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Politica | Avvenne domani

Il mostriciattolo

Elezioni in vista e torna, per i giornalisti ma soprattutto per i cittadini/elettori, l'incubo della "par condicio".

A meno di due mesi, ormai, dalle elezioni politiche, torna di attualità, come sempre in queste occasioni, il dibattito sulla scarsissima qualità della comunicazione politica e dell'informazione elettorale offerta in Italia ai cittadini che si vorrebbero ben disposti a recarsi alle urne.

Uno dei motivi, forse quello principale, di questa situazione è costituito dal fatto che, per larga parte, questa comunicazione e quest'informazione avvengono ancora, come confermano alcune recenti indagini statistiche, attraverso il mezzo televisivo e che questo è dominato, in questo periodo più che in altri, da una delle peggiori normative che sull'argomento si possono riscontrare: quella sulla cosiddetta "par condicio".

Si tratta di una legge, approvata dall'anno 2000, che, all'articolo 1, così recita: "La presente legge promuove e disciplina, al fine di garantire la parità di trattamento e l'imparzialità rispetto a tutti i soggetti politici, l'accesso ai mezzi di informazioni per la comunicazione politica". Questo incipit dice già tutto. Invece di preoccuparsi, come dovrebbe fare una qualunque buona legge sulla comunicazione in tempo di elezioni, di garantire ai cittadini/elettori un'informazione ampia, approfondita, senza zone d'ombra sui programmi e sui candidati delle singole forze politiche, la legge si preoccupa esclusivamente di garantire a queste ultime un accesso paritario alle fonti di informazione.

In realtà si tratta di una legge-mostriciattolo, partorita dal ventre del ben più grosso e temibile mostro costituito dal colossale conflitto di interessi che vede, sia pur in modo diverso e con un diverso percorso storico, i partiti politici come azionisti di riferimento dell'intero panorama radiotelevisivo italiano.

Per comprendere appieno come è nata questa pessima normativa occorre tornare indietro al 1994, quando, dopo l'improvviso sfasciarsi della Prima Repubblica, di fronte alla prospettiva di una vittoria del centro-sinistra nelle prime elezioni basate sul sistema maggioritario, l'allora Cavaliere del lavoro Silvio Berlusconi annuncia, utilizzando una celebre e fortunata metafora manipolativa, di scendere in campo con una squadra di "azzurri" è una formazione chiamata Forza Italia.

Si prospetta in quel momento, in tutta la sua gravità, un colossale conflitto di interessi, essendosi candidato alla guida del paese un imprenditore cui fanno riferimento ben tre reti televisive che coprono già da tempo almeno la metà del settore. In nessun paese di solite tradizioni democratiche una mossa di questo genere sarebbe stata consentita. In Italia invece le proteste si riducono a qualche isolato mugugno. Ad assistere passivi sono in particolar modo gli esponenti di quel centro-sinistra che, più di altri, avrebbero dovuto avere un interesse vivo e immediato a bloccare l'intera operazione, imponendo rapidamente norme che obbligassero Berlusconi a cedere il controllo del suo impero mediatico (sul serio e non con vendite burletta al fratello come avvenuto poi con il quotidiano Il Giornale) oppure a rinunciare alla propria carriera politica.

Nulla di tutto questo avvenne per un paio di motivi almeno. Il primo riconducibile alla disastrosa sottovalutazione con la quale i leader del centro sinistra di allora, alcuni dei quali continuano ad essere sulla breccia politica ancora oggi, guardarono alla discesa in campo del Cavaliere, visto come una sorta di innocuo sbruffone, pieno di soldi ma privo di carisma politico e destinato, al più, a dividere maggiormente il campo avverso. Una cecità politica dalla quale certi leaders della sinistra paiono non essersi liberati nemmeno dopo un quarto di secolo di amare batoste. Il motivo più importante, però, era un altro. Se avessero alzato la barriera del conflitto di interessi davanti alla Mediaset del Cavaliere, costoro avrebbero corso il rischio più che fondato vedersi a loro volta imputare un conflitto non meno clamoroso: quello derivante dalla lottizzazione e dalla spartizione partitica della Rai.

Ho raccontato quella storia in un articolo su Salto, nel quale rievocavo la catena di scelte politiche gravi e ingiuste che portò, da un lato, a permettere che Berlusconi conquistasse senza colpo ferire il monopolio dell'emittenza televisiva privata e dall'altro a sottomettere puntualmente la Rai, con la famosa riforma del 1975, al controllo dei partiti politici, saldamente insediati con i loro rappresentanti nel consiglio di amministrazione dell'azienda e a tal punto sfrontati da farsi pubblicamente editori di riferimento delle singole testate giornalistiche, televisive e radiofoniche, che da quella riforma erano nate.

A poco valgono le obiezioni di coloro che ricordano quella seguita alla riforma come una delle migliori stagioni dell'emittenza pubblica in Italia, affermando che le nuove testate e le nuove reti furono gestite da personaggi di enorme caratura culturale, da giornalisti di grande professionalità. Non bastano le immagini di un Paolo Grassi, di un Sergio Zavoli o di altri illustri protagonisti di quella stagione, per cancellare il dato fondamentale che a tutto ciò era sottostante. I partiti, con la trimurti DC, PSI, PCI in primo piano, avevano messo le mani sul servizio pubblico radiotelevisivo e per nulla al mondo avrebbero accettato di fare un passo indietro liberando l'azienda dalla loro presenza e restituendola ad un'indipendenza operativa dal Governo e dal sistema delle forze politiche che era e che resta ancor oggi un presidio politico fondamentale per una democrazia davvero compiuta.

Così il colossale conflitto di interessi berlusconiano fu lasciato intatto, con il risultato che vincendo le elezioni, il Cavaliere si trovò anche nella condizione di poter mettere le mani su una parte non indifferente dell'emittenza pubblica, dopo aver fagocitato quella privata. La dura batosta convinse il centro-sinistra che qualcosa andava fatto per frenare il dilagare di questo novello Attila delle antenne, ma di affrontare seriamente il nodo del conflitto di interessi non se ne parlava neppure. Così, quando nel 1996, grazie all'Ulivo di Prodi, il centro-sinistra tornò al governo, i solerti pensatori di quella parte politica si misero al lavoro per trovare un modo di sbarrare la strada all'imperatore dell'etere. Ci misero quattro anni, ma finalmente, quando già ormai si approssimavano le nuove elezioni politiche del 2001, la grande legge anti-Berlusconi fu approvata. Era quella sulla par condicio e mai come in questo caso vien buono il detto veneto "Xe pèso el tacòn del buso". Nel tentativo di arginare la straripante presenza del Cavaliere e dei suoi scudieri, la legge impone tutta una serie di vincoli alla comunicazione politica nelle settimane immediatamente precedenti la consultazione elettorale. In pratica diventa quasi impossibile, soprattutto per i telegiornali e dei giornali radio del servizio pubblico, occuparsi di cronaca politica privilegiando il contenuto e l'importanza delle notizie, rispetto alla militanza politica di questo o quel soggetto.

Il principio fondamentale è che occorre assicurare pari minutaggio a tutti i protagonisti della contesa elettorale. Si tratta di una norma che, astrattamente, può sembrare più che giusta, ma che, calata nella pratica di una campagna elettorale, diventa una rete a maglie strettissime nella quale restano impigliati il dovere dei giornalisti di raccontare ciò che succede e l'aspirazione degli elettori a farsi spiegare realmente quali sono i programmi dei partiti e dei candidati che si troveranno poi sulla scheda elettorale da mettere nell'urna.

Basti pensare, solo per fare un esempio, al fatto che in tutte le circoscrizioni elettorali ci sono liste e candidati che appartengono forze politiche che detengono quote rilevanti di potere in quegli stessi territori e che quindi, anche in campagna elettorale, continuano a fare, bene o male, il loro mestiere di amministratori, prendere decisioni, a fare scelte importanti sulle quali i cittadini dovrebbero essere informati nel modo più completo. Poi ci sono partiti e candidati che cercano, in ogni modo, di salire l'erta china che porta alla conquista del consenso elettorale ed infine ci sono, sempre, liste che si presentano solo come atto formale, magari per rastrellare qualche consenso da far confluire, a seconda delle normative vigenti, in un serbatoio nazionale o, più semplicemente, per far sapere di esistere, ma poi della campagna elettorale vera e propria si disinteressano totalmente. Eppure, secondo la legge, a queste forze va garantito lo stesso identico spazio che viene dato a tutte le altre. Si tratta, in sostanza, di capovolgere tutte le regole del buon giornalismo e di ridurre gli spazi informativi o di comunicazione politica ad un modello aritmetico nel quale contano solo i minutaggi e non gli argomenti.

Questa stessa filosofia della spartizione aritmetica degli spazi trova la sua sublimazione ideale nel modello di tribune elettorali. Che avesse voglia di cercare sul Web o negli archivi della Rai le trasmissioni della vecchia tribuna elettorale, quelle codnotte con garbo da Jader Jacobelli o da Ugo Zatterin, si renderebbe conto senza difficoltà che, al di là della postura un po' ingessata di politici e giornalisti, poco abituati al mezzo televisivo, e dell'immagine di antico proposta dal bianco e nero, quelle tribune avevano un piglio e dei contenuti molto più vivi e interessanti di quelle di oggi. La normativa attuale, puntigliosamente ribadita ad ogni elezione, dalle delibere della Commissione parlamentare di vigilanza e, per l'emittenza privata, dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, rappresenta l'estrema frontiera della "par condicio". Tutte le regole sono orientate a garantire la presenza dei partiti e dei candidati in modo ordinato e paritario. Nessuna, invece, nasce per imporre a chi vuol presentarsi davanti agli elettori di chiarire in modo approfondito le proprie intenzioni e i propri programmi.

Eppure è semplice. Il cittadino/elettore che si prepara a scegliere (oppure a non scegliere come avviene sempre più spesso) un candidato o una forza politica dovrebbe poter agire dopo aver preso conoscenza di tutte le intenzioni postelettorali da parte delle forze che partecipano alla campagna elettorale. Dovrebbe quindi comportarsi come un qualsiasi consumatore che, nel momento di fare un acquisto, non si limita a fermarsi ad ascoltare i discorsi di questo o quell'imbonitore da fiera che, con vocaboli iperbolici, vanta i pregi della propria merce, ma chiede e ottiene la possibilità di comparare i vari prodotti, di leggere le etichette, di vedere i produttori messi alle strette da esperti indipendenti che di costringano al massimo della trasparenza e della verità.

Poco o nulla di questo avviene nelle tribune elettorali dove i tempi sono rigidamente contingentati, dove non è possibile contestare all'intervistato di turno un'imprecisione o un'affermazione scarsamente provata.

Ancor meno però una seria informazione elettorale può emergere dei cosiddetti "talk show" (anche di questi ho parlato in articolo su Salto) che, nell'inesausta ricerca di risultati di ascolto, privilegiano il battibecco all'approfondimento, il polemista tuttologo al noioso ma competente esperto. Anche in campagna elettorale ci si limita a sfiorare la superficie dei problemi senza approfondire mai. Un contenitore ideale per una classe politica ormai portata a ridurre tutte le questioni alle dimensioni di un semplice tweet.

E tutto questo praticamente per nulla. Già, perché dopo aver prodotto cotanta legge, alle elezioni politiche del 2001 e poi ancora nel 2008 il successo andò proprio la coalizione guidata da quel personaggio che qualcuno si illudeva di mettere in gabbia con la "par condicio"e che invece, secondo i sondaggi, nonostante i processi e le condanne, parrebbe destinato a vincere anche le prossime politiche.