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Cazzo

Decontestualizzare, annullare i limiti del mondo reale, usare l’ironia per lanciare messaggi. Ecco i concetti chiave emersi dall’intervista con Fabian.
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Foto: Fabian Mosele

Quando ho guardato per la prima volta i lavori di Fabian Mosele, un giovane creativo classe 1998 da poco laureatosi alla Facoltà di Design e Arte della Libera Università di Bolzano, mi sono dovuta confrontare con una forma d’arte per me non immediata. Sul suo sito, Fabian si definisce un “3D animator, designer e digital surfer”, tutti termini vicini all’ambito tecnologico, ma apparentemente lontani da quel campo artistico i cui strumenti di lavoro sono tangibili – siano essi carta, pennelli, tempere, plastica, materiale di recupero – e non algoritmi.

Quando l’arte gioca con gli algoritmi

Per questo motivo la chiacchierata con Fabian è cominciata chiedendo di descrivere i suoi lavori, progetti che giocano con la possibilità che offre il linguaggio tecnologico, che si interessano di prodotti che vengono dal digitale e che veicolano immagini digitali facendole abitare in nuovi spazi virtuali tridimensionali.

salto.bz: In che termini racconteresti il tuo lavoro artistico?

Fabian Mosele: Se dovessi dare una definizione, direi che sperimento con nuovi strumenti le potenzialità della cultura dell’internet. Mi approprio di un contenuto già esistente per creare qualcosa di completamente nuovo. In poche parole la mia è un’operazione di distorsione della realtà.

 

Come è possibile distorcere la realtà attingendo dal digitale? Detto così sembra di assistere al paradosso per cui con realtà si riconosce il mondo digitale e non quello reale…

Attraverso le immagini! Zuckerberg generator e Fabian generator sono due esempi perfetti. Utilizzando un dataset di più di mille immagini di Zuckerberg e di oltre duemila foto di me stesso, ho allenato l’algoritmo StyleGAN2 in modo che generasse in autonomia delle nuove immagini riconoscibili ma non identiche. Dando in pasto all’algoritmo migliaia di foto dello stesso volto ho ottenuto delle immagini che per quanto simili sono perturbanti.
Nel caso di Fabian generator l’effetto uncanny è minore perché il dataset era composto di fotografie che mi sono fatto tutti i giorni nella stessa posizione per più di cinque anni ottenendo così del materiale perfetto per l’algoritmo che per sua natura è privo della sensibilità necessaria per riconoscere eventuali modifiche, come un differente taglio di capelli o una diversa inclinazione della faccia.

Sembra dunque che tu ti stia prendendo gioco del linguaggio tecnologico: l’effetto perturbante è ottenuto dalla difficoltà dell’algoritmo di creare copie uguali se le immagini originali non sono identiche le une alle altre. Il linguaggio della macchina spesso conosciuto come perfetto si dimostra dunque perfettibile. Quali altri progetti smascherano l’imperfezione tecnologica?

Direi Copyright Proof Cake, un progetto universitario il cui tema era “al limite”. Quando mi sono approcciato a questo lavoro, era in atto la riforma dell’articolo 17 in materia di copyright che ha introdotto l’obbligo per le grandi piattaforme del web di installare sistemi di controllo per bloccare la condivisione di contenuti protetti e sui quali gli utenti non detengono diritti. Riflettendo su questa normativa, mi sono interrogato sui limiti degli algoritmi di riconoscere immagini protette. Mi sono dunque immaginato un’azienda che produce e vende torte a tema cartoon la cui decorazione di glassa di Elsa, per esempio, è così deformata da non essere riconosciuta dall’algoritmo.
Mi sono domandato fino a che punto è possibile usare qualcosa creato da qualcun altro. Secondo me tutto dipende dal significato del lavoro: se una creazione nasce da un lavoro altrui ma è poi riproposta con un valore differente si è di fronte a qualcosa di completamente nuovo, totalmente originale.

 

Sbaglio o quello dell’appropriazione è un tema ricorrente nei tuoi progetti?

È vero, mi piace appropriami di qualcosa operando una decontestualizzazione totale. Penso, per esempio, al mio Dem Land Südtirol die Treue. Per un corso universitario dovevo creare un souvenir legato al territorio dell’Alto Adige e ho pensato che fosse l’occasione ideale per dare forma al mio desiderio di sperimentare l’arte del remix. Ho creato un video musicale dove immagini della tradizione locale sono accompagnate da una traccia creata con la tecnica del plunderphonic: la traccia finale è frutto della distorsione della tipica canzone tirolese Dem Land Tirol die Treue. Il modo in cui ho montato il video e la scelta di fondere i suoni della fisarmonica tradizionale e dei campanacci con quelli elettronici hanno generato una riflessione tra il rapporto locale-globale, tradizione-modernità di un luogo e della gente che lo abita.

Per qualche anno, la tua passione della manipolazione digitale è stata accompagnata da un progetto cartaceo. Mi riferisco a CAZZO magazine, la rivista indipendente che hai ideato e condotto dal 2018 all’autunno 2020.

Ho partorito l’idea di CAZZO magazine dopo il naufragio di un’altra idea che avrebbe dovuto portare me e due mie amiche alla pubblicazione di FIGA magazine. A poche settimane dall’uscita della rivista, le mie amiche si sono tirate indietro e io ho reagito creando qualcosa di mio mantenendo l’identità e la riconoscibilità del progetto originario. La determinazione che mi ha portato a fare una nuova rivista ha ispirato il nome. “Cazzo” come termine usato in un’esortazione: fallo cazzo!

 

Che cosa ha rappresentato per te il magazine?

Uno spazio aperto a chiunque volesse mostrare le proprie creazioni. Dal dicembre 2018 ho progettato quattro edizioni ognuna delle quali aveva un tema generale da rispettare. Senza alcuna selezione, ho accolto contributi in qualsiasi formato: collage, illustrazioni, poesie, articoli, foto. Volevo che le mie compagne e i miei compagni avessero un medium fisico dove mostrare le proprie creazioni senza dover limitarsi a Instagram. Posso dire che CAZZO ha risposto all’esigenza di restituire una dimensione del reale.

 

E oggi che fine ha fatto CAZZO magazine?

Nella primavera 2020 sarebbe dovuta uscire la quinta edizione stampata, ma la chiusura delle officine dell’università mi ha obbligato a piegare verso il formato digitale. Nel frattempo mi sono accorto che quella dell’editoria non è la strada che voglio intraprendere così ho ceduto il progetto a delle persone che si sono mostrate interessate a portarlo avanti.

Quindi qual è la strada che vorresti continuare a percorrere?

Quella dell’animazione 3D! Sono affascinato dalla possibilità di creare qualsiasi cosa senza dovermi adattare ai limiti del mondo reale.

 

Quale dei tuoi lavori ti rappresenta maggiormente?

Smart You, la mia seria animata in 3D composta da cinque episodi il cui tema è il limite degli algoritmi. Mostrando come gli algoritmi che inevitabilmente condizionano parte della nostra vita possono fallire, con questa serie vorrei che la generazione dei giovani capisse meglio l’attuale era digitale. Utilizzo l’ironia per avvertire circa il pericolo della glorificazione della tecnologia. Demistifico il mito della tecnologia sottolineando come il campo di azione sia necessariamente dicotomico: perfezione o fallimento totale.

Arrivati a questo punto mi domando quale sia il minimo comune denominatore di tutti i tuoi lavori.

L’ironia. Essa rappresenta lo strumento con cui mi approccio alle cose della vita così come a quelle dell’arte. Non si tratta però di un’ironia neutra: porta sempre con sé una valenza critica che può essere colta o meno in base al piano di interpretazione adottato dai fruitori dei miei progetti.