Società | L'intervista

“Il mio nemico invisibile”

L’olandese Viktor Staudt racconta il suo tentato suicidio. Ha perso le gambe dopo essersi buttato sotto un treno anni fa. La sua storia in un libro presentato a Bolzano.
Viktor Staudt
Foto: Youtube

Diversi anni fa, 18 per la precisione, Viktor Staudt, che allora aveva 30 anni, decide di togliersi la vita. Soffre di depressione e ha frequenti attacchi di panico. Si butta sotto un treno. Sopravvive, ma gli vengono amputati entrambi gli arti inferiori. Viktor, che è nato in Olanda ma che poi si è stabilito in Italia dopo aver vissuto in Germania e Svizzera, ha una laurea in giurisprudenza e ha lavorato 10 anni per una compagnia aerea. Dopo il tentativo di suicidio gli viene diagnosticato il disturbo borderline di personalità. Scrive un libro per raccontare la sua storia pubblicato in Olanda nel 2012, e poi tradotto in varie lingue, dal titolo La storia del mio suicidio. E come ho ritrovato la vita. “Non avrei mai pensato che potesse avere tutta questa risonanza”, ci dice con un certo genuino stupore. Ieri (4 maggio), su iniziativa del Sostegno al telefono della Caritas, Viktor è arrivato a Bolzano per raccontare la sua esperienza, come da tempo continua a fare in Italia e all’estero.


salto.bz: Staudt, è possibile scoperchiare un tema tabù come il suicidio?
Viktor Staudt: È un grandissimo tabù, è vero. Diciamo subito che esiste un effetto Werther (termine coniato dal sociologo David Phillips prende nome dal romanzo di J. W. Goethe, I dolori del giovane Werther, ndr) secondo il quale la notizia di un suicidio pubblicata dai mass media può provocarne a catena una serie di altri. C’è poi un effetto opposto, positivo, ovvero quando si dà spazio a storie di persone con pensieri suicidi che sono riuscite a trovare soluzioni ai loro problemi. Questo effetto si chiama Papageno (dal nome di un personaggio presente nell'opera di Wolfgang Amadeus Mozart Il flauto magico, ndr). Ecco, io ritengo molto importante parlare del modo in cui poter superare queste angosce laceranti, e dare speranza alla persone che stanno combattendo con questo tipo di problemi.

C’è un dibattito piuttosto acceso in questi giorni su una popolare serie tv, Thirteen reasons why (Tredici), che racconta la storia di una studentessa di un liceo americano che si suicida, ma che prima di farlo registra alcune audiocassette in cui spiega le ragioni che l’hanno portata a togliersi la vita. Le critiche in particolare si concentrano sulla rappresentazione del suicidio e sulla sua presunta romanticizzazione, tanto da renderlo un’idea "attraente" per i giovani. Ne ha sentito parlare?
Sì, ho visto solo le prime puntate, e so che nell’ultima viene mostrato come questa ragazza, vittima di bullismo e dei problemi tipici della sua età oltre che di un fatto molto grave, mette fine alla sua vita. La serie pone una questione che è quella del modo con cui parlare ai giovani di questa specifica tematica. In Germania, per esempio, c’è ancora molto timore ad affrontarla, io stesso sono stato invitato a portare la mia testimonianza a scuola solo un paio di volte, mentre in Italia, insieme al Telefono Amico, è capitato invece già diverse volte. Sono stato ad esempio in un Istituto di agraria a Padova un mese fa, ho raccontato la mia esperienza in una palestra davanti a 150 ragazzi di età compresa fra i 15 e i 18 anni e nonostante l’ambiente non fosse esattamente l’ideale per parlare di un argomento come il suicidio alla fine del mio intervento si sono avvicinati molti ragazzi che volevano condividere con me le loro inquietudini.

"Penso sempre che se alla loro età avessi avuto la possibilità di conoscere una storia come quella che ho vissuto io l'avrei ascoltata, e forse mi sarei aperto con gli altri come questi giovani hanno fatto con me."

E cosa le dicevano?
Cose come “anch’io ho di questi problemi”, oppure “ho un amico che ne ha”, anche se in realtà parlavano di loro stessi. Credo sia importante discutere di questi temi con i ragazzi perché, vede, io penso sempre che se alla loro età avessi avuto la possibilità di conoscere una storia come quella che ho vissuto io l'avrei ascoltata, e forse mi sarei aperto con gli altri come questi giovani hanno fatto con me. Non ho soluzioni in tasca ma sto provando a indicare un’alternativa alla profonda sofferenza personale, come poi arrivare a una vita senza pensieri suicidi è un altro capitolo, ma parlarne è il primo, fondamentale passo.

 

Dopo la pubblicazione del suo libro che tipo di reazioni ci sono state?
Ricevo molte e-mail, anche da persone che stanno soffrendo. Il mio consiglio, all’inizio, è quello di contattare il proprio medico o uno psicologo. Ma sa cosa mi rispondono? Che lo hanno già fatto ma che non vengono compresi, “tu puoi capirmi, Viktor”, mi sento dire spesso. Sviluppano una ovvia empatia. Due mesi fa in Germania, a un incontro con gli studenti a cui ero stato invitato, prima che venisse il mio turno è intervenuta una psicologa tedesca, sulla quarantina, che fa: “Sapete, quando le persone che vengono nel mio studio e mi dicono che hanno un vuoto dentro io chiedo loro di spiegarmi cosa intendono esattamente, perché per me è difficile capirlo”. Io invece quel vuoto lo conosco bene e posso capirli. Sono davvero moltissimi i messaggi che ricevo, dai “sopravvissuti”, dai genitori che hanno perso un figlio, persone che hanno domande e che cercano risposte.

"Molti credono che chi arriva a prendere una decisione del genere sia vittima di una specie di black out improvviso, ma non funziona così, è importante capire che siamo persone che hanno trascorso molto tempo a combattere con forza per impedirsi di arrivare a quel punto"

E lei, Viktor, perché aveva deciso di togliersi la vita?
È una decisione che ho preso dopo una lunga battaglia, che non riuscivo a vincere, contro la depressione e gli attacchi di panico e di ansia. Non ce la facevo nemmeno a parlare con qualcuno per 5 minuti al supermercato, solo che a quel tempo non capivo cosa mi stesse succendendo, e pensavo: “Viktor dipende tutto da te, ora controllati”, ma non cambiava nulla. Il punto è che puoi mangiare sano, fare sport, ma il problema resta, cresce. Ed è sconosciuto. È un nemico invisibile. Non riesco a combatterlo proprio perché è invisibile. E poi arriva il momento in cui hai provato di tutto, parlato con tutti, fino a che anche parlare diventa difficile. Dopo un po’ gli amici mi dicevano: “Di cosa ti lamenti, hai un buon lavoro, persone che ti vogliono bene, guarda avanti”. A un certo punto è accaduta una piccola cosa, banale. Mi sono ammalato e sono stato a casa per 10 giorni, dopodiché sono andato dal medico e gli ho chiesto di poter restare in malattia ancora una settimana, ma lui non me l’ha concesso, perché fisicamente mi ero ripreso. Ecco, naturalmente non è stata quella la ragione che mi ha portato a tentare il suicidio, ma è stato il point break, il punto di rottura, ovvero quando ho capito che non potevo più andare avanti. E negli anni, parlando con persone che hanno provato a togliersi la vita, ho capito che quella mia esperienza era simile a tante altre.

Aveva quindi pianificato di uccidersi.
Sì. Molti credono che chi arriva a prendere una decisione del genere sia vittima di una specie di black out improvviso, ma non funziona così, è importante capire che siamo persone che hanno trascorso molto tempo a combattere con forza per impedirsi di arrivare a quel punto. Forse è difficile da comprendere ma queste persone in realtà non pensano di mettere fine alla propria vita, piuttosto ai loro problemi, tuttavia la sofferenza diventa così grande da non riuscire a separare le due cose. Dopo che ho tentato di suicidarmi mi sono risvegliato in ospedale e sa qual è la cosa che oggi mi dicono più spesso?

Quale?
“In quel momomento sarai stato contento di realizzare che eri ancora vivo”, ma non è così. Avevo perso le gambe e ricordo che un medico mi disse “signor Staudt, lei aveva un problema, ora ne ha almeno 2”. Mi ci sono voluti un paio di anni per adattarmi alla vita in sedia a rotelle, dopo 5 anni, poi, finalmente, mi hanno fatto una diagnosi giusta.

Come descriverebbe la sua vita, oggi?
A volte mi chiedono se sono felice, e io rispondo che essere felici e vivere senza essere depressi sono due cose molto diverse. Sono ancora sotto anti-depressivo, l’argomento psicofarmaci peraltro è anch’esso un tabù, ma questa è un’altra storia. Riesco così a controllare il mio male, mentre prima era lui a controllare me. Mi succede ancora di svegliarmi la mattina e non avere voglia di alzarmi e di affrontare la giornata ma invece di cadere in un vuoto senza fine mi do del tempo, un’ora, due, dieci, una motivazione per superare gli attimi più bui. Perché quelli non vanno mai via veramente.