Società | Intervista

“Come un elefante in una cristalleria”

Capire la Cina per capire il mondo. Tra propaganda e realtà, la politica del contagio zero nella lotta perenne al Covid-19. L'intervista al giornalista Gabriele Battaglia
Gabriele Battaglia
Foto: Gabriele Battaglia

Nessuno, neanche in tempi come questi, è mai riuscito ad equiparare la Cina e la sua capacità di “irrompere nel mondo governato dai soliti noti, il suo frantumare le loro regole politiche, economiche, legali, facendoli impazzire mostrando la non universalità dei loro presunti valori”. Sono le parole con cui il giornalista e autore Gabriele Battaglia riassume il luogo in cui risiede da 12 anni. Un territorio ben conosciuto e riconoscibile. ma al contempo misterioso, avvolto da una nebbia fatta di miti e polveri sottili, diventato centrale come non mai all’interno dello spazio mediatico globale che ha ricoperto senza sosta dall’inizio della pandemia, soprattutto per il modo con cui le autorità cinesi hanno deciso di affrontarla. Un sistema inedito, pervasivo, autoritario e distopico, almeno secondo le narrazioni proposte dai media occidentali, e che Battaglia ha sperimentato in prima persona, con una lucidità e occhio critico tale da riuscire a inserirlo e contestualizzarlo, tra propaganda e realtà, in un sistema molto più ampio di disuguaglianze, mercati e sfruttamento, dove la gestione della pandemia non è nientemeno che lo specchio della più complessa e sfaccettata società cinese. 
Un viaggio che, nell'anno della pestilenza, comincia con il diario di una quarantena a Pechino e che finisce con l'intrecciarsi a doppio filo con il viaggio intrapreso anni prima in una delle contee più povere della Cina. Un’esperienza unica, che Battaglia racconterà domani sera, 11 giugno, a Bolzano presso il Centro Ermete Lovera di viale Europa (questa sera sarà invece a Trento, presso il Centro Sociale Bruno). 
 

salto.bz: Battaglia, mai come in questi ultimi due anni la nostra attenzione si è soffermata sulla Cina e sul suo complesso sistema di ingegneria sociale, affinato a tal punto che il ruolo del “controllore” è passato dai soldati in divisa al personale civile, alla burocrazia e persino ai sistemi automatizzati. Una sorta di "revival maoista" a cui la società cinese pare essersi abituata rapidamente, dove chi controlla è anche quello che ti aiuta a reperire beni e servizi di prima necessità. Come siamo arrivati a questo punto?

Gabriele Battaglia: Un tipico e conosciuto modus operandi cinese è la cosiddetta mobilitazione di massa. Anche in questo caso diventa molto difficile distinguere il controllore dal controllato: tutte queste comunità di base, chiamiamole così, che esercitano sia un controllo sia una facilitazione della vita quotidiana sono già presenti all'interno della società. Prendiamo ad esempio il signore anziano inattivo che allo stesso tempo è membro del Comitato del Partito Comunista all’interno della sua comunità residenziale. Ecco che in una situazione definita eccezionale si attiva di colpo e assume una sorta di delega di autorità che lo autorizza a controllare e al tempo stesso facilitare la vita quotidiana di tutti gli altri. È così che funziona la Cina e questo è stato il punto di partenza per la lotta al Coronavirus. Ma di casi ce ne sono molti altri.

Per esempio?

Ci sono varie situazioni che possono essere definite "eccezionali", come appunto la crisi pandemica. Possiamo citare il terremoto del Sichuan del 2008 ma anche eventi percepiti positivi, come l’organizzazione delle Olimpiadi. Ogni qualvolta si verifica una situazione eccezionale ecco che entrano in azione tutte queste forme di organizzazione sempre presenti ma silenti all’interno della società. Questa è una delle caratteristiche tipiche della Cina che più facciamo fatica a comprendere perchè in Occidente e in Europa non esistono organizzazioni di base così capillari.

Questa idea radicata di sicurezza ha portato la popolazione cinese a sopportare spesso e volentieri misure assolutamente draconiane

A proposito di situazioni eccezionali, “la sicurezza prima di tutto” è probabilmente uno degli slogan più evocativi adottati dal governo cinese nella lotta al Coronavirus. Tuttavia, nel corso dei mesi, una serie di misure pensate per fronteggiare il problema dei contagi sono state annunciate come definitive, basti pensare agli screening facciali, solo per citarne uno. La peculiare modalità di gestione della pandemia da parte delle autorità cinesi può essere  dunque considerata un laboratorio per la società nel suo complesso?

Io credo di sì. Tutta una serie di dispositivi di controllo non ci lasceranno più e, a mio avviso, per un motivo molto semplice: “la sicurezza prima di tutto” non è solo lo slogan del governo ma è un vero e proprio sentire comune che registro da anni quotidianamente tra gli umori della popolazione. Qualche anno fa, quando nella regione del Xinjiang, nell’estremo occidente cinese, hanno preso piede forme di repressione nei confronti della popolazione musulmana in un contesto assimilabile a un vero e proprio stato di polizia, la retorica era la stessa: la sicurezza è importante, mi ripetevano anche coloro non necessariamente affezionati alla linea del Partito. Questa idea radicata di sicurezza ha portato la popolazione cinese a sopportare spesso e volentieri misure assolutamente draconiane e lo stesso è stato con l'avvento della pandemia: si resiste e si sopporta perché la sicurezza è percepita ben al di sopra di qualsiasi forma di libertà individuale.

 

Durante le fasi più acute della pandemia diversi stati, come verificatosi in America Latina, hanno utilizzato strumentalmente le restrizioni per il contenimento della pandemia, che hanno fatto da acceleratore per tutta una serie di violente repressioni già in atto nei confronti di una parte della popolazione, solitamente attivisti e minoranze. È stato così anche per la minoranza musulmana cinese?

Non particolarmente, ma per un semplice motivo: tutti i dispositivi di repressione e controllo sociale attivi in Xinjiang erano presenti già prima del Coronavirus. Quello è stato il vero grande laboratorio di sperimentazione delle più sfaccettate forme di controllo sociale. Quando è arrivato il Coronavirus, con la strategia del cosiddetto azzeramento dinamico, tutti questi dispositivi sono ritenuti necessari sebbene si cerchi sempre di aprire e di mantenere in piedi tutto quel che consente di far viaggiare l'economia. Sarà interessante vedere il dopo, cosa resterà di tutto questo. In Cina abbiamo oggi una situazione per cui se non hai installato due app sul cellulare, compresa WeChat, non puoi fare niente. Ma è anche vero che a nessuno è stato imposto di scaricarla e che WeChat la possedevano praticamente tutti, solamente che ora ha una doppia funzione, condivisa con la gran maggioranza della popolazione.

La rappresentazione della Cina sui media occidentali negli ultimi due anni è strettamente propagandistica, né più né meno della propaganda messa in campo dai media cinesi

Come valuta la rappresentazione della Cina sui media occidentali durante questi ultimi due anni?

La rappresentazione della Cina sui media occidentali negli ultimi due anni è strettamente propagandistica, né più né meno della propaganda messa in campo dai media cinesi. Il monopolio dei media occidentali, impersonato da 4 o 5 media anglofoni atlantici dai quali si rifanno tutti gli altri media - compresi i nostri - ha accentuato una propaganda anti cinese che prima era solamente strisciante. Sul fatto specifico delle misure di contenimento, giuste o sbagliate che siano, l’atteggiamento è stato stagionale e ambivalente, a seconda delle necessità da rappresentare. Per quanto gli interventi delle  autorità cinesi possano risultare ai nostri occhi assolutamente sproporzionati, è interessante vedere come a volte siano visti in Occidente come sinonimo di efficienza e altre volte come sintomo di autocrazia. Tutte quelle immagini che vediamo e che ci arrivano da Shangai sono vere ma è necessario soffermarsi su cosa vive e percepisce la popolazione, tendenzialmente d’accordo nei confronti dell’approccio adottato, anche per la retorica consolidata di non potersi permettere di fare come in Occidente, altrimenti sarebbe una catastrofe. Non dimentichiamo che in due anni di Coronavirus la Cina ha contato poco più di 5 mila morti, l’Italia quasi 170 mila. E su questo dato il Partito-Stato, ma anche la popolazione stessa ha costruito una retorica politica che ha fatto breccia. Per questo non possiamo generalizzare, dicendo che sono tutti oppressi e repressi o in disaccordo con queste misure. Tuttavia anche questa strategia sta mostrando i suoi limiti.

 

Perchè? 

Omicron, una variante poco letale ma molto virale, ha costretto le autorità cinesi in questo momento a rinchiudere in casa 26 milioni di persone a Shanghai, con drammi esistenziali, personali, materiali di tutti i tipi. Sebbene siano le autorità stesse a necessitare di un cambiamento, l’approccio adottato da due anni resta. A Hong Kong, tra dicembre e gennaio con la quinta ondata sono morte 8000 persone. Se si fossero allentate le misure, in proporzione a Shanghai se ne sarebbero verificati 24 mila in un solo mese, dopo che per due anni è stato sbandierato il dato dei 5000 morti. Uno scenario del genere avrebbe generato il caos, tra supermercati vuoti, ospedali intasati e rivolte nelle strade: il sistema sarebbe saltato. Per questo la strategia dell’azzeramento continua ad essere considerata l'unica percorribile, almeno finché non trovano qualcosa di meglio.

Come si concilia la strategia dell'azzeramento con l'iper produttività tipica dell'economia cinese?

Questa è la vera contraddizione e gli esiti di lungo periodo sono ancora tutti da verificare. Nel primo trimestre di quest'anno la crescita economica cinese è stata inferiore all'obiettivo prefissato. Al momento l'esigenza numero uno resta quella del contenimento del Coronavirus. L'economia viene dopo. Evidentemente il Partito Comunista pensa di riuscire a recuperare nei mesi successivi quello che perderanno indubbiamente in questi mesi. L’obiettivo è mantenere un ragionevole livello di disoccupazione nelle grandi città attraverso lo sviluppo di nuove forme di welfare. Sono processi lunghi e sicuramente fino alla fine di quest'anno, quando si svolgerà il congresso del Partito comunista, la priorità rimarrà ancora il contenimento del virus.

 

Se la strategia dell’azzeramento è funzionale al tracciamento dei contatti potenzialmente positivi, quale importanza ha avuto la campagna vaccinale e quali sono stati i suoi effetti?

In Cina la logica è completamente diversa dalla nostra. Che tu sia vaccinato o meno poco importa: se viene riscontrato un caso di positività in un condominio, tutti i suoi abitanti verranno isolati. I motivi sono tanti, la popolazione si fida poco dei suoi stessi vaccini, meno efficaci ma comunque validi per i casi più gravi. La Cina, che non ha mai introdotto un obbligo vaccinale, dichiara di avere l’80% dei vaccinati ma è un dato che non corrisponde assolutamente alla realtà. È la stessa politica dell’azzeramento a disincentivarla. Con Omicron l’atteggiamento sta un po’ cambiando perché hanno visto che chi muore a causa della nuova variante sono soprattutto gli anziani, notoriamente la parte di popolazione meno vaccinata in assoluto. Un altro elemento interessante è il fatto che la Cina non ha aperto ai vaccini mRNA  che usiamo noi. La ratio è quella della competizione globale: prima di aprire il proprio mercato ai vaccini esteri la Cina sta cercando di elaborare i propri con l’obiettivo di arrivare a competere ai livelli più alti dell'industria farmaceutica.

Quindi un laboratorio anche in questo caso?

La Cina ha sempre cercato di dare priorità a quei beni e merci che considera fondamentali. In primis per non dipendere nè da altri soggetti né da possibili ricatti politici. Al momento, con la crisi alimentare in corso, la Cina sta cercando di intercettare la filiera globale attualmente a rischio, traendone profitto con l’obiettivo di diventarne leader. Tutto questo è possibile grazie alla sua economia di scala che consente di produrre massicciamente e a minor costo, rispetto alla concorrenza occidentale. E questo è avvenuto anche per il vaccino cinese in Africa, dopo il conclamato fallimento dei paesi occidentali.

Qual è oggi il ruolo della Cina alla luce del nuovo scenario geopolitico che si sta delineando a seguito dell’invasione dell’Ucraina?

La Cina è in una posizione interessante. Ha sempre affermato di non voler cambiare l'ordine internazionale e per farlo ha sempre voluto prendere parte alle grandi istituzioni internazionali definite dal sistema all'ordine mondiale disegnato dagli Stati Uniti, prima tra tutti l'Organizzazione Mondiale del Commercio. Tuttavia per le sue dimensioni e per la sua importanza strutturale nel mondo, alla fine questo mondo lo sconvolge sempre, come un elefante in una cristalleria. Di fronte alla guerra che abbiamo davanti in un mondo sempre più polarizzato, è proprio la Cina, forse, a suggerire la vera sfida che ci aspetta. Per il futuro l’obiettivo non è tanto vincere una guerra contro un nemico, vero o presunto, esterno a noi. La vera sfida è quella di non arrivarci, a questa guerra, smettendola di pensare che ci sia un solo e unico ordine globale possible, un'unica ideologia, un unico sistema di valori. Solo accettando e gestendo a livello globale tutte queste differenza, sarà possibile scongiurare gli scenari terribili e drammatici a cui stiamo assistendo oggi.