dunque, come abbiamo visto, si traduce in realtà sempre, anche quando si parla una sola lingua (dal significato al significante e viceversa), tradurre da una lingua all’altra costituisce un’arte a sé. 

 

Non basta infatti conoscere due lingue per saper tradurre. Uno degli sbagli più frequenti che commette chi traduce ingenuamente è quello di attaccarsi alle parole. La traduzione, quella fatta bene, non è invece mai una traduzione di parole, bensì di significati. Solo staccandosi dalla specificità della lingua di partenza ed immergendosi nell‘universalità del significato si può infatti riprodurre il senso di una frase (un testo, un discorso) nella lingua d‘arrivo. Questa operazione di immersione nel significato è alla base di ogni buona traduzione. Ed è un‘operazione dai risvolti spesso sorprendenti. 

Innanzitutto, il testo di partenza, quello nella lingua „originale“, è uno e uno soltanto. Le traduzioni che ne scaturiscono possono invece essere (e in genere sono) molte, diverse tra loro. Il rapporto che lega il testo della lingua A alla sua traduzione nella lingua B è dunque solitamente un rapporto sbilanciato. Nella traduzione il testo originale, statico e immodificabile, vive per così dire le sue altre possibili vite. La traduzione, meglio di ogni altra attività, rivela infatti lo scarto tra lingua e mondo, ci costringe a prendere atto sia dell‘approssimazione insita nel linguaggio in sé che della differenza di approssimazioni operate dalle diverse lingue. Ci fa anche capire che a volte una lingua ignora interi segmenti di realtà per cui invece un’altra possiede una messe di parole, o viceversa. Traducendo non possiamo far quindi altro che segnare un tracciato, scegliere una via e dare una vita. Oppure un‘altra, appunto. 

Un „effetto collaterale“ della traduzione è inoltre quello di evidenziare eventuali incongruenze semantiche, logiche o sintattiche del testo di partenza. Siccome per tradurre bisogna comprendere alla perfezione il testo di partenza, ogni errore salta subito all‘occhio. Far tradurre un testo è quindi un ottimo modo per capire se è scritto correttamente.

Conquistare alla nostra lingua un significato già codificato in un‘altra amplia poi sempre anche l‘orizzonte di realtà - concreta o astratta – entro il quale si muove la nostra comunità linguistica. Intere tradizioni culturali sono fondate sulla traduzione, cioè sull‘immissione di nuovi contenuti provenienti da altre realtà o periodi (basti pensare all‘effetto indotto dalle traduzioni dei testi sacri oppure dei classici greci).

C‘è infatti sempre chi osteggia la comunicazione tra comunità, geloso dei propri contenuti e refrattario a quelli altrui. Se va al potere, come in questi tragici giorni i Talebani in Afghanistan, non resta che scappare. Mentre il motto dice che tradurre è un po‘ tradire, vediamo che viene tradito chi ha tradotto, ora alla mercé di zelanti carnefici. 

La traduzione può però arricchire anche l’orizzonte di significato della lingua di partenza, svelandone possibilità di interpretazione inesplorate. L’esempio che sto per riportare lo devo ad un magnifico corso monografico su Peter Handke tenuto molti anni fa a Trieste dal professor Hans Drumbl. Si tratta della traduzione della celebre poesia „Mattina“ di Giuseppe Ungaretti fatta dallo scrittore austriaco. Handke opera un capovolgimento completo del punto di vista originale, catapultandoci in una realtà alternativa ma perfettamente speculare a quella di partenza. Sono certa che chiunque capisca sia l‘italiano che il tedesco non se ne scorderà più:

M’illumino
d’immenso.

diventa

Auf
atmen
die Dinge.

Infine, un ultimo appunto, dettato dagli avvenimenti recenti: tradurre può – in certe circostanze e periodi e luoghi – essere una professione pericolosa. C‘è infatti sempre chi osteggia la comunicazione tra comunità, geloso dei propri contenuti e refrattario a quelli altrui. Se va al potere, come in questi tragici giorni i Talebani in Afghanistan, non resta che scappare. Mentre il motto dice che tradurre è un po‘ tradire, vediamo che viene tradito chi ha tradotto, ora alla mercé di zelanti carnefici. 

Che allora si sappia e lo si proclami ovunque: Tradurre è un’attività preziosa, che consente l’incontro delle diversità su un terreno universale. Lunga vita quindi alle traghettatrici e ai traghettatori di significati, a coloro che viaggiano costantemente da una sponda all‘altra di quell‘immenso oceano che è la condizione umana. Al cui inizio c‘è il verbo.  

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