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La pasta e la trasparenza

Che cosa c'è dietro la "guerra" degli industriali al decreto governo che obbligherà da febbraio ad indicare in etichetta il Paese d'origine del grano trasformato.
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Foto: upi
"Date da mangiare alla gente ciò che dareste ai vostri figli". La frase virgolettata è attribuita all'imprenditore Pietro Barilla: la sue parole aprono la pubblicità con cui l'azienda di famiglia pretende di chiudere il dibattito sull'origine dei grani utilizzati per produrre la pasta. Il messaggio prosegue, autografato da Guido, Luca e Paolo Barilla, la quarta generazione alla guida di quello che è il primo gruppo industriale del settore, con 3,4 miliardi di euro di fatturato nel 2016, ricordando al consumatore che da 140 anni Barilla seleziona "i grani duri migliori in Italia e nel mondo". La scelta iconografica è caduta su due mani, verosimilmente quella di un bambino "avvolta" da quella del padre, con in mano una spiga di grano.
Un messaggio rassicurante, a fronte di uno scontro in atto tra i pastai (con Barilla in prima fila) e il governo italiano. Il motivo del contendere è la trasparenza, cioè un decreto del ministero delle Politiche agricole e di quello dello Sviluppo economico, che sarà in vigore dal mese di febbraio 2018, che impone a chi trasforma grano in pasta di indicare in etichetta "Paese di coltivazione del grano" (cioè nome del Paese nel quale è stato coltivato il grano duro) e "Paese di molitura" (cioè nome del Paese nel quale è stata ottenuta la semola di grano duro).
 
Secondo i produttori industrali di pasta, riuniti nell'AIDEPI, questa norma di etichettatura non informerebbe "correttamente il consumatore", rischiando "di far credere che ciò che conta per una pasta di qualità è l'origine del grano. E questo non è vero". Nel comunicato stampa con cui l'AIDEPI annuncia di aver depositato un ricorso al Tar del Lazio contro il decreto, si fa anche esercizio di retorica chiedendosi che "cosa accadrebbe se questo decreto spingesse gli italiani a comprare solo pasta fatta con grano nazionale?", e rispondendo che il consumatore dovrebbe dire "addio dieta mediterranea: gli italiani dovrebbero rinunciare ad almeno 3 piatti di pasta su 10, perché la materia prima italiana è insufficiente a coprire il fabbisogno dei pastai. E rischiano di mangiare una pasta meno buona e al dente, perché non tutto il grano italiano è della qualità giusta". I pastai ricordano poi che "tanti già indicano in etichetta l’origine italiana del grano duro impiegato, o la comunicano attraverso altri canali di interazione con il consumatore". Come se i social network o le campagna pubblicitarie fossero equiparabili all'etichetta.
In ogni caso, scrivere "tre piatti su dieci" significa che almeno il 30 per cento del grano utilizzato è importato. E se è vero che non tutto il grano duro italiano è di qualità sufficiente, informare sulla provenienza di quello acquistato non dovrebbe spaventare chi fa la pasta.
 
Coglie nel segno Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, quando scrive: "A quanto pare, tuttavia, a volte il diritto di informazione cozza con quello che viene definito 'libero mercato'. Consentire ai consumatori di sapere da dove arriva il grano che è servito per produrre la pasta che mettono sulle proprie tavole sarebbe lesivo della libera concorrenza, o almeno così qualcuno sta cercando di far credere". Tra l'altro, secondo la consultazione pubblica online sull'etichettatura dei prodotti agroalimentari condotta dal Ministero delle Politiche Agricole, è l'81% dei consumatori a chiedere maggiori informazioni.
Se è vero che non tutto il grano duro italiano è di qualità sufficiente, informare sulla provenienza di quello acquistato non dovrebbe spaventare chi fa la pasta.
Dietro la reazione di AIDEPI e di Barilla (Paolo è presidente dell'International Pasta Organisation) può esserci anche la campagna di alcune organizzazioni di categoria degli agricoltori, colpevoli -dicono- di una "campagna diffamatoria verso i pastai e il grano estero, che sarebbe 'tossico' o 'contaminato', acquistato per risparmiare". Questa è però una partita che si gioca in un altro terreno, e non riguarda il consumatore. Che ha, usando le parole Petrini, "il diritto di sapere".