Società | Interview

“Modalità blended, in campo dal 2012”

Il master in Innovazione e ricerca per gli interventi socio-assistenziali-educativi, con sede a Bressanone, da anni sperimenta una didattica aperta, digitale e inclusiva.
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale del partner e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
Lezione - Ravanelli
Foto: unibz

Al corso di Laurea magistrale in Innovazione e ricerca per gli interventi socio-assistenziali-educativi, che ha sede al campus Unibz di Bressanone, l’uso di piattaforme tecnologiche per l'apprendimento a distanza, e in generale tutto il mondo della didattica blended, non è arrivato all’improvviso con la pandemia. Tutt’altro. Questo tipo di impostazione era infatti già presente sin dal 2012 e, come la definisce la docente Francesca Ravanelli, tutor per la didattica digitale nel master e docente a contratto dell’ateneo in Storia della Pedagogia, “si tratta di una modalità aperta, sincrona  e asincrona, che lascia agli studenti e alle studentesse un ventaglio di possibilità su come gestire il lavoro in presenza e a distanza”.

Professoressa Ravanelli, possiamo quindi dire che in qualche modo eravate già pronti agli stravolgimenti portati dall’emergenza sanitaria?

Francesca Ravanelli: Esattamente. Noi abbiamo iniziato a lavorare in modalità blended nel 2012. Il master è un corso di laurea magistrale indirizzato ai servizi socio-educativi, all’interno di Scienze della Formazione a Bressanone. È trilingue ed è rivolto a tutti gli operatori del settore sociale e socio-educativo, quindi i nostri studenti vengono prevalentemente da una formazione di quel tipo: sono educatori, assistenti sociali, ma abbiamo avuto anche insegnanti che hanno voluto approfondire questo tipo di dimensione. E quel che vedo io è che dovremmo ampliare questo tipo di offerta proprio per preparare le persone ad affrontare con i mezzi adeguati al momento le situazioni emergenziali che si stanno presentando in questa fase.

Si discute molto del rapporto tecnologia-qualità dell’insegnamento e ci sono scuole di pensiero diverse anche su come si dovrebbero impostare le lezioni, soprattutto per le scuole dell’obbligo, in modo da evitare sovraccarichi ma anche, viceversa, di abbandonare ragazzi e ragazze davanti a un pc. Sulla base della sua esperienza, come bisognerebbe strutturarsi?

Io sono entrata al master proprio come specialista della didattica, tema sul quale ho studiato molto negli anni. Posso dire che la tecnologia da sola, senza l’occhio della didattica, è un po’ un fallimento. In generale,  molte difficoltà che si sono incontrate in questi mesi tra i docenti sono state anche dovute al fatto che mancava la confidenza e la conoscenza con certi strumenti, che però c’erano già tutti e da molto tempo. In dieci mesi abbiamo dovuto recuperare 10 anni, e c’è chi si è trovato impreparato. E lo dico da insegnante che ha lavorato tantissimo nella scuola primaria. Consideri che io ho conseguito un master a Padova sull’e-learning nel 2008, già allora si prendeva confidenza con piattaforme, modalità audio e video, e quando mi sono presentata per il dottorato nel 2012, all’Unibz, ho riscosso la fiducia delle persone che facevano la selezione proprio perché avevo già quel tipo di competenze lì.

Quindi già nel 2012 si avvertiva la necessità di pensare a modalità diverse di fruizione dei percorsi?

Sì. L’emergenza era già evidente: bisognava dare ai lavoratori l’opportunità di accedere alla formazione specialistica, colmando le  distanze sia dovute, per l’appunto, a impegni professionali, ma anche di genere, di età o di tipo fisico. Negli anni, ad esempio, abbiamo avuto anche studenti non vedenti che hanno frequentato il master. Dunque abbiamo trovato una modalità aperta, sincrona e asincrona: abbiamo lasciato la possibilità di frequentare in presenza, in sincrono con la video-conferenza e in asincrono, perché comunque poi tutto viene registrato e messo a disposizione anche per chi non può presenziare in aula. Abbiamo affiancato alla presenza, la “partecipazione”:

Che cosa è che vi ha permesso di mantenere comunque un livello superiore alla classica università telematica? 

Abbiamo cercato di inserire attività che permettono agli iscritti di costruire parte dei contenuti in piccoli gruppi e poi di confrontarsi con il docente dopo un determinato tempo dedicato all’ apprendere, quindi possibilità di fare e poi di condividere con gli altri e con il docente. C’è una forte componente cooperativa e attiva dove lo studente può portare la sua esperienza e confrontarsi con gli altri. Utilizziamo per questo le video-conferenze con Teams per il sincrono, poi chi vuole, quando si può, può venire in presenza nell’aula ibrida. Questo nell’ultimo anno è stato possibile solo nel mese di ottobre purtroppo, negli anni scorsi però avevamo dei gruppi di studenti che quando potevano partecipavano e c’era il contatto con l’università: non a caso abbiamo sempre cercato di mettere a disposizione orari più personalizzati, con lezioni sempre nel fine settimana e nella seconda parte della giornata proprio per facilitare la presenza. Infine c’è la registrazione della video-conferenza, con un sistema molto evoluto e videocamera a 360 gradi, in modo da garantire qualità delle riprese anche dei compagni presenti.

In molti altri contesti, come si diceva prima, l’innesto della modalità a distanza, obbligato a causa della pandemia, sembra esser stato più traumatico. Come dice lei, però, gli strumenti esistevano già. Erano stati sottovalutati fino ad allora?

Sì, perché non in tutte le università c’è un gruppo che lavora su questo, che sperimenta, che prova, e invece dovrebbe essere così. Unibz da questo punto di vista aveva sperimentato la piattaforma in tutte le sue possibilità, la videoconferenza, utilizzavamo Skype for business che guarda caso si è trasformata in Teams. Quando abbiamo dovuto passare in modalità a distanza, lo abbiamo fatto nel giro di tre giorni. Il 9 marzo 2020 io ero già online con il mio laboratorio. Ipotizzo che la nostra esperienza di master abbia quindi di conseguenza formato per questa risposta anche gli alunni, se uno ha già sperimentato come studente è meno impattante proporlo come docente, ad esempio. Le università, comunque, anche per l’età degli studenti, hanno sofferto meno questo repentino passaggio all’online.

Come si può fare per evitare che chi segue da remoto perda l’attenzione o si senta membro di una comunità davvero distante?

Io so, ad esempio, che devo parlare massimo 20 minuti. Bisogna puntare tanto sull’interazione e sull’alternanza di sincrono e asincrono perché non possiamo pensare che soprattutto i più piccoli possano sostenere ore di didattica in presa diretta. Occorre trovare un equilibrio e degli input, che poi con il monitoraggio dell’insegnate si possano gestire con un certo margine di autonomia: è quello che facciamo anche al master, dove abbiamo lezioni erogative ma poi c’è tutto un lavoro di elaborazione autonoma e anche di peer-assessment, una valutazione tra pari. Credo che in un momento come questo si debba fare tutto ciò che si può fare senza lasciare indietro nessuno e integrare tutti questi aspetti: l’aula è estesa ma c’è, esiste, c’è l’insegnante che risponde, c’è il docente che dà gli stimoli e che sollecita la ricerca, c’è un estensione nello spazio, ma anche nel tempo.