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“Riabitare l'Italia”

Intervista ad Antonio De Rossi, curatore del volume, una riflessione multidisciplinare sulle aree interne del Paese. Lunedì 15 aprile si presenta a Bolzano, all'EURAC.
Antonio De Rossi
Foto: Antonio De Rossi

"L'obiettivo di questo libro è sparigliare le carte: le Alpi, gli Appennini, più in generale le aree marginali del Paese non possono essere ricondotte alla lettura de 'il mondo dei vinti', quando sono passati oltre quarant'anni dalla pubblicazione del lavoro di Nuto Revelli" spiega Antonio De Rossi. Professore ordinario di Progettazione architettonica e urbana presso il Politecnico di Torino e Direttore dell’Istituto di Architettura Montana, è il curatore di "Riabitare l'Italia", il volume che in oltre seicento pagine ribalta elabora la cornice per decostruire ogni stereotipo, e arrivare a cogliere le potenzialità delle aree interne del Paese (occupano quasi il 60 per cento della superficie italiana, e ci vive il 22 per cento della popolazione italiana, secondo i dati del Dipartimento per le politiche di coesione), "tra abbandoni e riconquiste" come spiega il sottotitolo.


salto.bz: Perché “Riabitare l’Italia”?

Antonio De Rossi: Con questo titolo abbiamo voluto tracciare un filo rosso tra analisi, esperienze e pratiche che abbiamo incontrato in tutto il Paese: "riabitare" è la questione che permette di tenere insieme il re-insediamento di giovani sulle Alpi e il welfare innovativo delle cooperative di comunità, l'accoglienza diffusa dei migranti ed esempi di valorizzazione delle risorse forestali.
Questo libro rappresenta un doveroso salto di scala, che non è solo territoriale ma anche concettuale: girando l'Italia abbiamo conosciuto fenomeni di tipo diverso, che condividono però prassi e tracce comuni. "Riabitare l’Italia", così, perché credo dopo la fase della modernizzazione che ha caratterizzato tutta la storia unitaria, e poi il Secondo novecento, oggi si pone un tema nuovo, quello dei margini, che non è dato solo dalla crisi dell’ambito urbano. È una questione di carattere generale, nazionale, che va affrontata in modo multidisciplinare per non rinchiudere per l’ennesima volta le aree interne dentro riserve indiane, per non farne solo una nuova perimetrazione dicotomica come quelle che hanno caratterizzato il Novecento, si pensi alla visione "Nord Sud", o "centro periferia", a renderle qualcosa di differente dal resto del Paese. Non è più possibile immaginare una contrapposizione tra metropoli e spazi marginali, anche perché è possibile riconoscere una crisi dei territori intermedi. Nella mia lettura, ci sono più prospettive di futuro in Valle Maira (in provincia di Cuneo, tra le poche valli chiuse senza sbocchi in Francia, caratterizzata dalla naturalità spinta, grazie all'assenza di impianti di risalita, ndr), in Piemonte che non il distretto industriale incompiuto della Pianura Padana.
Le aree interne non sono più la montagna abbandonata, marginale: è tempo di sparigliare le carte, non stiamo descrivendo il mondo dei vinti.

 "Riabitare" è la questione che permette di tenere insieme il re-insediamento di giovani sulle Alpi e il welfare innovativo delle cooperative di comunità, l'accoglienza diffusa dei migranti ed esempi di valorizzazione delle risorse forestali

Nella sua introduzione al volume, spiega che è necessario partire da una “decostruzione delle immagini implicite”. Che cosa significa?

Perché gli immaginari culturali, spesso anche le autorappresentazioni di chi vive in questi territori, sono fondamentali, e allora è necessario ristrutturare l'idea di presunte marginalità di questi "luoghi lontani". Perché la realtà economica e sociale di alcuni territori non è quella di cinquant’anni fa, alla fine di un processo di spopolamento, con la fine dell’agricoltura e delle economie tradizionali. Decostruire permette di leggere alcuni valori in potenza, e di fare un lavoro di convergenza con il grande processo di costruzione di nuovi immaginari che sta avvenendo dall’interno di questi territori. Non si spiegherebbe altrimenti il valore incredibile che danno a questi territori persone che arrivano da fuori, e che sono appunto portatori di nuovi immaginari, come racconta anche Paolo Cognetti nel libro "Le otto montagne" premitato con lo Strega. Questa visione spesso si scontra con quella degli abitanti locali, che sono invece portatori di immaginari più stratificati e di lunga durata: se penso agli studi di Vito Teti o Pietro Clemente, a volte accusati di una dimensione nostalgica, riconosco un grande lavoro di accumulazione di valori simbolici e d’uso, necessari per una riattribuzione di senso. Decostruire è promuovere un incontro tra vecchie e nuove comunità, generando un conflitto, inteso in senso positivo: da quel conflitto, si forgiano nuove culture, che per forza devono passare da una fase di smontaggio degli immaginari. Non si tratta di abbandonare la cultura locale, ma di togliere stereotipi per rimontare insieme nuove culture. Ricostruendo ciò che è successo negli ultimi 40 anni.

Per far questo un tema chiave è l'interdisciplinarietà. Nel libro si confrontano le riflessioni di storici, territorialisti, architetti, geografi, demografi, antropologi, sociologi, statistici, economisti, ecologisti.

È fondamentale la ricomposizione delle ottiche disciplinari, un obiettivo che ci siamo dati io e Laura Mascino quando abbiamo iniziato a pensare questo lavoro. "com’è possibile che molti stanno lavorando su questi temi delle aree interne, ma non c'è nessun "imbastardimento", nel senso che gli economisti citano solo economisti, i sociologi solo i sociologi... Molti studenti mi vengono a chiedere tesi (in Architettura, ndr) sulle aree interne, ma non potevo consigliar loro alcune lavoro di riferimento che mettesse insieme le diverse angolature.

C'è anche un secondo aspetto: se parliamo di politiche place based (che nascono sui territori, rispondendo ad esigenze e bisogni manifestati dalla popolazione, ndr), come la Strategia Nazionale Aree Interne (SNAI) promossa in Italia dal Dipartimento per le politiche di coesione della presidenza del Cosiglio dei ministri, crediamo che esse necessitino di un approccio interdisciplinare. È indubbio che se io non avessi competenze sociologiche, ambientali, economiche, infrastrutturali, difficilmente potrei lavorare su processi di rigenerazione. Personalmente, è ciò che ho fatto induttivamente sul campo ad Ostana (Comune di 81 abitanti della provincia di Cuneo, in Piemonte, ndr). Questa lettura interdisciplinare c'era già nei lavori degli anni Trenta sullo spopolamento montagna, di INEA e CNR: non è possibile scindere l'aspetto fondiario da quello sociologico, dalla gestione rurale. Questo pone un problema di natura epistemologica, che tocca cioè la conoscenza dei metodi delle scienze e dei principî secondo i quali la scienza costruisce sé stessa: le discipline economiche e sociali non si occupano dello spazio fisico, che è una derivata del progetto socio-economico; viceversa, chi studia lo spazio fisico non coglie spesso la radice sociale ed economica dei temi. La separazione e divaricazione tra le diverse tematiche però ha distrutto il territorio italiano, e questa separazione e divaricazione all’inizio riguardava anche le modalità di gestione dei finanziamenti europei, che erano molto verticali, guardavano a singoli temi, e forse per questo erano poco efficaci.

Le aree interne non sono più la montagna abbandonata, marginale: è tempo di sparigliare le carte, non stiamo descrivendo il mondo dei vinti

A proposito di politiche di coesione e aree interne, qual è l’importanza della SNAI, nel contesto e nel quadro descritti in questo libro?

Credo che la Strategia Nazionale Aree Interne (che l'Italia ha avviato nel 2013, su impulso di Fabrizio Barca, ndr) abbia insegnato una cosa fondamentale: la marginalità non va letta in termini geografici, come si è fatto nell’Ottocento e Novecento, perché il tema vero è quello dei diritti di cittadinanza.
Al di là degli esiti e delle difficoltà, questa impostazione data da Barca e dal suo gruppo di lavoro è fondamentale, perché “rigira” il termine: il problema non è che un luogo è "lontano", ma la valutazione dei diritti che giustamente devono essere riconosciuti anche a chi vive in quel luogo, che per tradurre in una politica efficace si è voluto ridurre ai temi del servizi essenziali, e quindi mobilità, istruzione, salute. L'antecedente concettuale fondato sui diritti è rivoluzionario.

E permette di vedere - la cito - "un’Italia che chiede non assistenzialismo, ma la rimozione degli ostacoli che non consentono il libero dispiegarsi della progettualità delle persone".

Nel libro presentiamo dei "casi", che non vanno esagerati ma nemmenotrattati con superficialità; essi indicano che una certa modalità auto-organizzativa in alcune realtà locali esiste, perché oggi è più facile andare ad Ostana ad aprire una attività economica che farlo in un’area metropolitana come quella torinese, che è in profonda crisi.
Questi territori offrono una rarefazione e una rugosità che permette l’atterraggio a terra, per citare il lavoro di Bruno Latour (qui): chi va lì, a riabitare le aree interne, è spesso portatori di un progetto di vita, spesso anche di un progetto anche economico, molto forte. Queste avanguardie sono motivate, un singolo vale 10 persone: se ci sono condizioni di humus, il progetto di vita individuale assume una valenza collettiva, ha un risvolto politico in senso etimologico proprio. Senza dare alcuna colorazione ideologica, o ideale, sono numerose le esperienze interessanti, che portano a ripensare il welfare locale, le modalità di gestione della comunità.
Senza pensare che la rivoluzione la si faccia in questi territori, e senza scomodare concetti come quello di neo-comunitarismo, nelle aree interne il progetto del singolo e la sua rilevanza collettiva vengono a coincidere. Ciò lascia intravedere la possibilità di pensare una via per il futuro di questi territori.