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Foto: upi
Politica | Brexit

Pasticche di Brextasy

L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea è un monumento rutilante alla psichedelia.
Il dibattito interno dei britannici sulla Brexit in corso da tre anni ha raggiunto in queste settimane vette di surrealismo del tutto inesplorate. Se da un lato risulta impossibile ricostruire in un editoriale la sequenza completa di scelte assurde e decisioni deliranti del governo conservatore dalla convocazione del referendum in poi, si può quantomeno cercare di mettere in risalto quelle più spiccatamente demenziali.
Iniziamo da David Cameron. Spaventato dal trionfo dell’Ukip di Nigel Farage alle elezioni europee del 22 maggio 2014 e con il proprio partito in subbuglio per la sua linea progressista sui diritti civili, Cameron pensa di zittire tutti indicendo, certissimo della vittoria del remain, un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea. Il tema, in tutta evidenza, si presta alla propaganda populista come nessun altro: basta stranieri, riprendiamo il controllo sulle nostre frontiere, basta soldi a Bruxelles, riconquistiamo la sovranità nazionale. Risultato? Il referendum assume la forma di un gigantesco cetriolo e Cameron, con le spalle (e non solo quelle) al muro, si dimette.
Il tema, in tutta evidenza, si presta alla propaganda populista come nessun altro: basta stranieri, riprendiamo il controllo sulle nostre frontiere, basta soldi a Bruxelles, riconquistiamo la sovranità nazionale.
Appare così sulla scena Theresa May, che dopo le dimissioni di Cameron prende in mano governo e partito e per mesi non si pronuncia sulla Brexit finché, di colpo, agli inizi del 2017 si dichiara favorevole alla versione Hard con uscita dal mercato unico e dall’unione doganale, ben sapendo che in tal modo un compromesso con i laburisti diventa impossibile e senza nemmeno assicurarsi che almeno il partito conservatore la appoggi compattamente. Con l’aggiunta, giusto per alleviare il clima in vista della trattativa con l’UE, che in futuro i cittadini europei non potranno più entrare liberamente in Gran Bretagna. La mossa, naturalmente, le garantisce un conflitto frontale e permanente con i laburisti nonché l’ostilità di una parte considerevole dei Tory. Quindi? La May rovescia il tavolo e indice nuove elezioni, sicura di stravincerle e di zittire soprattutto l’opposizione interna. Le elezioni, manco a dirlo, le esplodono in faccia: i conservatori vincono per un pelo ma perdono la maggioranza assoluta e per governare devono allearsi con gli ultranazionalisti nordirlandesi del DUP, che da quel momento in poi saboteranno sistematicamente qualsiasi soluzione che preveda uno status speciale per l’Irlanda del Nord (il famigerato Backstop), condizione che l’UE riterrà imprescindibile ai fini di evitare la reintroduzione, potenzialmente incendiaria, della frontiera tra le due Irlande.
 
 
“Perdonami Jeremy se ti ho mandato affanculo fino a due ore fa ma adesso è il momento di anteporre gli interessi del paese alle nostre piccole diatribe personali.” “Hai proprio ragione, ti ringrazio di cuore e accolgo con favore questa tua iniziativa. Comunque, vaffanculo.” “No vaffanculo tu.” “No vaffanculo tu.” 
Dopodiché, parte il negoziato con Bruxelles e per mesi la May lascia all’oscuro parlamento e opinione pubblica sull’intera trattativa per presentarsi infine con un accordo inaccettabile sia per i laburisti che per i fautori della Hard Brexit del suo stesso partito. Fosse per lei, gli esponenti di entrambi i fronti a lei ostili potrebbero tranquillamente impiccarsi sotto il Ponte dei Frati Neri e il suo accordo si tramuterebbe direttamente in legge (“Io agisco su diretto incarico del popolo!”), ma una sentenza della Corte Suprema la obbliga suo malgrado a sottoporlo al voto della Camera dei Comuni. Da cui il 15 gennaio 2019 ottiene una pernacchia così roboante da far oscillare anche i sismografi in Cile. Siccome però alla May il messaggio risulta ambivalente (202 voti a favore, 432 voti contrari, sconfitta di un governo in carica più devastante dal 1924), se lo fa ripetere una seconda volta e perfino una terza. E poiché la premier britannica ha l’accortezza tattica di Mike Tyson quando si incazza, dopo l’ennesima bocciatura del suo piano si rivolge ai deputati che le hanno votato contro spiegando loro, con tono molto british, che sono tutti dei grandissimi stronzi. I quali se la prendono a male e con un colpo di mano decidono di sottoporre a voto parlamentare, in due distinte sessioni, ben 12 alternative all’accordo della May. Tutte bocciate.
Ma essendo Theresa una donna molto intuitiva, arrivata a questo punto inizia a sospettare che, non potendo contare tra le sue fila su uno straccio di maggioranza, l’aver preso il leader dell’opposizione a calci nei testicoli per tre anni di fila sia stata una strategia vagamente controproducente. E così, dopo un consiglio dei ministri di sette ore in cui tra fazioni contrapposte volano più insulti che a un congresso del PD, la May offre a Jeremy Corbyn di sedersi attorno a un tavolo per cercare un compromesso che sblocchi l’impasse. Ne nasce un dialogo così riassumibile: “Perdonami Jeremy se ti ho mandato affanculo fino a due ore fa ma adesso è il momento di anteporre gli interessi del paese alle nostre piccole diatribe personali.” “Hai proprio ragione, ti ringrazio di cuore e accolgo con favore questa tua iniziativa. Comunque, vaffanculo.” “No vaffanculo tu.” “No vaffanculo tu.” Non è dato sapere chi avrà l’ultima parola ma i bookmakers danno favoritissima la May.
Quando si inizia con gli allucinogeni, smettere poi è difficile.
Infine, mercoledì 10 aprile il Primo Ministro si presenta all’incontro con i 27 membri del Consiglio Europeo che avevano indicato il 12 aprile come data ufficiale e improrogabile dell’uscita della Gran Bretagna dall’UE qualora nel frattempo la Camera dei Comuni non avesse approvato l’accordo. Theresa May, con la credibilità e autorevolezza politica di Mister Bean travestito da Margaret Thatcher, spiega al Consiglio che l’accordo è stato asfaltato tre volte ma che se le verranno concessi un altro paio di mesetti tutto si risolverà. Da persone serie, i 27 capi di Stato e di governo dei paesi membri non potrebbero far altro che mostrarle la porta. Infatti, le concedono un’altra proroga fino al 31 ottobre. Quando si inizia con gli allucinogeni, smettere poi è difficile.