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Eros il dolceamaro

In questo prezioso libro, Anne Carson veste i panni d’una direttrice d’orchestra che attraverso le voci di classici e moderni restituisce valore al gusto amaro dell’eros.
Eros il dolceamaro
Foto: salto.bz/Utopia

Non a tutte le persone è capitato nella vita di soffrire d’amore. O meglio, non a tutte è capitato di soffrire con un’intensità totalizzante, proprio come non a tutte è capitato di conoscere quell’eros che “non fa che sciogliere, abbattere, addentare, bruciare, divorare, logorare, turbinare, pungere, trafiggere, ferire, avvelenare, soffocare, trascinare via o ridurre l’amante in polvere”. Dipende se si è più simili alle cicale o ai non-amanti. In un aneddoto raccontato da Socrate a Fedro, si narra che le cicale, immagine del dilemma erotico, vennero al mondo per soddisfare la loro passione musicale: impegnate a godere del canto, dimenticarono di mangiare e di bere finché morirono senza rendersene conto. Le cicale rappresentano dunque coloro che rimangono nel momento del desiderio, che vivono il presente indicativo del piacere dall’istante in cui nascono fino alla morte, coloro che “non hanno vita al di fuori del proprio desiderio e quando il desiderio finisce, a loro volta finiscono”. Al polo opposto rispetto alle cicale si trovano i non-amanti che si collocano stabilmente alla fine del desiderio, che sacrificano “il piacere tipico dell’amante, quello intenso e transitorio dell’ora, in cambio di un lungo poi fatto di emozioni coerenti e comportamenti prevedibili. Le cicale scelgono il sacrificio opposto, investendo tutta la propria vita nella gioia momentanea dell’ora”.

Non solo di cicale dedite alla passione e di non-amanti padroni di sé tratta “Eros il dolceamaro” di Anne Carson – rielaborazione della tesi di dottorato uscita nel 1986 ma recuperata e pubblicata in Italia trentacinque anni dopo grazie a Utopia –, un libro che presenta una vera e propria indagine sul significato dell’eros e del desiderio a partire dai testi classici fino a toccare autrici e autori come Simone Weil, Virginia Woolf, Calvino. Ad aprire il dialogo serrato che Carson mette in scena con le grandi e i grandi pensatori è Saffo, la poetessa greca di Lesbo che per prima definì l’eros “dolceamaro”. Per tradurre il termine originale “γλυκύπικρον” Carson utilizza un inconsueto “sweetbitter”, parola che in inglese suona male ma che rispetta l’ordine imposto da Saffo al contrario del più comune “bittersweet”. Carson fa notare, infatti, l’importanza della disposizione dei termini: qualora questa presenti intenti descrittivi, “si sostiene che l’eros comporti prima la dolcezza e poi l’amarezza, esattamente in questi termini: Saffo starebbe ordinando le conseguenze dal punto di vista cronologico”. Se l’eros è connotato in parte sotto il segno dell’amarezza, il desiderio si mostra ineluttabilmente legato al senso di insoddisfazione. La frustrazione di chi desidera ha dei confini semplici da individuare eppure appare impossibile da risolvere; il desiderio sembra alimentarsi attraverso un inappagamento che se soddisfatto determina la fine del desiderio stesso. Scrive Carson: “L’amante desidera ciò che non ha: è per definizione impossibile che abbia ciò che vuole se, appena lo ottiene, smette di desiderarlo”. Per rendere ancora più intelligibile questo dilemma viene in aiuto il riferimento alla fame di Simone Weil: “Tutti i nostri desideri sono contradditori, come il desiderio per il cibo. Io voglio che la persona che amo mi ami. Se, però, diviene totalmente devota, per me cessa di esistere e io smetto di amarla. E finché non è totalmente devota, allora non mi ama abbastanza. Fame e sazietà”.

A conti fatti sembrerebbe, dunque, che la soluzione per vivere sereni sia evitare d’amare – almeno di amare troppo – e di desiderare. Eppure il quieto vivere presenta un prezzo così alto che per Socrate è difficilmente conciliante con la vita stessa: un autocontrollo mortale. Sostiene Socrate: “Devo dire che questa storia non è vera, la storia che un non-amante dovrebbe sentirsi più compiaciuto di un amante per il fatto che quest’ultimo è in preda alla follia mentre il primo è sano. Ora, se fosse evidente che la follia è un male, andrebbe tutto bene. Ma il fatto è che i beni maggiori ci giungono per mezzo della follia, quando ci viene conferita come un dono degli dei”.