Cultura | Salto Weekend

Visioni atipiche

Enrico Ghezzi, premiato in Piazza Maggiore a Bologna, ha curato una serata con quattro corti “segreti” di Pasolini, Fellini, Godard e Moravia.
e2
Foto: Foto: Salto.bz

I cinefili nottambuli di sicuro conoscono la sua voce che introduce da anni il ciclo Fuori orario con la mitica sigla, in cui il refrain del song di Patti Smith Because the night belongs to lovers è accompagnato da una sequenza di straordinarie immagini in bianco e nero presa dal film del regista francese Jean Vigo L’Atalante, realizzato nel 1934 come opera seconda e ultima, poco prima di morire: una donna vestita di bianco si tuffa nell’acqua… La voce è quella di Enrico Ghezzi che negli anni ottanta iniziò su Raitre (quando il terzo canale era diretto in modo pionieristico dal sapiente Angelo Guglielmi) con programmi che tiravano a criticare e a smontare il linguaggio televisivo come Schegge e Blob. Quest’ultima forse noto anche a una cerchia più ampia di telespettatori, in quanto va in onda tutte le sere alle otto per mostrarci con il modello del “montaggio delle attrazioni” - inventato dal maestro del cinema sovietico muto Sergej Ejzenštejn e che vuole porre l’attenzione di chi guarda al significato che danno immagini di vario tipo montate in sequenza per analogia o simbologia o contrasto sul piano astratto e per cui filosofico quando il cinema ancora non era dotato della parola. Certo, oggi le sequenze montate, prese dai vari programmi televisivi della giornata precedente sono sequenze “parlate”, per le quali viene usato lo stesso principio, smontandone il senso originario e facendo risultare il vuoto, la non significanza, estraendone quella banalità per cui vanno a cadere spesso dei grandi miti artificialmente costruiti nel mondo dello spettacolo, dello sport e della politica, soprattutto. A Ghezzi per questo suo lavoro di “ri-autore” - come lui stesso si è definito - è stato assegnato il Premio Franco Quadri 2017 (Franco Quadri, famoso critico teatrale e fondatore della casa editrice Ubu che pubblica soprattutto libri dedicati al teatro, scomparso nel 2011).

Nella motivazione data dalla giuria composta da Luigi De Angelis, Piersandra Di Matteo e dal figlio di Quadri, Jacopo Quadri, noto montatore del cinema d’autore italiano, viene chiamato “artefice di un lungo ‘detour’ che attraversa il cinema, la filosofia, il teatro, la musica, la letteratura… facendo propria la ‘regola del gioco’ del montaggio analogico”. E continua così: “aveva ideato architetture di festival che hanno scandito il passaggio tra il Novecento e il Duemila festeggiando il cinema come ‘magnifica ossessione’. E, soprattutto, ha fatto conoscere a generazioni di spettatori e artisti e critici l’unicità di autori ‘mai visti’, alimentando instancabilmente i nostri sogni notturni attraverso una galleria di specchi senza fine”. Tra gli autori che lui ci ha fatto conoscere nominiamo Paradžanov e Pelešjan, Wakamatsu e Kitano, Ioseliani e Tarr, Monteiro e Garrel. Fu il primo a intercettare i mondi visionari e scomodi di Ciprì e Maresco e di Rezza e Mastrella, come di Alberto Grifi e Tonino De Bernardi. Siccome il premio è dedicato al mondo teatrale, non manca anche un cenno al Ghezzi del teatro, che ha mandato in onda i cut dell’Otello televisivo di Carmelo Bene, e alcuni ispirati montaggi dagli spettacoli di Luca Ronconi, o maratone nelle connessioni tra teatro e cinema. 

Era stato il linguaggio filosofico-fantastico-alimentatore di vasti immaginari praticato dallo stesso Ghezzi nei suoi discorsi di introduzione alle serate notturne televisive a nutrire anche l’anima di Marco Mazzone, artista visivo e performer del gruppo teatrale italiano Kinkaleri, autore dell’opera che fu consegnata come premio materiale a Enrico Ghezzi nella serata del 29 luglio in Piazza Maggiore a Bologna, durante la programmazione estiva di Sotto le stelle del cinema curata dalla Cineteca di Bologna, dove lui ha inglobato alcune parole in una scultura, parole che Mazzone ha dichiarato essergli state “regalate” dallo stesso critico cinematografico: “Non è il tempo che ci manca, siamo noi che manchiamo al tempo”. Premiare uno che ha lavorato per tutta la vita per la vasta platea di telespettatori davanti al folto pubblico assemblato in una grande piazza, come quella centrale del capoluogo emiliano-romagnolo, è stata la grande e giusta idea avuta dal direttore della Cineteca di Bologna, Gianluca Farinelli, anch’egli presente sul palco, sotto lo schermo gigantesco sul quale poi sarebbero state proiettate alcune meraviglie del cinema italiano anni cinquanta e sessanta, e non solo. Il programma della serata è stato curato dello stesso Ghezzi premiato che ha voluto offrire uno sguardo europeo con questi film che lui definisce “segreti” in quanto si vedono raramente, ma sono uno più capolavoro dell’altro: La ricotta di Pier Paolo Pasolini, Toby Dammit di Federico Fellini, Il nuovo mondo di Jean-Luc Godard e Colpa del sole di Alberto Moravia, unico lavoro cinematografico realizzato nel 1950 dallo scrittore romano. Ghezzi ha scelto corti di media durata, in quanto per lui sono opere cerniera nella produzione dei diversi loro autori.

Procediamo per ordine di proiezione.

La ricotta girato nel 1963 per il film a episodi di produzione italo-francese Ro.Go.Pa.G (dalle sigle iniziali dei vari autori che vi hanno partecipato, Rossellini, Godard, Pasolini e Ugo Gregoretti), composto da quattro racconti che rispecchiano la società contemporanea di quel periodo. (Ri)Visti oggi, risultano più che mai attuali. Pasolini prende spunto dallo sfruttamento degli operai, dalla fame, a fronte di una borghesia indifferente a tutto ciò, unicamente preoccupata a mantenere i propri privilegi. Il film è ambientato sul set di un ipotetico film sulla morte di Cristo (le immagini del film girato nel film sono splendidamente a colori che ricordano i quadri del Trecento italiano, annunciando già quel tipico stile pasoliniano ispirato al linguaggio visivo della pittura classica italiana, avendo lui studiato storia dell’arte con il grande critico Arcangeli all’università di Bologna). Tra gli attori troviamo facce di ragazzi di borgata, che poi avrebbero caratterizzato l’intera opera di Pasolini, mentre la figura del regista, ossia di lui stesso, è stata interpretata da un altro grande come Orson Welles. Pasolini non ha mai mancato di lanciare le sue argute critiche nei confronti della corrotta società italiana e nella finta intervista con un giornalista esprime le vivide critiche definendo lo stesso giornalista, le cui domande sono un estratto di quelle fatte a lui stesso all’epoca, come “cittadino medio che incarna la mediocrità, il razzismo bieco e l’indifferenza sul piano socio-politico”. Di grande ispirazione poetica invece la definizione che dà come risposta al quesito riguardo la sua opinione di Federico Fellini (con cui Pasolini aveva esordito nel cinema scrivendo alcune sceneggiature per lui): “Egli danza… egli danza”. Quale definizione migliore del mondo cinematografico felliniano?

Del mondo visionario disegnato nel corso delle sue opere dal regista di origine romagnola abbiamo avuto un assaggio subito dopo nel suo poco noto (al grande pubblico) Toby Dammit del 1968, altro episodio per un altro film a episodi, Tre passi nel delirio (erano tipici negli anni sessanta nelle coproduzioni per far lavorare diversi registi dei diversi paesi partecipi). Nei titoli si leggono già grandi nomi del cinema italiano come Piero Tosi per i costumi, Giuseppe Rotunno per la fotografia, Ruggero Mastroianni per il montaggio, mentre come tema qui entra la morte sulle tracce del racconto di Edgar Allan Poe, Non scommettere la testa col diavolo. Un attore inglese viene chiamato per essere premiato in Italia, e Fellini coglie l’occasione per disegnare uno dei suoi tipici ritratti di assoluta visionarietà della decadenza della società dello spettacolo e del mondo contemporaneo in generale. Memorabili gli incontri col diavolo-bambina immaginati come in un sogno-incubo dall’attore Toby Dammit, per l’appunto, e altrettanto intrigante l’ambiente disegnato dalle immagini create da Fellini in aeroporto appena Toby era atterrato a Roma, ivi comprese le suore con le tuniche svolazzanti…
“Film-cerniera e di svolta, nel tema e nel linguaggio”, venne definito dal critico Goffredo Fofi, sottolineando che non si poteva guardare l’opera felliniana senza tener conto di questo suo mediometraggio.

E siamo arrivati al Godard del Nuovo mondo: il cineasta critico, autore, filosofo francese vi ha voluto ritrarre il vuoto di sentimenti e di emozioni, nonché le angosce vissute soprattutto negli anni sessanta a causa dei continui esperimenti sul piano delle armi atomiche. Anche qui troviamo in nuce tutto Godard nella relazione tra uomo e donna, ridotta all’essenziale, al linguaggio non verbale, a quel tipico “dire e non dire” per non voler dire la propria verità. Un altro famoso critico cinematografico, Alberto Farassino (autore, tra l’altro, di una bellissima monografia su uno dei più importanti cineasti della nouvelle vague francese edita da Il Castoro) ha chiamato quest’opera “film di fantascienza intellettuale” che prefigura “un mondo in cui la ragione non detiene più il suo ruolo dominante e in cui l’intellettuale deve assistere alla sua fine storica”. Sul piano del montaggio qui troviamo già il Godard che ne avrebbe fatto un cavallo di battaglia delle sue lucide analisi per immagini sui diversi aspetti e fenomeni della società a lui contemporanea fino a oggi: gioca con le regole, smontandole, ad esempio proponendoci le stesse immagini montate a specchio o invertite, per mettere in forse la veridicità del cinema e del mondo della fotografia, tanto adorato dal grande pubblico in quanto vi si può identificare. Godard era brechtiano al cento percento, lui non permette l’identificazione con nessuno dei suoi personaggi impegnando lo spettatore in una visione critica di ciò che lui rappresenta.

E dulcis in fondo, ecco i sei minuti immaginati da Moravia: Colpa del sole mostra due situazioni di coppia, montate a specchio, una all’interno di una casa, l’altra fuori nel giardino, il cui accadere vediamo soltanto attraverso la finestra, come “proiettata” sullo sfondo. Il tema è quello tipico di Moravia, noia e indifferenza, e con le poche battute di dialogo è un film breve e asciutto ma che la dice lunga sulla relazione (pseudo)amorosa di tante coppie e soprattutto sulle origini dei tanti femminicidi, cui assistiamo da un po’ di anni a questa parte. Doveva essere il prototipo per un periodico cinematografico di sua invenzione con novelle sue e di De Sica. Purtroppo è rimasto unicamente questo superstite conservato presso la Cineteca Italiana di Milano.