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Società | Xenofobia

Immigrazione e rimozione collettiva

L’ondata xenofoba nelle società occidentali sembra non avere freno: una chiave di lettura.

Nessun tema accende gli animi, surriscalda i dibattiti e sposta masse di elettori da un partito all’altro come quello dell’immigrazione. Perché? Perché gli immigrati, e soprattutto quelli che le destre definiscono “migranti economici”, costringono la nostra società a guardarsi allo specchio.

Secondo gli ordinamenti giuridici delle democrazie liberali occidentali lo status di rifugiato è riconoscibile soltanto a chi fugge da guerre e persecuzioni, cioè a chi proviene da paesi dove i diritti umani vengono violati. Questa definizione di rifugiato presuppone però una rimozione giuridica, politica e perfino filosofica così gigantesca da non poterla illuminare senza scuotere le fondamenta stessa della nostra civiltà. Infatti, la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 non contempla soltanto i diritti politici formali quali la libertà di opinione e il diritto all’autodeterminazione, ma anche quelli materiali, sistematicamente sottaciuti dai sacerdoti dell’ideologia liberale e liberista ossia i giornalisti editori commentatori economisti mainstream onnipresenti nel dibattito pubblico (Noam Chomsky li chiama i guardiani della libertà).

Gli articoli 23 e 25 affermano rispettivamente il “diritto al lavoro” di ogni individuo, alla “protezione contro la disoccupazione”, a una “remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale” (articolo 23) così come il “diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari” nonché il “diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà” (articolo 25). Inoltre, l’articolo 2 dichiara espressamente che “ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.”

Ora, se tutti i diritti enunciati dalla Dichiarazione universale godono della stessa assolutezza e inviolabilità senza distinzione alcuna, se tra diritti formali e materiali non sussiste alcun rapporto gerarchico (come la stessa Dichiarazione afferma inequivocabilmente), in base a quale principio si riconosce come causa legittima per fuggire dal proprio paese la guerra o la persecuzione politica, ma non la miseria e la fame? E oltretutto, dove risiedono le cause di quella miseria e di quella fame? Chi ha colonizzato quei paesi? Da dove provengono le multinazionali che ne depredano le risorse naturali e distruggono le condizioni di sussistenza dei contadini a favore delle monocolture di esportazione? Chi è responsabile degli interventi del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, che dopo il crollo dei prezzi delle materie prime degli anni ’80 elargirono crediti a tassi insostenibili e imposero il taglio drastico della spesa pubblica e la liberalizzazione del sistema bancario, con l’effetto di dirottare gran parte del credito verso le grandi compagnie straniere e di strangolare i piccoli agricoltori locali? Chi ha creato le condizioni economiche che costringono milioni di contadini ad abbandonare le loro terre, con la conseguente esplosione demografica dei centri urbani?

Se tutti i diritti enunciati dalla Dichiarazione universale godono della stessa assolutezza e inviolabilità senza distinzione alcuna, se tra diritti formali e materiali non sussiste alcun rapporto gerarchico (come la stessa Dichiarazione afferma inequivocabilmente), in base a quale principio si riconosce come causa legittima per fuggire dal proprio paese la guerra o la persecuzione politica, ma non la miseria e la fame?

La questione dei diritti materiali, che altro non è se non la cara e vecchia questione sociale che i sommi custodi del dogma liberista si illudono di aver cancellato, è stata rimossa dal dibattito pubblico, e quindi anche dal terreno conflittuale della contesa politica, perché il meccanismo della rimozione (nella psiche degli individui come nei fenomeni di massa) allontana dalla coscienza ciò che risulta insopportabile. Ovvero, che l’incommensurabile povertà in cui versano centinaia di milioni di persone (821 milioni vittime della fame nel 2017, 1 miliardo sotto la soglia di povertà con meno di due dollari al giorno, l’80 % della popolazione mondiale che attinge al 5,5 % delle risorse complessive) non è un fenomeno naturale né una fase intermedia dello sviluppo capitalistico, ma un elemento costituente, essenziale, strutturale del modo di produzione fondato sul libero mercato. Che la negazione dei diritti dell’uomo, di cui i diritti materiali enunciati negli articoli 23 e 25 della Dichiarazione universale sono parte integrante, non è un effetto secondario e temporalmente limitato del mercato globale non ancora pienamente sviluppato, ma l’essenza stessa della nostra civiltà.

Le masse di diseredati che dai loro paesi brutalmente sfruttati seguono i flussi delle materie prime verso le potenze industriali dell’occidente, hanno l’imperdonabile colpa di porci davanti a uno specchio. Esse ci dimostrano che l’idea secondo cui il nostro benessere e il nostro Stato di diritto affondano le loro radici negli ideali di uguaglianza che ispirarono la Dichiarazione universale dei diritti umani, è una menzogna. Ma proprio come al fedele risulta intollerabile la dimostrazione razionale che Dio non esiste («L’inferno è lo sguardo del fedele sull’infedele»), così anche a chi è aggrappato alla fede nel libero mercato e negli ordinamenti giuridici liberali che su esso sono costruiti, risulta intollerabile chi con la propria esistenza disperata incarna la confutazione di entrambi.

Le masse di diseredati che dai loro paesi brutalmente sfruttati seguono i flussi delle materie prime verso le potenze industriali dell’occidente, hanno l’imperdonabile colpa di porci davanti a uno specchio. Esse ci dimostrano che l’idea secondo cui il nostro benessere e il nostro Stato di diritto affondano le loro radici negli ideali di uguaglianza che ispirarono la Dichiarazione universale dei diritti umani, è una menzogna

Ecco la fonte di questo isterismo di massa, di questo livore primordiale. Vengono qui perché sono poveri? E noi cosa c’entriamo con la loro povertà? Noi non abbiamo colpe, e loro sono qui illegalmente. Buttiamoli fuori. O diamogli fuoco. Non si tratta soltanto di generica diffidenza verso lo straniero o di percezione diffusa di insicurezza o di guerra tra poveri che si contendono le briciole dello Stato sociale. Le svariate forme di razzismo conclamato e le tendenze fascistoidi travestite da difesa dello Stato di diritto (ne troviamo numerose e variopinte manifestazioni anche su questo sito, naturalmente senza che questi piccoli leoncini da tastiera firmino mai i propri rigurgiti con nome e cognome), hanno radici più profonde. L’immigrato è lo specchio della nostra società, la nostra immagine riflessa che vorremmo cancellare. Il rimosso, però, va portato a galla. O genera gli incubi più terrificanti.