Cultura | Rock

Perchè lui è Bob Dylan

Suona, non proferisce una parola, e chi è con lui lo segue senza se e senza ma. A settantasette anni non è più un ragazzino, a settantasette anni è ancora lui, il genio.
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.

Le nove e un minuto. Si abbassano le luci. Non è questo né il momento né il posto per i ritardatari. Un brivido mi sale lungo la schiena. È lui: i passi sono incerti, lentamente si gira verso il pubblico; mi sembra abbozzi un sorriso. Si siede dietro al grande pianoforte nero, quasi volesse nascondersi. Esordisce con ‘I tempi stanno cambiando’, con quel suo modo di fare da antidivo e al tempo stesso da inarrivabile star, con quella sua presunta timidezza che si mischia a una presunta altezzosità: questo è sempre stato il carattere del menestrello di Duluth. Per certi versi sembra che i tempi per lui non stiano cambiando. Bobby non si presenta a Stoccolma a ritirare il Nobel a causa di ‘impegni precedenti’; Bobby riceve la ‘Medal of Freedom’ da Obama, contraccambiando il gesto con una pacca sulla spalla: al Presidente degli Stati Uniti d’America! Bobby si presta a una pubblicità di intimo femminile, ed è ancora Bobby che si mette personalmente al volante di un’auto da reclamizzare. Perché lo fa? Servile dedizione alle mode? Per soldi? Macché. Discorsi inutili: lui è Bob Dylan. 

Siamo nel ‘Parco della Musica’, splendida struttura della capitale. Il pubblico è vario, un’atmosfera ovattata, pochi ventenni, in maggioranza ci siamo noi, tra i cinquanta e sessanta, e qualche veterano. Ho la fortuna di essere in seconda fila, lui è davanti a me a pochi metri di distanza. Tiene gli occhi appena socchiusi. I musicisti non lo perdono mai di vista. Il capo carismatico non fa prove, non guarda gli altri. Sono loro che devono seguirlo. Decenni fa i componenti del suo gruppo impazzivano; ora si sa: con lui è così. 

I brani si susseguono come un’onda in piena. Ogni tanto si alza dal piano, suonando in piedi. Gli stivali da cowboy tengono sempre il ritmo, i folti capelli oscillano appena. Non proferisce parola, per tre volte si avvicina claudicante al microfono in mezzo al palco. I brani sono di una dolcezza infinita, la voce non è cambiata negli ultimi decenni. È cambiato il suo modo di muoversi, a settantasette anni non è più un ragazzino. Ma il pathos che riesce a metterci in ‘Melancholy Mood’ è superiore a quello di tanti anni fa. Sì, me lo ricordo, tanto, tanto tempo fa a Bolzano. Delusione totale. Ero un ragazzino, mi aspettavo una star che coinvolgesse il pubblico, che mostrasse empatia, o almeno simpatia. Da quella volta, credo siano passati venticinque anni, non l’ho più ascoltato, mai più. Talmente tanti ero amareggiato, avvilito, che di lui non ne volli più sapere. Poi, l’anno scorso, ho capito. Non ho capito lui, ho capito me. E abbiamo fatto pace. Il genio indiscusso, poeta contemporaneo tra i più importanti, non può essere giudicato. Può solo essere amato.

Mi ero preparato al concerto, conoscevo la scaletta; che lui ha ribaltato in corso d’opera. Mi sarebbe piaciuto ascoltare ‘Desolation Row’ nella sua forma originale, o anche ‘Blowin’ In The Wind’ -come da programma- anche appena abbozzata. Ma è inutile, lui non dà mai al pubblico quello che il pubblico vuole. D’altronde lui è Bob Dylan. Ha sempre fatto quel che ha voluto. Era il 1965 quando esordì al famoso concerto di Newport scandalizzando i puristi del folk. L’icona del country aveva colpito tutti con una sciabolata elettrica; ed era salito sul palco con un giubbotto di pelle. Blasfemia totale! Ora, nuovamente, come da ragazzino prima della nostra rottura, amo Dylan. Incondizionatamente. Ora ho finalmente compreso che lui è un genio. Vive in una sua dimensione, in uno stato di perfezione che solo lui capisce. 

Il concerto a Roma è una unica grande canzone che suona dall’inizio alla fine come una lunga poesia. Le luci sono soffuse, è tutto molto scuro, i musicisti vestono di nero, la scenografia è scarna. Bobby è un puro, non ha bisogno di artifizi. Non vuole grandi rappresentazioni teatrali e non vuole accompagnamenti ritmici dal pubblico. Lui non è un juke box. E non vuole essere un nostalgico. Lui è lo spirito del tempo invaso d’amore. Forse è per questo che ‘Love Sick’, ‘malato d’amore’, gli riesce in modo così unico e perfetto. È una voce rauca, lenta la sua, che appartiene a un animale che soffre. È la storia drammatica e viva di un amore che ha gli ultimi spasmi di vita mentre sta morendo. Indaga nel dolore quest’uomo misterioso che ancora fa la storia della musica. Mentre lo ascolto, il tarlo che rode nella mia testa scava ancora di più: come sopravvivere in modo più o meno decente all’attuale situazione culturale? Lui, a differenza di tanti, sa riconoscere la bellezza, la diffonde, e sarà lui a sopravvivere al mondo contemporaneo: e questa consapevolezza mi è di conforto. Ancora una volta lui indica una strada: riconoscere la bellezza, tenersela stretta e andare avanti.

Dopo il bis, per un tempo brevissimo ma che non dimenticherò mai più, sembra mandare un bacio al pubblico. Sono interdetto, e un po’ commosso. Abbozza pure un sorriso. E stavolta lo dedica a me.