Società | L'intervista

“Difendo i diritti dei più fragili”

Paolo Cendon, giurista e scrittore, sui diritti degli ultimi, il “danno esistenziale” e il “progetto di vita”, la riforma basagliana e quella rivoluzione necessaria.
Paolo Cendon
Foto: Facebook

Non esistono soggetti deboli, a questo mondo, ci sono soltanto persone indebolite”, è nel segno di questa granitica convinzione che Paolo Cendon si impegna da molti anni sui temi legati alla fragilità dell’individuo, a cominciare dalla tutela dei diritti dei malati di mente. Giurista, scrittore, ordinario di diritto privato all’Università di Trieste, promotore di leggi sul danno esistenziale, sull’introduzione della figura dell’amministratore di sostegno, sull’abrogazione dell’interdizione, Cendon ha collaborato con il team del “padre” della 180, Franco Basaglia ed è uno degli alfieri di Diritti in Movimento, progetto apartitico che vede la partecipazione di professionisti di ogni settore e che punta a rimettere il diritto civile al centro dell’agire. Cendon sarà a Bolzano lunedì prossimo, 7 ottobre, alle ore 18 presso la libreria Ubik di via dei Grappoli per presentare il suo libro “I diritti dei più fragili” in dialogo con Gabriele Di Luca, editorialista del Corriere dell’Alto Adige. 

 

salto.bz: Professor Cendon, come può il diritto mettersi al servizio delle esigenze di cura dei più fragili?

Paolo Cendon: Ci sono molte cose che il diritto può fare. Quella più importante si realizza quando per aiutare un individuo che non ha la capacità di autogestirsi, ad esempio perché non sta bene psichicamente oppure perché è molto anziano oppure ancora perché cade vittima di dipendenze, viene nominata una persona che lo aiuta a orientare e amministrare la propria vita, ed è questa l’opportunità che abbiamo cercato di fare in Italia attraverso il cosiddetto amministratore di sostegno, senza bisogno di interdire nessuno. L’AdS è un istituto introdotto nel codice civile nel 2004 e più prosaicamente è una specie di angelo custode. Non si tratta di una bacchetta magica naturalmente, ma almeno è un supporto importante, per evitare che una persona vada completamente alla deriva, che quantomeno si possa curare, trovare una casa, avere una pensione.

Lei insiste molto sul “danno esistenziale”, “danno morale”, “danno biologico”, in che modo sono definibili questi concetti?

Il danno esistenziale non è altro che il danno che subiamo quando per effetto di un fatto, un torto o un illecito, la nostra vita viene sconvolta. Un lutto, per esempio, una incarcerazione ingiusta, una diffamazione. E di conseguenza ci troviamo nella condizione di condurre una vita peggiore di quella che avremmo voluto e potuto avere. Il danno morale è invece la sofferenza, il dolore che proviamo quando ci capita qualcosa di brutto; il danno biologico è il danno alla salute fisica o psichica, si tratta di figure diverse che girano però tutte intorno alla stessa matrice, e cioè il peggioramento della qualità della vita a seguito di un evento negativo che ci è capitato e che il diritto cerca come può di fronteggiare, i miracoli non si possono fare ma si può almeno cercare di attenuare con il denaro gli impatti che la vittima subisce nella vita.

A proposito di danno esistenziale, pensiamo ad esempio alla condizione di quei rifugiati che subiscono spesso un doppio trauma/danno: nelle zone di guerra da cui fuggono, e poi nel paese in cui approdano se rifiutati dall’ospitante. Cosa accade in questi casi?

Una premessa: non è detto che il danno esistenziale che subiamo sia sempre risarcibile. Faccio un esempio banale ma efficace, se un ragazzo viene bocciato a scuola perché ha studiato poco e male non può certo chiedere il risarcimento al professore che gli fa ripetere l'anno. Per arrivare invece alla sua domanda: teoricamente, ma è molto improbabile che succeda naturalmente, se una persona è scappata perché in patria c’è la guerra può chiedere il risarcimento del danno ai guerreggianti. Se il danno lo subisce in Italia, se viene picchiato o insultato, se si commette un atto di segregazione o di razzismo contro di lui, se sussiste insomma un illecito specifico, allora si potrà chiedere un risarcimento. 

Ritengo assurdo che una persona sia costretta a soffrire nella sua vita gravi dolori senza poter fare nulla per rimediarvi. Ma non credo che si arriverà mai in Italia a una legge sul suicidio assistito né sull'eutanasia attiva

In merito ai “diritti dei più fragili” la recente sentenza della Corte costituzionale sul suicidio assistito ha creato uno storico precedente, ora si chiede una legge.

Ritengo assurdo che una persona sia costretta a soffrire nella sua vita gravi dolori senza poter fare nulla per rimediarvi. La giustizia deve venire incontro a queste persone ed è ciò che ha fatto la Consulta, pur avendo posto delle limitazioni. La medicina non è onnipotente, e quando è incapace di debellare il dolore, quelle sofferenze indicibili cosa facciamo? In sostanza la Corte ha voluto dire che se la persona sceglie di non poter più sopportare quel dolore, decide di abbandonare la vita e non è in grado di farlo da solo, aiutiamolo. Non credo tuttavia che il nostro Parlamento, ancora oggi, sarebbe in grado di fare una legge, ci sono divisioni pazzesche sul tema. Inoltre resta il caso dell’eutanasia attiva (quando il medico somministra il farmaco alla persona malata, ndr) che è ancora vietata in Italia, ma non penso che la Corte si spingerà a tanto, la mia opinione è che il Parlamento non interverrà mai legiferando.

È una buona legge invece quella sul “Dopo di noi” che si occupa dell'assistenza a persone con disabilità gravi, una volta rimaste sole?

La legge sul “Dopo di noi” è stata una presa in giro, non ha risolto nulla, ha una impostazione patrimonialistica che è poi fallita. Occorre rovesciare questo approccio e puntare su un progetto di vita. E anche a Bolzano si può cominciare già oggi a fare qualcosa in questo senso. Mi spiego: un genitore, magari anziano, con un figlio disabile in casa, si chiede dove questi andrà a finire dopo che non ci sarà più lui a occuparsene. Ebbene, per cercare di evitare il peggio si mette in piedi questo progetto di vita. In breve una commissione insediata a livello comunale, una volta avvertita che esiste un caso come quello appena citato, apre una pratica, incarica qualcuno (un funzionario, uno psichiatra, un assistente sociale) di seguire il disabile, di informarsi sulla sua vita. Quindi va a trovarlo, parla con lui e con i suoi genitori, con gli amici, con i professori, e dopo qualche settimana di lavoro di ispezione e di dialogo fa confluire tutto ciò che ha appreso in un documento che prende appunto il nome di “progetto di vita” e in cui c’è scritto tutto quello che quel disabile è, fa, vuole, non vuole, quello che teme, detesta, sogna, quello che invoca.

La legge sul “Dopo di noi” è stata una presa in giro, non ha risolto nulla, ha una impostazione patrimonialistica che è poi fallita. Occorre rovesciare questo approccio e puntare su un progetto di vita. E anche a Bolzano si può cominciare già oggi a fare qualcosa in questo senso. Un paese che ha il progetto di vita per i disabili è un paese che fa un passo di più nella scala della civiltà

Dove finisce questo documento?

Viene custodito in un apposito registro del Comune, presso l’assessorato alle politiche sociali, in attesa di diventare parte integrante della carta d’identità dell’interessato il giorno in cui ci fosse una legge vera e propria sulla cui proposta stiamo lavorando. In questo modo tutte le predilezioni, le idiosincrasie, le insofferenze della persona disabile non andranno dimenticate dopo la morte dei genitori e in quella carta, quantomeno, ci sarà scritto tutto quello che non bisogna fare, perché a questa persona non piace la cioccolata, perché ha paura dei topi, perché detesta il colore arancione, lo chiamiamo “tabernacolo identitario”, ed è una sorta di scudo personale che difende l’individuo contro il rischio di incomprensioni, equivoci, anche di violenze di vario genere, ma costituisce anche un sollievo per i genitori che possono trasferire in un documento tutto quel know-how che hanno accumulato nella vita e che così non andrà perduto. È una piccola cosa, ma che ha anche un valore culturale, e un paese che ha il progetto di vita per i disabili è un paese che fa un passo di più nella scala della civiltà. 

Oltre a questa scommessa c’è anche il suo progetto di legge di riforma del Tso, il Trattamento sanitario obbligatorio, e di abrogazione dell’interdizione, a che punto siamo?

Ho avuto occasione di parlare pochi giorni fa con il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che mi ha convocato a Roma. Gli esporrò il progetto, che fra l'altro è appena stato incardinato in Senato. Bisogna cercare di formare una legge, non è facile con i tempi che corrono, ma ci proviamo. Confido anche in Giuseppe Conte che oltre ad essere il presidente del Consiglio è anche un giurista e quindi un collega; e in qualche altra forza politica, il Pd per esempio, dove ho trovato persone di grande sensibilità. Potremmo insomma avere dei discreti punti di partenza. E poi è una riforma che non costa, e questo è un grosso vantaggio, si tratta di proteggere le persone fragili, di avere un po’ di buona volontà e di lungimiranza culturale e anche, come dire, sentimentale. 
Vede, la nostra idea è che il giudice tutelare, usando gli strumenti dell’amministrazione di sostegno, possa fare un progetto complessivo, un “patto di rifioritura” che permetta alle persone più fragili - non solo i portatori di disturbi mentali ma anche gli alcolisti, i ludodipendenti, i tossicodipendenti - di essere seguite in un percorso di rinascita, quindi senza ricorrere al Tso psichiatrico che è una risposta “da macelleria”, una specie di tortura di Stato, che peraltro serve a poco dato che dopo 7 giorni queste persone vengono buttate in strada. C’è bisogno che le forze migliori di Bolzano per esempio, l’assessore, il giudice, il vescovo, il medico, il direttore delle carceri, si uniscano per gestire la fragilità con dei progetti complessivi che, senza dubbio, richiedono un grande sforzo.

Il Tso è una risposta “da macelleria”, una specie di tortura di Stato

Lei sa che in Alto Adige esiste una psichiatria, a dirla con Peppe Dell’Acqua, “ospedaliera, medica, oggettivante” che utilizza metodi come la contenzione fisica e la Tec (terapia elettroconvulsivante)?

Ne sono a conoscenza. Ho avuto a che fare con l’ex primario di psichiatria di Merano, Lorenzo Toresini, e so che ha incontrato parecchie difficoltà all’epoca. Noi siamo molto distanti da quei metodi e da quelle pratiche restrittive, e vicini all’approccio di Dell’Acqua ma c’è una cosa che ci differenzia da lui: noi crediamo nella psichiatria ma riteniamo che le redini dei progetti che riguardano le persone debbano passare dalle mani dello psichiatra a quelle del giudice tutelare, perché la vita delle persone è fatta di “guasti” psichici ma anche di casa, di lavoro, di tempo libero, di riabilitazione, eccetera. Il giudice deve essere assistito naturalmente da psichiatri, medici e dai servizi insieme ai quali costruisce questo progetto di vita in cui, è chiaro, non c’è posto per elettroshock né contenzione fisica. Occorre un impegno sociale, territoriale, metropolitano, ricompositivo, famigliare, in cui anche il Comune deve avere un ruolo di primissimo piano. L’idea è quella di uno sportello, a livello comunale, che si prenda in carico la fragilità dei cittadini, cosa che proporrò di istituire anche a Bolzano. Certo lo psichiatra deve restare e fare la sua parte, ma il Comune lo coadiuva, con l’assessore alle politiche sociali in cabina di regia e il giudice come garante dei diritti della persona e distillatore di singoli progetti individuali. L’ufficio municipale gestisce tutta la parte amministrativa quotidiana, la luce, l'acqua, il gas, il telefono, le banche, le assicurazioni, le pensioni, i pagamenti vari, perché tutte queste incombenze vanno tolte al tribunale e affidate al Comune. È una scommessa complessa ma è una rivoluzione che bisogna fare. E la parola d’ordine è Demedicalizzare.

Se la riforma basagliana non funziona non è colpa di Basaglia, ma è perché è costosa, impegnativa perché la follia è molto diffusa, in più l’Italia ha pochi soldi, non investe, e ha una cultura ancora molto arretrata su certe tematiche

L’hanno definita una sorta di “Basaglia del diritto”, le chiedo: i meriti del padre della legge 180 sono noti a tutti ma ci sono stati a suo parere anche degli errori commessi dallo psichiatra veneziano?

Io dico di no. Gira voce per esempio che lui non credesse nella malattia mentale, ma è una stupidaggine, Basaglia era un medico e sapeva benissimo che quella malattia esiste ed è alimentata dall’isolamento, dai sospetti, dalle paure che ci sono nella società. Ed è la società che deve accettarla questa malattia. Se la riforma basagliana non funziona non è colpa di Basaglia, ma è perché è costosa, impegnativa perché la follia è molto diffusa, in più l’Italia ha pochi soldi, non investe e ha una cultura ancora molto arretrata su certe tematiche, non ha messo in campo una sufficiente energia di tipo organizzativo, e non ha immaginato strutture adeguate per far funzionare i centri di salute mentale. Le persone che hanno bisogno di aiuto sono tantissime, ma si può fare molto per rendere la loro vita dignitosa, che poi è quello che ha sempre voluto Basaglia.