Società | Un bilancio del 2020

È andato tutto bene?

Cosa ci ha portato via e cosa ci lascia il 2020? Un bilancio (personale) di questo anno.
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
Copertina Time
Foto: Time

Sono proliferate nell’ultimo periodo le ormai solite cantilene. “Il 2020 è stato un anno duro ma ci ha insegnato tante cose”, “siamo stati distanti ma ci siamo riscoperti vicini”, "abbiamo riscoperto il valore delle piccole cose" e potrei andare avanti ancora con le narrazioni incomplete di quest’anno di pandemia. Anche il Time, uno dei più influenti settimanali del mondo, lo scorso dicembre ha deciso di cancellare il 2020 con una X in copertina. È successo solo poche altre volte che il Time tirasse una croce in prima pagina: lo fece su Adolf Hitler, su Saddam Hussein, su Al-Qaeda e su Osama Bin Laden.

Se scorro la galleria del mio telefono o del mio profilo Instagram, mi rendo conto che in effetti davvero tanto, dentro e fuori dalla mia vita, è cambiato nell'ultimo anno.
Ma cosa ci ha portato via nel concreto questo 2020?

Principalmente il 2020 ci ha portato via tanti anziani, la memoria storica e la consapevolezza del nostro paese, del nostro continente, del nostro mondo. Da ultima la senatrice Lidia Menapace, morta per Covid a 96 anni all’ospedale di Bolzano.
Ci ha portato via persone a noi care. Tutti conosciamo almeno una persona che ha subito la perdita di un familiare o un amico. Quest’anno il dolore di uno è stato il dolore di tutti.
Il 2020 ci ha portato via un po' della nostra leggerezza, costringendoci a mettere dei paletti al nostro stare insieme e divertirci, obbligandoci a essere persone più responsabili anche se controvoglia, con lo sguardo sempre inconsciamente attento, impedendoci di viaggiare e fare esperienze nuove per proteggere noi stessi, le nostre famiglie e gli altri. Dovere importante, soprattutto per chi lavora in mezzo a tante persone, penso a infermieri, medici, parrucchieri, operatori sociali, cassieri, poliziotti, ma stimolato anche dalla narrazione spesso nevrotica che i media hanno dato di questo anno, paragonando il virus prima a un nemico, poi a una guerra e, volente o nolente, abituandoci a vivere in un clima di continua tensione.
Il 2020 ci ha portato via una idea di scuola e università, invitandoci tutti, studenti e professori, maestri e alunni, a riorganizzare il nostro approccio alla cultura. Ci ha portato via un modo di lavorare con le persone. Negli ospedali, sulla strada, nei ristoranti, nei negozi, ogni lavoratore ha dovuto colmare da sé la distanza che inevitabilmente la mascherina chirurgica ha imposto tra di noi.

Per questo il 2020 ci ha portato via soprattutto il senso di sicurezza e protezione che ha contraddistinto la nostra comunità negli ultimi cinquant’anni. Chi ha vissuto la quarantena nelle grandi città sa bene che la realtà non è stata solo canti dai balconi e bandiere italiane, ma sa cosa significa una strada deserta, gli sguardi dei passanti, quelli delle persone alle finestre a caccia di un colpevole che infrange le regole da trasformare in untore. Ricorderà anche l’euforia con la quale siamo usciti di casa appena è stato possibile, come se tutto fosse da archiviare più in fretta possibile nel passato.

Parlare del 2020 in senso solo negativo però non renderebbe giustizia a un anno comunque importante. 
Cosa ci lascia il 2020?

Non credo sia la voglia di riabbracciarci e di fare festa. Questa è solo una delle narrazioni della pandemia. Forse nemmeno la più appropriata. Il 2020 ci ha mostrato come siamo legati alla natura tanto da dipenderne. Il 2020 ci ha chiesto con chiarezza: in quale futuro, in quale sistema e in quale comunità vogliamo vivere?
In questo senso la pandemia ha rimosso le mezze misure: nel 2020 o si è stati dentro o si è stati fuori, tutto è accaduto in maniera cruda e senza alcuna possibilità di consolazione. Le amicizie e gli amori che sono rimasti sono solo quelli più forti, tutti gli altri sono scivolati nella più cieca indifferenza. Anzi, la gestione delle relazioni durante la pandemia ha rivelato quanto siamo maturi o quanto non lo siamo come amici, come familiari e come partner. Ci ha messi alla prova per dimostrare se siamo davvero in grado di stare da soli oppure se dipendiamo dalla presenza di qualcuno. In alcuni casi ha dato valore a un nuovo tipo di legame, quello nato dalla parola scritta, dalla lettera inviata per posta, dalla lunga e-mail.

Il 2020 ha amplificato ogni dolore e ogni perdita, costringendoci a una resa dei conti con noi stessi, lasciati soli con il nostro silenzio. Forse, ecco, è il silenzio il vero dono che ci lascia il 2020: la consapevolezza che le parole e i gesti hanno un valore se scaturiscono dal silenzio che ci serve per ascoltarci, per esprimerci e per tradurre quello che abbiamo dentro. 
Lasciandoci soli, questo anno ci ha spinto a fare pulizia dentro e fuori di noi, a toglierci le maschere che nella vita di ogni giorno teniamo addosso fino a vedere quello che sta sotto e a guardarlo talvolta con gioia, talvolta con disprezzo. «Siamo figure losche / facciamo male alle mosche / togliamoci la maschera alla Scooby Doo» hanno cantato i Pinguini Tattici Nucleari in uno dei loro ultimi brani. E togliendoci le maschere siamo apparsi (finalmente, direi) per quello che spesso siamo: ipocriti, incivili, indifferenti, egoisti, perbenisti, vittime della socialità virtuale e di quella da bar, arroccati dietro il nostro odio, ingenuamente ottimisti alla fine della prima ondata, sconfitti dai fatti.
Non è andato tutto bene e non andrà tutto bene perché il tema non è il coronavirus, il tema è sempre stato l'uomo. Ma non lo stiamo capendo nemmeno stavolta.