Ambiente | L'intervista

Prima che sia troppo tardi

Plastica, mercurio, tritolo avvelenano mari e oceani. E i dati sono inquietanti. “Il nostro modo di vivere non è più sostenibile”, dice l’esperto Nicolò Carnimeo.
Plastica
Foto: upi

Tra i 10-20 milioni di tonnellate di plastica finiscono ogni anno negli oceani del Pianeta, provocando oltre 13 miliardi di dollari l’anno di danni agli ecosistemi marini. L’Europa è il secondo produttore di plastica al mondo dopo la Cina e riversa in mare ogni anno tra le 150 e le 500mila tonnellate di macroplastiche e tra le 70 e 130 mila tonnellate di microplastiche”. Sono colossali le dimensioni del fenomeno dell’inquinamento da plastica denunciate dal WWF.

In Italia fra i primi a sollevare la questione è stato Nicolò Carnimeo, autore del libro “Com’è profondo il mare. La plastica, il mercurio, il tritolo e il pesce che mangiamo” (giunto alla settima ristampa), che domani, martedì 6 novembre, sarà ospite della Libera Università di Bolzano - ore 18.30, aula D 1.01 - per raccontare gli effetti che la dispersione e l’accumulo di prodotti plastici nell’ambiente hanno sull’ecosistema marino e sulla nostra salute. E capire se c’è ancora tempo per invertire la rotta.

 

 

salto.bz: Professor Carnimeo, la plastica sta letteralmente soffocando mari e oceani, con quali conseguenze?

Nicolò Carnimeo: Studi scientifici dimostrano che l’inquinamento da plastica sta invadendo mari e oceani, è vero. Non sarebbe però corretto parlare di tutta la plastica, perché il 70% dei rifiuti marini è formato da quella usa e getta, ovvero quegli oggetti che utilizziamo a volte anche solo per qualche secondo e poi disperdiamo nell’ambiente. Le conseguenze di quest’azione sono gravissime, perché questa plastica non è biodegradabile, si sbriciola in migliaia di frammenti che entrano a far parte della catena alimentare, a partire dai cetacei, le tartarughe, i pesci, fino all’uomo.

Parliamo allora dell’impatto sulla salute.

Il nostro organismo si comporta proprio come il mare, accumula tutto da una parte, il fatto è che quando poi si superano i livelli di guardia tendiamo ad attribuire la colpa alla fatalità, ma il caso qui c’entra poco. Quando gli inquinanti superano una certa soglia di tollerabilità è ovvio che ci ammaliamo. Gran parte dei tumori derivano direttamente da situazioni ambientali compromesse. 

Il nostro organismo si comporta proprio come il mare, accumula tutto da una parte, il fatto è che quando poi si superano i livelli di guardia tendiamo ad attribuire la colpa alla fatalità, ma il caso qui c’entra poco

Ci descrive questa sterminata “isola di plastica” al largo del Pacifico, fra la California e le Hawaii, che cita nel suo libro?

Si tratta di un vero e proprio continente di plastica, ce ne sono ormai 5 negli oceani del mondo. Due nell’Atlantico, due nel Pacifico e uno in quello Indiano. Il più grande si chiama The Great Pacific Garbage Patch che si trova appunto tra San Francisco e le Hawaii ed è quella che ho visitato, navigando per 21 giorni. Bisogna immaginarsi una specie di immenso “blob”, una poltiglia di plastica che si aggrega e si disgrega a seconda delle correnti marine e si ammassa, lungo tutta la colonna d’acqua. A scoprire quest’isola è stato un falegname, Charles Moore, nipote di un petroliere e fondatore dell’Algalita Marine Research Foundation. Con il suo catamarano, forse per caso, spinto dal destino, si è ritrovato in questo posto. Da lì è cominciata una campagna di sensibilizzazione sui pericoli derivanti dall’inquinamento della plastica. Io ho incontrato Moore nel 2013, quando alle Nazioni Unite raccontò quanto stava accadendo in mare. 

 

The Great Pacific Garbage Patch, una gigantesca minaccia per l'ecosistema marino

 

Le dimensioni di quest’isola nel frattempo aumentano inesorabilmente?

Va sempre peggio, l’isola viene alimentata continuamente dai rifiuti che gettiamo in mare e che ormai rimangono lì. L’area peraltro non è bonificabile, malgrado qualche tentativo, comunque non risolutore. 

La situazione nel Mediterraneo non è meno drammatica.

In più è un mare chiuso, quindi rimane tutto sul fondo, che infatti è pieno di plastica, oppure viene rigettata sulla costa. Dopo una mareggiata invernale è possibile rendersi conto della notevole quantità di plastica usa e getta che viene respinta. Ci sono delle zone, al largo del Gargano per esempio, o alle foci dei fiumi, in cui i rifiuti plastici sono tanti quanti quelli che si trovano nelle isole di plastica oceaniche. Plastica che galleggia più o meno per una settimana e poi va a fondo. 

Oltre alla plastica lei ha posto l’accento sulla presenza massiccia di mercurio e di tritolo nei mari.

Mi sono servito di questi 3 elementi, identificativi di un determinato approccio ambientale. La plastica rappresenta la nostra non consapevolezza di ciò che infliggiamo al nostro ambiente naturale. Il mercurio, che è uno dei peggiori veleni dispersi nell’ambiente, sta a significare che qualunque cosa noi gettiamo in mare, o nell’ambiente in generale, prima o poi ritorna. Non illudiamoci che se l’inquinamento avviene, per esempio, nel mar del Giappone da noi non ci siano effetti. I versamenti della centrale radioattiva di Fukushima, per esempio, vanno a finire nei pesci, specialmente nei tonni, che poi compriamo al supermercato. Il problema è globale. In ultimo ho voluto soffermarmi sul tritolo delle grandi discariche belliche, soprattutto relativamente al periodo che segue la Seconda guerra mondiale, per raccontare qual è di fatto l’eredità che stiamo lasciando alle generazioni future. 

Cambiare prima che sia troppo tardi, questo deve essere l’imperativo, e non solo per salvare il mare, ma noi stessi

Le contromisure per sconfiggere la piaga dell’inquinamento sono sufficienti?

Diciamo che c’è stata recentemente una importante presa di coscienza del problema, e anche i media ne parlano spesso. Ci si sta muovendo a vari livelli, l’Europa ha presentato una direttiva sul divieto di plastica monouso che dovrebbe essere recepita anche in Italia. Auguriamoci che vengano fatte delle scelte oculate, e quindi che la plastica sia sostituita con dei materiali assolutamente biodegradabili, e inoltre che si persegua una politica di green economy. Bisogna cercare di produrre a ciclo chiuso, cioè se produco una cosa devo già sapere che fine farà, se deve ridiventare materia prima per esempio, oppure capire dove e come la devo smaltire. Dobbiamo arrivare all'obiettivo di non avere più rifiuti.

Una missione possibile?

Sì. Anche azioni banali possono aiutare, come i vuoti a rendere. È una filosofia di vita, del resto. All’ultimo Salone di Genova, ad esempio, ho presentato una serie di consigli su come navigare senza utilizzare la plastica usa e getta, sono cose a cui occorre pensare, prestare attenzione, cominciando a modificare i nostri comportamenti, perché quello che stiamo portando avanti ora è un modo di vivere che non ci possiamo più permettere, non è più sostenibile. Cambiare prima che sia troppo tardi, questo deve essere l’imperativo, e non solo per salvare il mare, ma noi stessi.