Cultura | Lirica

Roberta Dapunt, la poesia che ascolta

Agli inizi di ottobre, la poetessa ladina Roberta Dapunt era ospite del Film Club di Bolzano. Dopo aver colloquiato brevemente col critico torinese Giovanni Tesio, ha letto alcune poesie della sua nuova raccolta: “Le beatitudini della malattia” (Einaudi). Un resoconto ammirato.

Sono pochissime le voci letterarie altoatesine capaci di essere ascoltate fuori dalla terra di origine. Pochissimi gli autori locali pubblicati da grandi case editrici nazionali, siano esse italiane o tedesche. Con la sua seconda raccolta di poesie (nel 2008 era già uscito, sempre presso Einaudi, La terra più del paradiso), Roberta Dapunt conferma questo suo ruolo privilegiato, assolutamente meritato, e regala ai lettori un intenso documento della sua arte. Il libro s’intitola Le beatitudini della malattia, e l’ossimoro circoscrive e sintetizza il rapporto, metabolizzato in parole, del quale la Dapunt ha fatto esperienza a contatto con due congiunti affetti da demenza senile.

Le beatiduni della malattia
Il titolo è evangelico. È infatti dal Vangelo di Matteo che apprendiamo come la via alla santità passi attraverso un preliminare “abbassamento” o “svuotamento” della condizione umana. La parola chiave, qui, è Kenosis, che significa proprio “vacuità”, “farsi cavo”. Scrive Paolo di Tarso nella Lettera ai Filippesi: “Cristo spogliò se stesso”. Siamo al cuore della teologia cristiana: per assicurare il passaggio alla dimensione divina dell’uomo, Dio svuota se stesso incarnandosi e, nella figura di un chiasmo, la somiglianza tra creatore e creatura diventa perfezione di un assoluto che, morendo, dona la vita eterna ai morenti. Il cosiddetto “Discorso della Montagna”, riportato da Matteo, è una volgarizzazione di questo nucleo teologico. “Beatitudini della malattia” potrebbe essere intesa come una formula che schiude all’ermeneutica poetica della frase “Beati gli afflitti, perché saranno consolati”. Ma così come ogni ermeneutica è per principio inesauribile, anche i versi di Roberta Dapunt non si esauriscono nell’esplicitazione di un contenuto teologico. E neppure aderiscono senza residui al tema della demenza senile dal quale, pure, sono mossi.

La poesia compagna della vita
Prima di leggere alcune poesie, Roberta Dapunt ha fornito una straordinaria dichiarazione di poetica: “Ho parlato della beatitudine come stato perfetto della mente del malato. Ho cercato di compiere un percorso di osservazione, di memoria e di considerazione lungo il sentiero stretto della cura. La poesia mi dà sempre la possibilità di raccontare in forma stretta la vita, e io parlo sempre da qui. La malattia mi era compagna nella vita”. Compagna di vita, la malattia. Sentinella di morte, la poesia. Il dialogo che chi cura instaura col malato, con un malato che “non risponde”, scarnifica il dettato poetico e lo rende simile a un “immacolare” (“Voglio immacolarmi. Per sempre zittire, interrompermi e tacere”, dell’infeconda voce, pag. 21), a una terra innevata sulla quale si stagliano le parole più essenziali. Ed è dallo sforzo di udire l’altro, l’altro che è diventato, nella malattia, compiutamente “altro” (ecco la demenza, questo diventare altro da sé, irriconoscibilità senza più confini) che alla fine, anche se “il marzo alpino” non è rallegrato da alcun fiore, anche se “l’inverno per me rimaneva lì anche dopo la messa”, può germogliare qualcosa “oltre la Pasqua” (litania delle ricordanze, pag. 49): la parola poetica, resto della vita.

L’officina della poesia
Anche litania è una parola chiave per penetrare nell’officina della poesia di Roberta Dapunt: “Mi piace la parola officina. Generalmente si parla di officina a proposito del lavoro di mio marito (lo sculture Lois Anvidalfarei, ndr). Nella mia officina io ripeto un verso continuamente ad alta voce, scrivo ad alta voce. Scrivo e riscrivo sempre tutto da capo, così nascono delle litanie che mi creo nella memoria, finché ho la possibilità di sentire la voce della poesia. Quello che voglio, alla fine, è dire qualcosa con un buon suono, questa è la mia officina”. Inevitabile, a questo proposito, convocare un’altra stazione evangelica, cioè quella relativa al miracolo dell’annunciazione. Visitata e toccata dalla parola dell’angelo, Maria si abbassa, umilissima, e si “fa cava” per accogliere il seme divino. “La poesia è in tutte le cose, c’è poesia anche se io non la scrivessi”, ha detto a un certo punto Roberta Dapunt. Il lavoro poetico, dunque, sembra acquisire il proprio status specifico intercettando il punto focale del tempo (dato cioè dal vivere qui e ora) per farne un frammento lucente di mondo. Ed è proprio questa luce di mondo, barbaglio nel suono cercato, a rischiarare il lettore.

Autenticità, semplicità, dignità
“Non saprei dire se sono particolarmente affezionata a una parola, però – ora che ci penso – una parola c’è. È una parola che si è insinuata in ogni pausa di verso: la parola dignità. La dignità è il basamento per la cura di questa malattia, senza la dignità – sia dalla parte di chi cura che dalla parte del malato –, senza questo basamento non è possibile avere a che fare con questa malattia”. Roberta Dapunt esprime con estremo pudore il concetto di dignità. Ma anche con estrema risolutezza. E quando parla di “basamento” vuol dire che la sua è una poesia che nasce da un’ispirazione elementare, autentica. Tuttavia, tanto più autentica quanto più lontana da quel Jargon der Eigentlichkeit che potrebbe far pensare a un repertorio d’immagini stilizzabili, alle quali sarebbe insomma facile accostarsi per arraffarne il segreto. La dignità – ci dice il vocabolario – è un sentimento che proviene dal considerare importante il proprio valore morale, la propria onorabilità, e di ritenere importante tutelarne la salvaguardia e la conservazione. In un tempo di parole sprecate, di parole svuotate, il rischio è quello di non udire più la parola sofferta del poeta e quella muta del malato. Per questo il dialogo che si compie e si legge nelle pagine de Le beatitudini della malattia è di quelli imprescindibili e rari.