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La memoria divisa

Lo storico Gian Enrico Rusconi parla degli azzardi dell’Italia nella prima guerra mondiale e della “sindrome Bismarck”.
Gian Enrico Rusconi
Foto: Fondazione Pellicani

Un’altra via non sarebbe stata proprio possibile? Tra le eredità lasciate dalla Grande Guerra e dal collasso dell’Impero asburgico vi fu un territorio, il Sudtirolo, destinato a rimanere sospeso tra l’italianizzazione forzata e il culto del tradizionalismo, schiacciato dalla logica e dalla retorica del nazionalismo. Uno sguardo al periodo 1918-1922 può offrire l’occasione di ripensare a un doloroso passato, smentendo il mito del vittimismo sudtirolese che dell’indubbia oppressione fascista ha fatto la propria bandiera. Può permettere di ripercorrere una lunga vicenda che dopo decenni di “disagi” e di pericolose derive ha finalmente portato a una convivenza apparentemente pacifica, rinviata troppe volte e che avrebbe – forse – potuto avere inizio già in quel lontano “tempo sospeso”.


“Die Zeit dazwischen | Il tempo sospeso”, a cura di Ulrike Kindl e Hannes Obermair, fa luce sugli anni 1918-1922 in Alto Adige/Südtirol. salto.bz pubblica tre interviste che il giornalista dell’ORF Patrick Rina ha realizzato per esso.


Patrick Rina: Prof. Rusconi, in tante città italiane è presente una via o piazza intitolata a “Trento e Trieste”. Quanto pesa ancora oggi l’eredità della Grande Guerra?

Gian Enrico Rusconi: Non credo che il comune cittadino italiano davanti ad una piazza o via “Trento e Trieste” abbia una qualche significativa reazione legata all’“eredità della Grande Guerra”. È un evento storico percepito ormai come remoto.

Lei ha definito l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 un “azzardo”. Quali furono i “giocatori d’azzardo”? Perché prevalse la linea degli interventisti?

Ho parlato di “azzardo del 1915” perché la decisione della guerra venne presa da una parte della classe politica a fronte di una popolazione sostanzialmente incerta. Il governo temeva che l’Italia restasse fuori da un evento decisivo per l’Europa – evento erroneamente giudicato facile da condividere. Gli interventisti e nazionalisti potevano contare solo sulla retorica delle “terre irredente”. L’azzardo consisteva anche nell’ignorare o sottovalutare l’impreparazione militare italiana, la durata e l’intensità del conflitto – di cui non si era percepita in Italia la gravità durante il periodo della neutralità.

A Roma, tuttavia, vi furono anche politici e ufficiali ligi al patto della Triplice Alleanza. Ha ragione Christopher Clark quando dice che – nel labirintico mondo della diplomazia europea – il marchingegno della guerra fu azionato da dei ‘sonnambuli’?

Non ho capito la fortuna della definizione di ‘sonnambuli’ con la quale Clark ha definito i diplomatici e i politici europei del 1914. Le grandi potenze europee avevano piani militari precisi e disponibilità all’attacco alla prima occasione favorevole. Caso mai si può parlare di una certa estraneità tra la classe diplomatica e quella militare a fronte di una classe politica incapace di svolgere il suo ruolo di guida. Grande quindi è stata la responsabilità dei politici che non hanno mai escluso la possibilità della guerra, immaginata ovviamente secondo i vecchi modelli ottocenteschi.

Con il Patto segreto di Londra, l’Italia si assicurò – a vittoria avvenuta dell’Intesa – l’annessione del Tirolo a sud del Brennero. Quali furono i progetti politici per questo territorio “in via di acquisizione”? Vi fu già allora l’idea di una snazionalizzazione forzata della popolazione di madrelingua tedesca?

Il Patto segreto di guerra di Londra è stato l’elemento decisivo per l’intervento dell’Italia. Ma irresponsabili sono state le promesse inglesi, tra cui l’annessione del Tirolo a sud del Brennero. Gli obiettivi di molti interventisti italiani erano più ragionevoli. Non ho elementi per dire se ci fosse un precoce progetto di una snazionalizzazione forzata della popolazione di madrelingua tedesca. Ritengo di no. Tale progetto è maturato nel corso del conflitto e soprattutto con la progressiva affermazione dei nazionalisti estremi, poi fascisti.

Orban, Höcke e Salvini non sono i nemici della democrazia nel senso che lo erano i nazionalisti e nazionalsocialisti tedeschi a fronte della democrazia weimariana

L’autunno del 1918 vide la fine del Reich guglielmino, l’eclisse della monarchia danubiana, il requiem del “mondo di ieri”. L’opinione pubblica europea come reagì a questa cesura? Vi fu la consapevolezza di vivere un cambiamento epocale?

Certamente “il requiem del mondo di ieri” è stato vissuto drammaticamente in Germania e in Austria. In Italia ci fu, almeno inizialmente, l’orgoglio della vittoria. Solo gradualmente si è diffusa l’idea della “vittoria mutilata”. Soprattutto nel corso della pace di Versailles.

Ad essere travolto dagli avvenimenti di quel fatidico autunno del 1918 fu anche la Sinistra, non solo quella germanica. Scheidemann proclamò la Repubblica democratica, Liebknecht quella socialista. La profonda crisi in cui versa la Sinistra di oggi e il suo autolesionismo a dir poco proverbiale affondano le proprie radici in questa battaglia fratricida tra moderati e radicali?

La sinistra italiana notoriamente fu contraria all’intervento del 1915, anche se gradualmente l’ala moderata si è sempre più identificata con i valori nazionali. Ma il conflitto tra socialisti moderati e radicali (poi comunisti) aveva altri motivi di antagonismo, legati al successo della rivoluzione leninista in Russia e quindi alle aspettative di una rivoluzione in Italia. La permanenza e ricomparsa del contrasto tra comunisti e socialisti dopo il 1945 è ancora legato all’affermazione del sistema sovietico e stalinista e del suo rifiuto. Ma nel frattempo sono intervenute altre esperienze, prima fra tutte la (comune) Resistenza e l’alleanza Nato.

Dopo il 1918 le forze conservatrici germaniche sognarono la restaurazione dell’elmo chiodato. Perché le Destre revansciste riuscirono a guadagnare terreno tra il popolo tedesco?

In Germania è stata molto popolare l’idea dell’ingiusto trattamento della Germania dopo il 1918 con la pace di Versailles, sinonimo di umiliazione dei tedeschi. Questo è diventato il Leitmotiv principale della destra. Su di essa si è costruito il successo del nazionalsocialismo anche se evidentemente metteva in gioco altri elementi come il razzismo e l’antimarxismo.

 

La fuga nel passato si manifestò anche in Sudtirolo, il primo incontro con “l’invasore” fu un vero e proprio shock. Quali furono gli errori commessi dai governi italiani nel primo dopoguerra, quali gli errori della rappresentanza politica sudtirolese? Ci sarebbe stata la possibilità di costruire un modello di autonomia all’interno dello Stato italiano?

Nel primo dopoguerra nel Sudtirolo i governi italiani hanno sbagliato nel sacrificare i loro principi liberali di rispetto della etnia e cultura locale, consentendo “la snazionalizzazione forzata” di cui si è parlato prima. Occorre però riconoscere realisticamente che la costruzione di un “modello di autonomia all’interno dello Stato italiano” così come lo intendiamo noi oggi era storicamente impensabile. Ma mi chiedo se da parte sudtirolese siano mai state avanzate controproposte realistiche oppure se lo shock per l’incontro con “l’invasore” rendesse inimmaginabile qualunque iniziativa di reciproca intesa.

La Germania sa di essere vulnerabile, non solo per l’ombra del suo passato, ma perché deve muoversi cautamente tra le grandi potenze

In Alto Adige/Südtirol non c’è ancora una memoria condivisa: l’interpretazione della storia dipende dalla propria prospettiva “etnica”. L’Italia vinse la guerra? Oppure ebbe semplicemente la “fortuna” di appartenere all’Intesa nel suo complesso vittoriosa? A Bolzano si sentono opinioni discordanti.

Capisco che in un libro dedicato al “tempo sospeso” sia centrale il tema della Grande Guerra. Ma faccio fatica a capire che la problematica dell’infelice rapporto attuale tra il Sudtirolo e l’Italia sia ancora riconducibile alla questione storica se “l’Italia vinse la guerra”. Ne prendo atto con un certo stupore. Come se fosse stato irrilevante tutto quanto è accaduto nel secolo che ci separa da quella guerra. Io comincerei a discutere, caso mai, a partire dagli accordi De Gasperi-Gruber. Ho vissuto parecchi anni a Trento, anche come direttore dell’Istituto storico italogermanico. Ricordo molto bene l’indifferenza reciproca tra trentini e altoatesini con alcuni episodi davvero sconcertanti. Basti dire che nel periodo della mia direzione dell’istituto abbiamo organizzato innumerevoli convegni e incontri di studio con i tedeschi e, più raramente, con gli austriaci sui temi più svariati. Nulla di simile si è verificato con i sudtirolesi – tanto meno sulla problematica di cui stiamo parlando. Naturalmente ci sono state eccezioni da entrambe le parti. Voglio credere che oggi la situazione sia cambiata.

Continuando sulla strada delle “due verità” Le faccio una domanda secca: l’annessione del Sudtirolo all’Italia fu un’ingiustizia?

Alla domanda secca replico con una risposta secca: l’annessione fu un grave errore politico.

Lei si è occupato della “Nazione plurietnica”. Secondo Lei l’Italia ha i presupposti per diventare una Nazione “di tutti”?

Il carente senso di unità nazionale – e quindi di senso civico – che è lamentato in Italia non è attribuibile a ragioni “etniche” in senso antropologico specifico, come può essere inteso per la popolazione sudtirolese. Le differenze tra Nord e Sud (tra settentrionali e meridionali per dirla un po’ grossolanamente) sono imputabili alle grandi differenze storiche, politiche e culturali – non propriamente ‘etniche’.

Mi chiedo se da parte sudtirolese siano mai state avanzate controproposte realistiche oppure se lo shock per l’incontro con “l’invasore” rendesse inimmaginabile qualunque iniziativa di reciproca intesa

Molti sudtirolesi di madrelingua tedesca non si sentono italiani perché non si identificano con uno stato che fondamentalmente giudicano ancora “straniero”. Quando il sudtirolese medio parla del resto del paese dice, anche senza malizia, “giù in Italia”. Questo sentimento non cambierà mai?

“Giù in Italia”, mi permetto di osservare che anche i trentini talvolta dicono così. È un modo per affermare il senso della propria ‘autonomia’ regionale, di cui i trentini (italiani) sono molto gelosi.

Ritorniamo al grande contesto europeo. Chi vuole comprendere la storia delle due guerre mondiali deve partire dal 18 gennaio 1871, ovvero dalla proclamazione dell’Impero tedesco nella galleria degli specchi di Versailles?

In effetti la proclamazione dell’Impero tedesco a Versailles è stato un provocatorio arrogante gesto politico, pagato duramente dall’intera Europa. Questo però non cancella singoli tentativi di reciproca intesa, di cui non si parla quasi mai. Sarebbe invece molto interessante esaminarli da vicino.

Secondo lo storico Hannes Obermair il trattato di Versailles del 1919 – per usare un linguaggio simbolico – fu lo schiaffo dato dalla Francia alla Germania per l’umiliazione subìta proprio a Versailles 48 anni prima. Hitler nel 1940 fece firmare l’Armistizio di Compiègne nello stesso vagone ferroviario in cui la Germania nel 1918 aveva dovuto accettare la capitolazione. La storia si nutre dunque di reciproche vendette?

Versailles e Compiègne: sì, la ricerca di luoghi-simbolo per i grandi eventi politici è un aspetto essenziale della memoria collettiva.

Irresponsabili sono state le promesse inglesi, tra cui l’annessione del Tirolo a sud del Brennero

La Germania, dopo il “secolo degli estremi”, non sembra aver trovato il suo ruolo sulla scacchiera della politica internazionale. C’è chi parla di un’egemonia celata, riluttante, vulnerabile. Quanto conta, per usare un termine da Lei coniato, la “sindrome Bismarck”?

In effetti oggi la Germania sembra stentare a trovare il suo ruolo nel sistema internazionale. Ma di fatto è la guida dell’Unione europea, avendo cura di associare a sé sempre la Francia. La classe politica tedesca evita accuratamente di usare per sé stessa il termine “egemonia”. O forse lo mimetizza con il suo atteggiamento che l’Economist anni fa ha definito “egemonia riluttante”. Ma la cancelliera Angela Merkel, che incarna perfettamente questo atteggiamento, ha definito la Germania come la “nazione di orientamento”. È un’espressione impegnativa ma sottile perché “l’orientamento” di cui parla non è sinonimo di “guida”. Talvolta per la verità la Merkel usa anche questo termine, dandogli però il significato di nazione che dà “il buon esempio”. Ma la Germania sa di essere vulnerabile, non solo per l’ombra del suo passato, ma perché deve muoversi cautamente tra le grandi potenze. Vorrebbe essere il campione del multilateralismo e della cooperazione universale in un mondo che si sta radicalizzando nelle sue differenze tradizionali. Ho parlato di “sindrome Bismarck” nel 2015, bicentenario della nascita del cancelliere di ferro, seguendo il dibattito in corso presso storici e scienziati di politica che stavano restaurando il discorso sulla Macht, la potenza politica, termine prima accuratamente rimosso. Oggi la Germania si considera ancora come “la potenza di centro” consapevole della sua forza ma anche della sua vulnerabilità e quindi garante dell’equilibrio del Continente europeo. Anzi spesso parla a nome del Vecchio Continente.

Forse, oltre alla “sindrome Bismarck”, la Germania del 2020 è affetta dalla “sindrome Weimar”. Basandoci sulle Sue analisi possiamo sintetizzare la parentesi weimariana in due concetti chiave: crisi di sistema e sconfitta operaia. Pecco di eccessivo “parallelismo” se ravviso delle inquietanti similitudini tra gli anni di Weimar e l’Europa di Orban, Höcke e Salvini?

L’evocazione della “sindrome Weimar” non è una caratteristica specifica della Germania di oggi. È una costante della storia tedesca del dopoguerra. Ma quella indimenticata esperienza traumatica della democrazia weimariana è evocata spesso a sproposito di fronte ai problemi odierni. Si dimentica che la cultura politica dominante a Weimar non è mai stata democratica nel senso che noi diamo oggi a questo concetto. Le crisi che noi individuiamo – con buone ragioni – nelle democrazie contemporanee vanno lette, interpretate e affrontate nella loro nuova paradossale originalità. Orban, Höcke e Salvini non sono i nemici della democrazia nel senso che lo erano i nazionalisti e nazionalsocialisti tedeschi a fronte della democrazia weimariana. Pretendono di muoversi all’interno e magari in nome della democrazia. In questo senso il termine di “populismo” oggi usato e abusato genericamente andrebbe preso e studiato.

 


 

GIAN ENRICO RUSCONI
Nato nel 1938. Professore emerito di Scienze politiche all’Università di Torino, Visiting Professor presso la Freie Universität Berlin. Dal 2005 al 2010 direttore dell’Istituto storico italo-germanico (Isig) di Trento. Il principale campo di ricerca è lo studio della società tedesca e della storia della Germania nel Novecento. Pubblicazioni (tra le altre): L’azzardo del 1915. Come l’Italia decide la sua guerra (2009), 1914: attacco a Occidente (2014), Egemonia vulnerabile. La Germania e la sindrome Bismarck (2016), Dove va la Germania? La sfida della nuova destra populista (2019).