Cultura | AFTERNOON

Imprescindibile Ibsen

In scena fino a domenica al Teatro Comunale di Bolzano "Casa di Bambola". Dini: "Sono innamorato di questo testo teatrale".
Filippo Dini Casa di Bambola Ibsen
Foto: TSB

Filippo Dini è regista e protagonista di Casa di Bambola di Henrik Ibsen, in scena a Bolzano fino a domenica, per il Teatro Stabile. Vincitore di premi alla regia e come attore, Filippo Dini nel teatro si destreggia con agilità tra testi classici e contemporanei, ma il suo lavoro non si limita a questo. Sono infatti numerose le partecipazioni nel cinema e in televisione.  Da quest’anno fino al 2024 è regista residente al Teatro Stabile di Torino e debutta in questa veste con una rilettura inedita dell’autore norvegese, voce dell’epoca nuova del teatro ottocentesco. La poetica di Ibsen segna infatti il passaggio da quello che era il dramma romantico a quello borghese, in cui, per la prima volta, ad essere portati alla luce sono i sentimenti nascosti, le inquitudini, i dubbi dell’uomo moderno. La drammaturgia si impregna di quel realismo necessario al naturalismo, movimento artistico allora nascente.

“Il mio disegno è questo: di darmi alla fotografia. Farò posare i miei contemporanei, uno per uno, davanti al mio obiettivo. Ogni volta che incontrerò in un’anima degna d’esser riprodotta, non risparmierò né un pensiero, né una fuggevole intenzione appena mascherata dalla parola. Non risparmierò nemmeno il piccolo nascosto nel seno della madre.”  H. Ibsen

In quello che per lui è un atto di onestà e di fedeltà nei confronti della propria compagnia, Filippo Dini in questo spettacolo è al contempo regista e protagonista, preferendo la fatica di riuscire a mantenere questa difficile “scissione” di ruoli, pur di percepire lo spettacolo “da dentro”, partecipandone attivamente alle pulsioni.

Salto.bz: Ibsen scrive Casa di Bambola nel 1879, il suo teatro segna un punto di rottura con il dramma romantico, per aderire alla poetica del naturalismo. Lui stesso dichiara di voler diventare un fotografo dei suoi contemporanei, e per primo ne mette in scena le contraddizioni, le inquietudini, il vissuto personale. Qual è il tuo rapporto con Ibsen, come definiresti la tua relazione con questo autore?

Filippo Dini: Questo è un punto molto delicato, nel senso che Ibsen è sempre stato considerato, così come anche da me, uno di quegli autori un po’ polverosi, che arrivano dal passato e spesso ci restano nel passato, di solito è amato da chi ha un gusto fortemente letterario, o comunque condizionato dalla letteratura. In realtà mi sono reso conto che Ibsen ha operato due o tre rivoluzioni abbastanza importanti nella storia, sia della letteratura che del pensiero, e in generale del teatro. In particolare ha operato una rivoluzione nella drammaturgia. Viene considerato all'unanimità dai critici come il padre del teatro borghese, quindi in questo senso lui ha fotografato i suoi contemporanei spostando completamente il punto di vista di quella che era la narrazione drammaturgica all'epoca. Quindi, per chi si occupa di teatro oggi, Ibsen è imprescindibile, non può fare a meno di averci a che fare, proprio perché lui ha inventato il teatro che conosciamo oggi, quel teatro in cui non ci sono più eroi, non ci sono più buoni e cattivi, ma c'è un microcosmo che in qualche modo rappresenta il mondo, il nostro vivere sociale. Per quanto mi riguarda, io l'ho incontrato quando preparavo Pirandello, “Così è (se vi pare)”, ho iniziato a leggerlo e da lì mi sono appassionato. Ed è inevitabile. Chi si occupa di Cechov, di Pirandello, di qualsiasi autore dalla fine dell'Ottocento in poi, si deve occupare di Ibsen, perché lui è quello che ha visto un'altra possibilità per il teatro. Così è iniziato il mio amore per Ibsen, l’innamoramento per “Casa di bambola” è stato un po’ diverso e successivo.

Questo discorso vale da un punto di vista letterario, da un punto di vista critico. Dopodiché c'è anche un punto di vista più teatrale, che è quello più viscerale, più appassionato e che altrettanto si ricollega perfettamente alla nostra epoca, dove le modalità di esprimere le nostre passioni, che siano di amore e di odio, nel nostro vivere contemporaneo, sono tratteggiate da quel modo di vedere il mondo, e cioè dalla scrittura di Ibsen. E lui ha fatto tutto questo, pensa un po’, addirittura prima della psicanalisi. Quindi ancora più sconvolgente. E questo mi ha ricollegato molto con il teatro napoletano, con il teatro di Eduardo, estremamente appassionato, estremamente viscerale - ma non di meno quello di Pirandello, checché se ne dica -. Ho ritrovato moltissime corrispondenze tra il teatro di Ibsen e quello di Eduardo, perché è la messa in crisi del nostro vivere borghese e soprattutto della vita all'interno del vincolo familiare.

 


Infatti “Casa di Bambola” al suo debutto scatena aspre discussioni, c’è stata una sorta di rivoluzione. Nora, la protagonista, incarna la ribellione contro i dettami imposti dalla società borghese, tiranna sugli istinti e gli affetti vissuti nella vita personale e famigliare. Ad attuarsi è un vero stravolgimento

Sì, è stato uno scandalo. Addirittura negli inviti a feste dell'aristocrazia, in fondo si scriveva “si prega di non parlare di “Casa di bambola”, perché evidentemente succedevano delle zuffe, la gente si metteva a litigare, e non se ne poteva parlare. Un'altra cosa sconvolgente è successa quando lo spettacolo è stato messo in scena in Germania, dove l'attrice che interpretava Nora, un'attrice molto famosa, si è rifiutata di recitare la scena finale, dichiarando “io, una donna che lascia i suoi figli, non la recito”. Il regista decide di cambiare il finale, ed avrebbe potuto farlo perché Ibsen in Germania non era coperto dal diritto d’autore, ma lui, piuttosto che lasciare mano libera sul testo, decide di riscrivere la scena. Ora non ricordo bene come, ma Nora sembra che esca e poi ritorni.

In questa trasposizione, cosa c’è in questa storia che ancora oggi noi riconosciamo come stravolgente, destabilizzante, cosa ci mette ancora in crisi?

Il senso di scandalo non è immediato come all'epoca, nel senso che oggi una separazione è all'ordine del giorno, e anche lasciare due figli, tutto sommato, non è così sconvolgente per una per una donna, tantomeno per un uomo. Io credo che avvenga uno scandalo a posteriori, magari il giorno dopo. Ti spiego perché, e questo ha a che fare col mio innamoramento per “Casa di bambola”. Io, mai come in questo spettacolo, ho deciso di definire un'ambientazione così tanto contemporanea, come vedrai la scena rappresenta un salotto borghese, alto borghese, molto naturalistico e quindi curato in ogni dettaglio, con un albero al centro, ma di questo ne parleremo. Devo dire che, mentre nei precedenti allestimenti di classici, quindi di testi scritti in un'altra epoca, ero rimasto in una zona un po’ indefinita, qui invece ho voluto dare un segno molto contemporaneo, proprio perché volevo che lo spettatore immediatamente, appena si apre il sipario, venisse catapultato in una realtà a lui affine. Perché, io credo che “Casa di bambola” sia un testo di oggi. Questa storia è una storia di oggi, che ha a che fare quasi più con le logiche, che non con l'epoca di Ibsen. Qui entriamo in un discorso che è sempre delicato, ma all'ordine del giorno nella nostra epoca, che è La Crisi, chiamiamola crisi della coppia, del matrimonio, ma comunque l’impossibilità a comunicare tra uomo e donna, l'impossibilità a comprendersi. Ibsen dice che esistono due nature, due coscienze morali completamente diverse, una dell’uomo e una della donna e queste due non potranno mai comprendersi, non potranno mai venire a contatto. Questo per me è l'argomento di “Casa di Bambola”. Lo scandalo di cui mi chiedevi, che credo si avverta oggi, è proprio l'espressione di questa diversità e di questa incompatibilità, dell’incomprensione, della differenza, ancora meglio, tra questi due esseri. Dall'inizio dei tempi, da quando è comparso l'uomo sulla terra, la nostra società è stata definita e regolata da leggi imprescindibili, chiarissime e definitive: l'uomo domina, la donna sottostà al dominio dell'uomo, punto.
Un centinaio di anni fa, almeno in Italia, ci siamo resi conto che queste regole erano sbagliate. Che cosa è successo? Si legge nei libri di una “rivoluzione”. In realtà questa rivoluzione non è mai avvenuta, non c'è mai stata una trattativa tra le parti. La donna continua ad essere in una condizione, da un punto di vista sociale e professionale, estremamente umiliante - molto meno umiliante che cento anni fa, certo, ma comunque non paritaria. Da un punto di vista invece umano, psicologico, continua a persistere. L'esempio più recente è quello di un uomo in una serata allegra che si sente in diritto di dare una manata sul culo a una ragazza che sta lavorando. Per quanto mi riguarda non andrebbe nemmeno processato quell'uomo, perché è figlio di una cultura che gli insegna questo, non ha nessuna responsabilità. Se non l'avesse data lui, l'avrebbe data qualcun altro e certamente moltissimi avrebbero pensato che si poteva fare, ma perché no? Ancor peggio è quello che, dopo averlo visto, dice “Non te la prendere, dai!”. Quello andrebbe processato! Ma come “Non te la prendere”? Ma sei cretino? Questo però è figlio di una mentalità che è nel nostro Dna, che ormai è intrecciata con il nostro vivere quotidiano, il nostro pensare quotidiano, e per questo dico: la rivoluzione non è mai avvenuta, perché questa matassa non è mai stata sbrogliata.

Quel senso, quel profumo di parità che ci sembra le donne abbiano ottenuto in questi decenni, è solo frutto di concessioni da parte dell'uomo, che è al potere, nei confronti della donna ed è una sequela di piccole o grandi concessioni, a seconda di quanto le donne fossero più o meno incazzate. Questa è l'unica cosa che è stata ottenuta, ma di fatto la rivoluzione non c'è stata. Chiedo scusa se divago un po’, ma tutte queste riflessioni hanno a che fare con la mia necessità di rappresentare “Casa di bambola” e credo vi siano contenute. La cosa che mi ha spinto di più, anche se la più estrema, la più appariscente,  a metterla in scena, è il caso dei femminicidi, del quale io, come ognuno di noi credo, non ne posso più. Una cosa sconvolgente, talmente tribale, talmente stupida e senza senso. L'altro giorno sentivo una trasmissione alla radio dove uno psicologo diceva che è necessario empatizzare con la vittima, e l'intervistatrice gli dava ragione. Io dico, ma è la cosa che viene più istintiva! E’ ovvio empatizzare con la vittima, non si può farne a meno, ma come in qualsiasi altro caso di sopruso e di omicidio. Il dato nuovo sarebbe, io credo, empatizzare con il carnefice. E questa è una cosa scandalosa, un po’ alla Ibsen.  Però credo sia necessario iniziare a empatizzare con il carnefice. Per cercare di andare a capire, che non significa andare a giustificare - cosa impossibile nel momento in cui qualcuno commette un omicidio che è colpevole al di là di qualsiasi attenuante -. Quindi non c'è nulla da giustificare, ma è necessario comprendere che cosa ha portato quell'uomo comune - non un serial killer - a diventare un assassino e non andare a cercare le responsabilità, come spesso si fa nei comportamenti della donna, “Beh tutto sommato anche lei ha fatto, ha detto..”. Questo non ha niente a che vedere con il cercare di capire che cosa è successo tra quei due. Questa trattativa tra quei due non è avvenuta. Una trattativa di pace, innanzitutto, e una trattativa di rinuncia alla comprensione l'uno dell'altro. Io credo che nel momento in cui rinunceremo a comprenderci, forse inizieremo ad accoglierci. Quindi, non comprendere la diversità, che secondo il mio punto di vista è incomprensibile, ma cercare di accogliere la diversità nella nostra vita, nel nostro modo di pensare, nel nostro modo di agire.

Pensando al finale di Ibsen, in cui Nora chiude la porta dietro di sè, verrebbe da immaginare che lei possa comunque tornare indietro..

Non credo. Io credo che lei tornerà ad essere madre, ma non ad essere moglie. Anche per il bene di Torvald.

Ma, passati questi 100 anni di “non rivoluzione” o forse di preparazione alla rivoluzione, che forse ci sarà o forse no, c'è la traccia di una possibile via d’uscita?

La soluzione è chiaro che nessuno ce l’ha. Questa è comunque la storia di una separazione, inevitabile.

 

Senza voler svelare i dettagli del finale, mi chiedevo se il messaggio che arriva sia proprio lì, che la possibile soluzione a questa incomunicabilità, sia la rinuncia della comprensione, sia fare un passo indietro..

Io non la vedo come un passo indietro, perché non mi sembra che nel tentativo di comprendersi sia stato fatto un passo avanti. Credo che semplicemente sia un guardare le cose da un altro punto di vista. Ibsen dice che due sono le coscienze morali, soltanto che le leggi sono state fatte dagli uomini e le donne devono sottostare a quelle leggi fatte appunto dagli uomini. Guarda, è veramente all'ordine del giorno l'impossibilità di comprenderci. Noi poi in qualche modo ce la accomodiamo. Io ora non vorrei sembrare pessimista, ma per me è totalmente incomprensibile il modo di pensare di una donna. Io non lo comprendo, non lo capisco e non lo capirò mai. Da quando sono nell'età matura, non ho fatto nessun passo avanti. Mi sembra sempre di aver di averne fatto un pochino, e un secondo dopo vengo di nuovo smentito. Anche nella letteratura e nell'arte si è sempre parlato del mistero della donna, nella pittura soprattutto. Certo, il mistero del femminile, laddove chi scrive è sempre un uomo. E’ sempre un uomo che parla di un mistero della donna. Io credo che se iniziassero a scrivere anche le donne, per lo meno se le si desse più spazio, parlerebbero del mistero dell'uomo. Questo mistero è parte di questa impossibilità a comprendersi reciprocamente, e che io credo arrivi dalla notte dei tempi. Per questo lo spettacolo inizia con il primo capitolo della Genesi. Nella Genesi si dice che Dio creò l'uomo, e lo fece maschile e femminile. Maschile e femminile! E la Genesi non è certo un libro femminista... Così l’uomo, come la donna. C'è una parte femminile in ogni uomo e una parte maschile in ogni donna e che è estremamente inconoscibile, insondabile in qualche modo, o certamente poco frequentata da ognuno di noi.

Un momento che personalmente mi incuriosce molto, è quello in cui Nora prova davanti al marito e all’amica il ballo della tarantella, per la festa in maschera del giorno dopo. Nello spettacolo c’è il contributo di una coreografa, Ambra Senatore, mi sono chiesta quindi il significato che tu hai dato a questo ballo.

E’ stato quasi un punto di partenza di tutto lo studio su “Casa di bambola”, è per me il punto centrale di tutta la commedia.  Inizialmente volevo mettere in scena un testo di Ibsen, ma ero un po’ indeciso, li ho riletti tutti, ero più orientato verso “Hedda Gabler”, poi a un certo punto è arrivata la tarantella. Rileggendo “Casa di bambola” ho visto questa didascalia, perché è poco più di una didascalia in cui si dice “lei balla la tarantella”. “Che strana ‘sta cosa, è veramente curiosa”. Poi dopo un po’, ci sono dei brevi commenti da parte degli altri personaggi. Si capisce dal testo che Torvald rimane un po’ scosso da questa tarantella e anche Kristine, la sua amica. Quindi mi sono detto “Oddio, evidentemente questa tarantella li ha colpiti”. Dopo di che è iniziato tutto uno studio sulla cosa ed è diventato anche uno dei motivi per cui ho scelto “Casa di bambola”. Ibsen in quel punto inizialmente aveva inserito un altro tipo di danza, che si rifaceva al “Peer Gynt”, un’auto-citazione quindi. Dopodiché, avendo finito di scrivere il testo ad Amalfi, questa tarantella evidentemente l'avrà vista, e lì gli dev'essere scattato qualcosa. La tarantella è un ballo incredibile, che arriva dalla notte dei tempi, davvero, e parte da un passo, che mima l'uccisione del ragno che ti ha infettato con questo male, che come sintomo ha un'estrema apatia, un azzeramento di tutte le pulsioni vitali, una specie di depressione.  La tarantella, o la sua parente taranta, era un metodo, proprio medico quasi, per uccidere il ragno e quindi scacciare questa specie di maledizione o di malattia. Uno studioso dice sia nata, non so in quale secolo, dalla calura estiva delle donne del Sud. Io le donne del Sud me le sono immaginate oppresse, ovviamente dal lavoro, dalla fatica e dal dominio maschile, si ritrovavano schiacciate da questa calura estiva e deperivano in quella che oggi chiameremmo depressione. E quindi questo gesto vitale della tarantella ripetuto, ripetuto e ripetuto per ore - c'erano anche specie di sacerdoti, di ancelle e i musicisti che stavano intorno alla malata per risvegliarla, per guarirla - in qualche modo la portava fuori da questa depressione. Quindi ho detto “Caspita, ma Ibsen sceglie questa cosa che è perfettamente inerente alla situazione di Nora”. Il ballo è alla fine del secondo atto di Ibsen, ma nel nostro spettacolo, avendo accorpato in un unico tempo il primo e il secondo atto, avviene alla fine del primo tempo,  e nasce da un motivo drammaturgico abbastanza banale, nel senso che - senza svelare tutto il guaio nel quale si trova Nora - c’è una lettera nella cassetta delle lettere che Torvald non deve vedere e quindi lei, per prendere tempo, gli dice “No, no! Aspetta, aspetta.” Lui “Ma voglio andare a vedere la posta”. “Aspetta, aspetta, voglio provare la tarantella”- perché lei il giorno dopo dovrà ballare questa tarantella alla festa dei vicini - “Proviamo dai, proviamola adesso, aiutami, guardami, dirigimi, consigliami”. Questa tarantella manda Nora in uno stato di trance, comincia a ballare e piano piano si isola completamente dal contesto, in questa danza disperata e liberatoria. Questo perché? Per ricollegarsi anche al discorso di prima, io credo che Ibsen con straordinaria genialità sicuramente di drammaturgo, ma anche di uomo, ha ragionato, secondo me, come una donna. E sempre nell'ordine delle differenze tra uomo e donna, io credo che la consapevolezza dell'oppressione di Nora arrivi prima fisicamente che mentalmente.
Per un uomo questo è incomprensibile. Un uomo prima mette a posto il cervello, poi una volta che se l’è messo a posto, un po’ a modo suo di solito, allora decreta, decide per la sua vita. Una donna no, una donna lo capisce prima fisicamente, è prima fisicamente che dice “Lasciami perdere, lasciamo stare”. Solo alla fine della commedia lei prende coscienza di volersi separare, ma già alla fine del secondo atto balla la tarantella e lì tutti vedono, e per questo Torvard è sconvolto, qualcosa di veramente scandaloso. “Ma cosa fa sta qua, ma è matta?”. Anche Nora comprende, ma solo a livello fisico, è il suo corpo che le dice “Adesso basta”. E quindi io credo che la tarantella abbia un valore fondamentale. Per questo è il centro della commedia, perché è il momento più femminile - prima di tutto - e quindi per un uomo più incomprensibile. Però credo che per una donna sia invece immediatamente comprensibile. Io lo credo, sì. Perché è molto femminile l'ascolto del proprio e dell’altrui corpo, questo anche nell'intimità. Per l'uomo è più tutta una “roba” mentale. Come se ne avesse i mezzi poi…

Ma torniamo un attimo all’albero in scena…

L'albero è nato molto banalmente dal fatto che nel testo c'è un albero di Natale, non volendo mettere l'abete ho detto “Ma perché dobbiamo mettere sto abete, che è abbastanza insopportabile, poi è sempre brutto da vedere. Però aspetta, un albero comunque è un segno di vita”. Quando poi è nata l'idea di iniziare lo spettacolo con la Genesi, è inevitabile che sia nato anche l'albero, l'Albero della Vita o l'Albero della conoscenza del Bene e del Male, a seconda di cosa uno ci vuole vedere. E quindi lo spettacolo inizia proprio con Adamo ed Eva, perché le nostre radici sono lì, e credo che sia da lì che tutto si è incasinato, proprio nel momento in cui siamo venuti al mondo. L'albero troneggia al centro della scena, anche come un segno di qualcosa di estremamente vivo in una casa che, come vedrai, è chiusa da tutte le parti, dai lati, dietro, sopra, tutta di legno come una gabbia o forse, proprio perchè tutta di legno, come una bara, quindi un contenitore di morte. Perché in realtà noi assistiamo alla morte di un amore.

All'interno di questa cassa bellissima, estremamente confortevole, calda, colorata, ma che è pur sempre una cassa, c'è un segno di vita che in qualche modo credo dia la speranza, anche di una rinascita, perchè io ci confido moltissimo. Come vedrai il finale è leggermente diverso, rimane Torvald lì da solo, co i tre figli e se la dovrà vedere lui a spiegargli che cosa è successo alla mamma e chissà come glielo spiegherà, perché comunque abbiamo a che fare con un uomo più contemporaneo - a differenza della scrittura di Ibsen che inevitabilmente ritraeva un uomo di fine Ottocento, quindi un uomo estremamente autoritario e pedante -, un uomo gentile, accogliente, che a un certo punto è costretto ad accogliere la diversità. Certo, io credo che ci sia una speranza. Me lo auguro, anche perché è inevitabile che prima o poi ci dovrà essere una trattativa tra le parti, una trattativa di confronto. Una rivoluzione. La rivoluzione francese di fronte a questa impallidisce. Questa è la rivoluzione più straordinaria nella storia dell'uomo.

Beh sì, perché cambia tutti i giochi!

Io avevo una fidanzata, meridionale, e mi raccontava che suo nonno tornava a casa dal lavoro, tutti dicevano “Arriva! Arriva!” e lui senza dire una parola faceva il gesto de “Il bicchiere è vuoto. Lo voglio trovare pieno quando arrivo”. Oggi ci può far ridere, ma allora non era strano. Subito la moglie andava a riempire il bicchiere, ed era felice di farlo! Questo era il modo di vivere, ma non solo di quell’epoca, ma di quella e di tutte quelle che l’hanno preceduta, fino all’uomo di Neanderthal. Pensa a come è cambiato il nostro modo di vivere, di pensare o come avrebbe dovuto cambiare. Come può ancora cambiare!