Società | Scenari

Le invasioni digitali

Intervista a Flavio Pintarelli sulla divulgazione culturale nell’era dell’esuberanza tecnologica.

Flavio Pintarelli, classe 1983, si definisce sul suo blog (blog.flaviopintarelli.it) “semiologo dilettante, spettatore ostinato, saggista crossmediale, teorico poststrutturalista”. Ha un percorso di studi umanistici e una specializzazione in Scienze della comunicazione. Si avvicina quasi per caso al mondo della cultura digitale e ne fa presto un lavoro. Da quattro anni è impiegato nell’azienda “Genetica” di Laives dove si occupa di comunicazione digitale, social network, progettazione di siti internet, copywriting. È tra i primi utenti di Storify in Italia e precursore del live tweeting; ha maturato esperienze nel campo della promozione culturale, organizzando rassegne cinematografiche, conferenze e seminari. Fra le sue pubblicazioni Stupidi giocattoli di legno, saggio antropologico sullo skateboarding. È autore e conduttore di Hashtag, aggregatore radiofonico di cultura digitale, un programma radio curato da Paolo Mazzucato per la sede Rai dell’Alto Adige.

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La divulgazione culturale nell’era dell’esuberanza tecnologica, cosa succede quando i linguaggi e le modalità di creazione e di trasmissione sono in costante divenire?
Il cambiamento epocale c’è stato quando l’accesso al web è diventato più facile. Chiunque si iscriva a un social network diventa oggi, di fatto, l’editore di se stesso, cosa che sta modificando notevolmente il panorama culturale e sociale in cui viviamo. È un cambiamento che facciamo ancora fatica a comprendere fino in fondo perché si sta riscrivendo quello che è il nostro concetto di sfera pubblica. Ciò che una volta era privato oggi è pubblico, Facebook ad esempio è un luogo pubblico a tutti gli effetti che però utilizza un lessico privato. Abbiamo spazi e linguaggi diversi, e inoltre è aumentata a dismisura la quantità di materiale prodotto, per cui bisogna investire più tempo per reperire contenuti di qualità.

Questo vuol dire anche che se la rete è una comunità libera dove chiunque può scrivere diventa più complicato per il giornalismo di qualità distinguersi?
Credo che qualsiasi prodotto di buona qualità riesca alla fine a trovare il suo spazio e il suo pubblico. La rete, poi, è fintamente libera, risponde a dei principi ordinatori e a dei soggetti che la controllano: ci sono degli algoritmi che decidono cosa rendere visibile e cosa no, cosa è attendibile e cosa non lo è, e ciò viene comunque, sempre stabilito da un fattore umano. Il buon giornalismo fa più fatica ad emergere perché deve competere con una quantità molto alta di informazioni di bassa qualità; eppure probabilmente la rete ha offerto addirittura più possibilità al giornalismo di quante ne avesse dato il vecchio panorama editoriale. C’è anche da dire che la mancanza di fiducia nei confronti dei giornali, a cui il web ha dato voce, non è solo colpa del fatto che tutti possono dire la loro sulla rete, ma dipende anche dalla deontologia di alcuni quotidiani di grande tradizione che spesso risulta opinabile, come nel caso di notizie “bufala”, pilotate, o di pubblicità mascherate da notizie.

Quali dovrebbero essere, allora, le piattaforme e i modelli più idonei per garantire una vita longeva alla cultura in questa globalizzazione della conoscenza?
Penso che ogni piattaforma abbia un proprio linguaggio, comprenderne le potenzialità e le specificità permette di ottenere contenuti di grande qualità. Molto interessante, ad esempio, è il Facebookmentary, ovvero la ricostruzione di un determinato evento attraverso la timeline, una vera e propria linea del tempo.

Si dice che la rapidità di comunicazione che caratterizza il web sia anche sinonimo di approssimazione, e che quindi per la diffusione della cultura sia più adatto ed efficace il cartaceo, è così?
La nostra è una cultura pienamente digitale, anche quando pensiamo o scriviamo su carta lo facciamo in modo digitale, perché questa ormai è la nostra cultura. Dobbiamo imparare a comprendere che il web sta cambiando le nostre strutture cognitive, percepiamo ed esperiamo le cose in maniera diversa. Sono sicuro che il linguaggio principale della cultura, oggi, non sia quello “tipografico” ma piuttosto il codice, e prima ce ne rendiamo conto meglio è per tutti.

Le istituzioni culturali tradizionali, come ad esempio i musei, come si rapportano con la novità della comunicazione social?
C’è un certo vivace interesse nei confronti di questi linguaggi, in giro per il mondo esistono diversi soggetti museali che fanno uso di una buona comunicazione digitale. In Alto Adige i musei hanno una comunicazione social fatta “a regola d’arte”, in questo ambito, però, non si sono visti finora esempi particolarmente innovativi, tentativi di sperimentazione o piattaforme all’avanguardia.

Quanto è entrata la comprensione digitale nelle redazioni culturali?
Le cose più interessanti oggi si trovano fuori dalle redazioni tradizionali per un motivo che è quasi un assioma: più è grande un’organizzazione e più fa fatica a recepire il cambiamento. Posso immaginare che sia come vivere ai tempi della Rivoluzione industriale, solo che allora c’era - per dire - una novità alla settimana, oggi c’è probabilmente una nuova piattaforma, una nuova tecnologia, un nuova idea ogni mezz’ora. Credo che a un certo punto si raggiungerà un profilo di scorrimento tale che ci permetterà di fermarci, almeno per un po’, ma per ora continuiamo a correre.

Dunque il futuro sarà composto dai rimpiazzati dalla tecnologia e da quelli che le sopravviveranno per spiccato spirito di adattamento?
Oggi c’è la tendenza ad automatizzare tutto ciò che può essere automatizzato e questo incide di fatto sulla ridistribuzione della ricchezza: più una società è automatizzata e meno lavoro c’è, e quindi aumenta anche il conflitto sociale. Il rischio che chi “comanda le tecnologie” sopravviva a un mondo di persone che invece da quelle tecnologie verranno rimpiazzate c’è, e il problema, a questo punto, diventa strettamente politico.

Parliamo di “Hashtag”, il suo programma radiofonico, cosa significa parlare di cultura nella sua veste digitale alla radio, oggi? E soprattutto, funziona?
Significa aprire uno spazio di divulgazione culturale che vada oltre il sensazionalismo più superficiale per trattare temi di una certa complessità come l’open source o l’hacking con un occhio puntato verso la nostra realtà provinciale. Sembra che l’idea abbia funzionato bene, non so se ci sarà una terza stagione, in ogni caso è stata un’esperienza entusiasmante. Quest’anno, poi, il progetto è stato particolarmente interessante perché agli ambiti divulgativi abbiamo affiancato quelli narrativi, raccontando storie di cultura digitale. 

Come giudica questa tendenza a radicalizzare il dibattito sui social network?
Credo che ci sia un problema nel nostro modello dialettico, modello che negli ultimi vent’anni non si è sviluppato sul web ma in televisione con il talk show, il regno dove chi parla più forte e chi sovrasta gli altri, è visibile e quindi esiste. Questo modello dialettico è quello che abbiamo oggi e che sui social network trova un terreno culturale fertile, con la differenza che qui tutti hanno più o meno la stessa visibilità.

Sui social network i grandi eventi vengono spesso manipolati come fossero un’appendice della propria esistenza, come nel caso dello slogan onnipresente “je suis Charlie” dopo l’attentato di Parigi o del filtro arcobaleno sulla foto profilo di Facebook dopo la legge sui matrimoni omosessuali negli Stati Uniti, è una deriva preoccupante, questa, secondo lei?
I social sono strumenti di costruzione della propria identità. Utilizzare un simbolo significa aderire idealmente a tutto l’insieme di valori che esso rappresenta. I grandi eventi sono, inevitabilmente, momenti che definiscono l’identità; quando c’è stata la strage di Charlie Hebdo, per esempio, ogni spazio di critica possibile è stato soppiantato da un unico messaggio costante, quello di “je suis”, e cioè “io sono questo e quindi non qualcos’altro”. Ogni volta che affermiamo che siamo una cosa, e una soltanto, ci troviamo in un momento totalitario e pericoloso, e questa sì, è una tendenza inquietante.

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L'intervista a Flavio Pintarelli è stata originariamente pubblicata sull'edizione 2014 di Scripta Manent, l'annuario dell'Ufficio Cultura Italiana della Provincia di Bolzano. La parte grafica del volume è stata realizzata da Clab. La parte giornalistica è stata coordinata da Salto.bz

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Massimo Mollica Dom, 10/11/2015 - 22:31

Mi viene da ridere perché ebbi modo di avere una specie di "conversazione" con lui tramite twitter. In realtà ci fu un batti e ribatti un po' puerile ma che ci può stare, e comunque civile, anche se acceso. Risposi a un suo amico sulla questione Benko (che ricordiamo ha rovinato per sempre la comunità bolzanina) e venni trattato come un "pezzo di merda qualsiasi". Poi io sbagliai perché li accusai di fascismo. (Non sapevo che fossero grillini) ma comunque sbaglia sia nel tono che nel' analisi.
Il bisogno di comunicazione è insito nel DNS si ogni essere vivente. A uno sviluppo nelle telecomunicazioni è corrisposto un ampliamento della platea potenziale con la quale poter comunicare. Noi apparteniamo all'era digital/mobile. E quest' epoca nasce assieme a quello che noi chiamiamo comunemente INTERNET. In principio c'era ARPANET, quindi vennero le BBS, e successivamente i protocolli che noi conosciamo, in primis il TCP/IP. Quindi arrivò IRC e nacque la chat! Parallelamente c'erano le mailing list e i newsgorup. Quindi l'evoluzione portò a ICQ e MESSANGER (instanting messenger) . Finalmente, assieme all'evoluzione del web, spopolò il BLOG (al quale io sono affezionato). E quindi una sorta di blog più multimediale. Ovvero MYSPACE, quindi FACEBOOK e TWITTER. (la multimedialità si è spinta oltre, pensiamo alle foro con INSTAGRAM.
Ma il punto non è questo. Questi sono solo strumenti e sono proprio curioso di capire cosa ci aspetta il futuro.

IL punto è un altro! Non sono gli strumenti che influenzano l'essere umano (e se lo fanno succede solo in minima parte) ma altre variabili. E io l'ho capito nel dibattito politico italiano, o nei commenti su facebook, ma anche in questo sito, o nella conversazione avvenuta su twitter con l'intervistato (che non voleva assolutissimamente le mie motivazioni sapere perché sulla riqualificazione di via Alto Adige).
Oggi, assistiamo preponderantemente al "ME NE FREGO" pensiero. Intendiamoci, c'è sempre stato, ma in minima parte. E oggi particolarmente in Italia. Il "ME NE FREGO" pensiero è quello che, per esempio, abbinato a una sottocultura da bar, porta a insultare nei commenti su Facebook. O porta, nei dibattiti politici, a parteggiare per una parte con un tifo da stadio, fregandosene del bene della nazione. IL "ME NE FREGO" è lo stesso, dei militanti di Casa Pound, di chi ha militato in politica per anni, e anche dei grillini, che assurgono ai migliori della società. Il "ME NE FREGO" pensiero non esclude a priore l'analisi (che comunque in Italia è poca, anche se ammetto che su SALTO.BZ ce n'è parecchia, per fortuna!) ma elimina a priori ogni possibilità di dibattito e confronto. La mia ragione è migliore della tua e quindi me ne frego della tua opinione!
Al "ME NE FREGO" pensiero siamo tutti influenzati io in primis. Solo che umanamente dovremmo combatterla. E io penso in primis con la cultura, ma anche sforzandoci di dialogare e confrontarsi con chi la pensa diversamente da te. Facendo proprio quel caro concetto/sentimento portabandiera di Don MIlani (a me caro): I CARE!

Dom, 10/11/2015 - 22:31 Collegamento permanente