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Cacciatori di bufale

La verifica delle fonti come antidoto contro la post-verità: intervista a Gabriela Jacomella, giornalista e autrice del libro "Il falso e il vero" (Feltrinelli Kids).
Jacomella, Gabriela
Foto: Facebook

"Il primo strumento contro la cattiva informazione è la formazione di uno spirito critico, che può essere attivato attraverso la creazione di anticorpi nel periodo scolastico". Secondo la giornalista Gabriela Jacomella l'educazione è un antidoto contro le bufale, e per impedire ogni ulteriore diffusione del fenomeno delle "fake news" diventa fondamentale lavorare con i giovani. Lei ha dedicato loro un libro, "Il falso e il vero. Fake news: che cosa sono, chi ci guadagna, come evitarle" (160 pagine, 13 euro), uscito a ottobre 2017 per Feltrinelli Kids: una lettura utile anche per chi non è nella fascia tra i 12 e i 18 anni, perché -spiega Jacomella a Salto.bz, "la maggior parte degli utenti non ha gli strumenti di base per alzare le antenne, semplicemente perché non sa, ignora. Non sa, ad esempio, che se un social network come Facebook è gratuito è perché è un collettore di dati personali. Per comprendere questa 'complessità', che i media hanno rinunciato a spiegare, serve l’educazione di base, ed il libro vuole aiutare a comprendere l’'universo' che è in commercio e che alimenta il mercato delle bufale, ovvero la nostra attenzione ed i nostri dati".

L'autrice de "Il falso e il vero" ha lavorato per nove anni (fino al 2011) nella redazione del Corriere della Sera, in un periodo nevralgico per il giornalismo "di carta", e oggi è Young Policy Leaders Fellow presso la School of Transnational Government dell’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, con un progetto di ricerca che riguarda fake news e policies internazionali. Nel 2016 ha fondato, insieme a Nicola Bruno e Fulvio Romanin, Factcheckers, un’associazione no profit che promuove e diffonde la cultura del fact checking (della verifica dei fatti e delle fonti, cioè), soprattutto online.

 

salto.bz: Che cosa pensi della campagna #BastaBufale promossa dalla presidenza della Camera e dal ministero dell’Istruzione e che coinvolge i ragazzi delle scuole secondarie di primo e secondo grado?

Gabriela Jacomella: Premesso che ancora non si capiscono tutti i dettagli del progetto dal punto di vista curricolare, e siamo ansiosi di capire come si concretizzerà, credo che questo tipo d'azione sia la cosa principale da fare. Anche l’associazione che abbiamo fondato, Factcheckers, parte da una considerazione di questo tipo: il periodo scolastico è fondamentale. Così, se la campagna sarà strutturata bene, e compatibilmente con carichi di lavoro ed impegni delle scuole, potrà essere efficace. Siamo però in attesa: la presidente della Camera, Laura Boldrini, ne parlava da qualche mese, ma non ne aveva mai definito i contorni. Finora era stata una campagna social, mentre adesso viene diffuso un decalogo che riprende "buone pratiche" condivise a livello internazionale.

La parte più interessante riguarda però gli strumenti che entreranno davvero nelle scuole: letture, esercizi, ore dedicate. Non vorrei, ora, che questa iniziativa venisse attaccata perché tacciata di essere personalistica. È probabile che il tema stia a cuore a Laura Boldrini perché è stata pesantemente attaccata, ma per come la vedo io questa battaglia contro le bufale dovrebbe richiamare un sostegno trasversale.

Purtroppo per i politici, e non solo per i cittadini, non c’è stata un’educazione collettiva al peso della parola online. Ne abbiamo visto tutti la libertà, senza prendere atto che esistano responsabilità importanti. Così affermazioni che una volta non si sarebbero fatte di fronte ad un interlocutore, vengono messe in rete. Se esistessero ancora delle scuole di formazione della classe politica, quello di "galateo digitale" sarebbe uno dei primi moduli da somministrare.

"La maggior parte degli utenti non ha gli strumenti di base per alzare le antenne, semplicemente perché non sa, ignora. Non sa, ad esempio, che se un social network come Facebook è gratuito è perché è un collettore di dati personali"

A stilare un decalogo (lo vedete nell'infografica) contro la fake news hanno contribuito anche Google e Facebook: le due imprese sono, per loro natura, parte del problema. Possono far parte anche della soluzione? Se sì, come?

Sicuramente possono ed anzi devono: Google e Facebook sono indubbiamente responsabili, e il problema è come coinvolgerli senza delegare a loro la risoluzione. Sta lavorando a questo aspetto l'International Fact-Checking Network.

Mi spiego: soggetti come Google e Facebook sono parti interessate anche dal punto di vista economico, hanno un interesse non solo etico ma anche monetario a non far cadere la rete in una deriva assoluta di disinformazione. Non possiamo però pretendere che siano loro ad agire come controllori, perché è impensabile che riescano ad intercettare e a controllare adeguatamente la massa d’informazione che attraversa la due piattaforme in ogni istante. Possono farlo solo utilizzando degli algoritmi, e questo comporta numerose problematiche: gli algoritmi non capiscono la satira, né la differenza tra il seno scoperto in un'immagine pornografica e la foto di una donna che allatta al seno. Anche un eventuale "controllore" umano può, a volte, non capire il contesto in cui una frase è usata: riconosce un frammento, magari parole offensive come "frocio" o "negro", ma non è in grado di interpretarne il contesto, e così magari blocca colui che in un post denunciava altri che avevano discriminato utilizzando queste parole.

Una delega di questo tipo alle corporation, la libertà di decidere che cosa sia legittimo o meno pubblicare sui social network o su una piattaforma, non la trovo corretta nemmeno eticamente. Per affrontare il problema serve la cooperazione tra diversi stakeholder, tra tutte le parti interessate, dal cittadino utente all’istituzione internazionale, alle aziende. A cui senz’altro bisogna chiedere di intervenire tempestivamente, di fronte alle denunce poste alla loro attenzione.
 

 

Tra i partner del progetto anche RAI e Federazione degli editori. In che modo giornali, giornalisti e il mercato dell’editoria alimenta le “bufale”?

Purtroppo lo fa producendo una cattiva informazione, spesso in maniera involontaria: quando il ciclo delle notizie ha iniziato a essere attivo 24 h su 24 ci ha colto, come categoria, impreparati, ed è oggi considerato quasi legittimo e tollerato adottare una certa leggerezza sui contenuti, sulla titolazione e sull'impostazione dei contenuti online.
Il tutto per avere più lettori, e accaparrarsi frammenti di investimenti pubblicitari. Quante fotogallery con titoli forzati all’estremo, o notizie riportate di sponda, e senza adeguate verifiche, abbiamo pubblicato? Dovremmo fare una riflessione su quanto questo contribuisca ad abbassare e a confondere la linea di demarcazione tra notizie verificate e cattiva informazione, notizie fuorvianti, o addirittura inventate.

C’è poi il problema della disinformazione volontaria, un concetto che si avvicina a quello di propaganda: notizie false proposte come vere perché sono funzionali ad un’agenda politica o ideologica. Come giornalisti e come Ordine, dovremmo diventare dopo un decennio un po' più vigilanti ed incisivi. Perché sulla carta gli strumenti di sanzione esistono, ma non vengono applicati o sono ininfluenti.

"La vera bufala in rete non ha bisogno di essere verosimile, perché spesso essa acquista un senso su mercati non comunicante con quelli dei media tradizionali, ad esempio quando si inserisce in un discorso complottista, come la fake news delle scie chimiche"

Qual è a tuo avviso la caratteristica più pericolosa di una “fake news”?

Le più pericolose sono quelle che non forniscono indizi sul fatto che lo siano, cioè quelle che si nascondono su media di cui ci fidiamo. Una notizia data in malafede da un quotidiano può essere più pericolosa di una bufala inventata di sana pianta che circola su mercati paralleli ma meno frequentati e meno credibili.

La vera bufala in rete, infatti, non ha bisogno di essere verosimile, perché spesso essa acquista un senso su mercati non comunicante con quelli dei media tradizionali, ad esempio quando si inserisce in un discorso complottista, come la fake news delle scie chimiche. Credo perciò che ripulire i media ufficiali sia un passo imprescindibile, perché oggi la perdita di credibilità rende possibile che fette di popolazione si affidino alla rete in cerca di meccanismi di autoreferenzialità, quelle che nel libro descrivo come "camere dell’eco" e "bolle di filtraggio", ambiti totalmente distaccati dal mondo reale.

Perché nell'universo "bufalaro" le immagini sono tanto importanti?

Viviamo nella civiltà dell’immagine. Dobbiamo vedere per credere. L'immagine muove una maggiore emotività. Questo è un insegnamento di tutti i photo editor: l’articolo supportato da un’immagine ha sempre un impatto maggiore su chi sfoglia la pagina. È come se amplificasse l’impatto di pancia di qualsiasi cosa tu voglia dire. Se è vero che la scelta di una buona immagine può fare la metà del lavoro, quando questa è usata in modo distorto, diventa preponderante, e ti fa abbassare le difese. A quel punto è possibile che tu abdichi da un ragionamento razionale, e caschi nelle bufale. Dal punto di vista della tecnica, inoltre, la manipolazione d’immagini e video ha reso possibile la creazione di video ad hoc, inserendo ed incollando frammenti di parlato, labiale: in questo modo diventerebbe ad esempio possibile montare un video paradossale di Barack Obama che dice che si dovrebbero bruciare tutti i bianchi delle città americane, con una manipolazione raffinata e per questo non facilmente intercettabile.

 

"Anche se l'aumento dell'indigenza non è colpa del fenomeno migratorio, come in tutte le guerre tra poveri si prende alla pancia e si fa leva sugli istinti più bassi"

Perché il tema migratorio si presta così bene alle “fake news”?

Innanzitutto perché per moltissimi anni è stata fatta un’informazione di risulta. Siamo stati volutamente negligenti, e quindi quando il fenomeno è diventato più importante nessuno ne aveva mai spiegate per bene le cause. E non si può partire dal livello zero per parlare di una cosa enorme, perché lì c'è un buco in cui puoi mettere di tutto.

Di fronte ai diritti che si stanno erodendo, poi, è facile scatenare le emozioni più viscerali. Anche se l'aumento dell'indigenza non è colpa del fenomeno migratorio, come in tutte le guerre tra poveri si prende alla pancia e si fa leva sugli istinti più bassi. Credo poi che c’entri il fenomeno del diverso, uno dei temi più difficili da affrontare, a prescindere dalla bufale, in situazioni di tensione come quelle che vive la nostra società. Diciamo che c'è un terreno fertile, e che la frenesia del mondo dell’informazione ha reso sempre più difficile spiegare la complessità. Come in tutte le situazioni di crisi, poi, serve un capro espiatorio su cui scaricare le responsabilità.

Che ruolo possono e devono avere associazioni come Factcheckers, che hai fondato, o International Fact-Checking Network (IFCN), che citi nel libro e di cui hai parlato prima?

Sicuramente associazioni come le nostre, non affiliate politicamente, senza interessi legati al mondo dell’editoria, perché indipendenti dai media, possono garantire la neutralità di certe operazioni di verifica dei dati e delle fonti.

Purtroppo adesso l’idea di fact-checking è diventata talmente di moda dopo che il 2016 è stato definito l'anno della post-verità, che hanno iniziato ad appropriarsene anche parti non neutrali, come i partiti politici che affermano di fare fact-checking sui loro avversari (in Svezia, ad esempio, era comparso qualche tempo fa un sito di “verificatori delle notizie” che era in realtà affiliato a un gruppo di estrema destra, e che inventava di sana pianta dati e informazioni utilizzate per il suo fact-checking…).
A fronte di questa situazione, credo sia fondamentale mantenere un territorio neutro e neutrale, ma anche autocritico nel modo più rigoroso possibile. Per elaborare il Codice di condotta di IFCN, che stabilisce anche chi può entrare a far parte del gruppo di "cacciatori di bufale" associati, c'è voluto un anno. Far parte di questo percorso mi permette di avere una visione globale del problema: le fake news non sono una questione politica, ma istituzionale ed educativa e sociale. Purtroppo le bufale non hanno confini.