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Società | Maltrattamenti

A vanvera

Esercizio di stile su una lettera di accuse inviatami da un secentesco e un po' pavido mittente anonimo.

Chi maltratta deve accettare di essere maltrattato. Sono le regole del gioco. E se si vuole giocare occorrono delle regole. La settimana scorsa mi ha telefonato la mia collega Lisa Maria Gasser e mi ha detto: “Puoi passare dalla redazione? Ci sarebbe una lettera per te”. Una lettera per me? Ho chiesto come fosse fatta, quella lettera, se si riconosceva qualcosa, se c'era un mittente. Niente. La lettera – indirizzata a me, ma fatta pervenire alla redazione di Salto – non recava traccia di mittente. Sono quindi andato a prenderla e l'ho aperta subito. La missiva – scritta davvero male, cioè in un italiano raccapricciante, ma con molta probabilità opera di un cosiddetto madrelingua – conteneva essenzialmente una critica rivolta a un personaggio che non nominerò, ma l'autore ci teneva molto a coinvolgermi: io sarei stato infatti in qualche modo, e contro la mia stessa volontà, all'origine della fortuna di questo esecrando personaggio. Ho pensato a lungo se rendere nota la lettera, evidenziandone incongruenze e difetti di pensiero. Poi però ho perso la voglia. Mi sono piuttosto figurato il percorso che questo critico squinternato ha dovuto fare per arrivare a farmi sapere una cosa del genere: accendere un computer, mettersi a scrivere, stampare, uscire di casa, comprare un francobollo, imbucare la lettera e – soprattutto – attendere che io la ricevessi, qualche giorno più tardi. Buffo no? Oggi che basta trovare mezzo minuto per collegarsi a un social e mandare a quel paese chiunque non si adatti al proprio gusto, adesso che basta un clic per scaricare la propria rabbia e frustrazione su chiunque non sia di nostro gradimento, proprio io ho avuto la fortuna di trovare questo poeta del rancore, un po' troppo pavido per la verità, che si è trattenuto così a lungo prima di dirmi che sarei un “saputello toscano da vent'anni alle prese con un'opera di insultificio a vanvera”. Ecco. “A vanvera”. L'espressione è significativa. Ho trovato un'etimologia (fantasiosa, ma affascinante) che spiega quanto segue. Vanvera rimanderebbe ad un marchingegno in uso nel Seicento o nel Settecento presso i Veneziani: si trattava di un contenitore per i gas intestinali utilizzato da chi soffrisse di meteorismi incontrollabili, che permetteva di scaricare ed immagazzinare momentaneamente tali miasmi in un sacchetto di pelle, per poi liberarli successivamente, una volta non in presenza di altre persone. Ci si può immaginare qualcosa più “a vanvera” della lettera che ho ricevuto? Caro amico (presumo sia un amico), la prossima volta non aspettare così a lungo prima di maltrattarmi. Fatti coraggio, contattami subito e dai fiato al deretano senza alcun timore. Ti abbraccio forte.