Cultura | Diario di viaggio

India

"o la ami o la odi"
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
Taj Mahal
Foto: Giulia Pedron © Tutti i diritti riservati

Voglio iniziare con una nuova serie di articoli sempre per parlare di viaggi, culture e tradizioni lontane, ma questa volta voglio farlo parlando di un Paese unico in tutto e per tutto, un Paese grandissimo che racchiude in sé moltissime gruppi etnici, che racconta una storia antichissima che cambia di regione in regione, una storia che spesso si mescola con la leggenda e con la mitologia, un Paese che ha la capacità di sorprenderti e ferirti nell’arco di una sola giornata. Un paese fatto di colori sgargianti e meravigliosi, di odori, di profumi e di sapori, di credenze surreali, di divinità potenti e a volte arrabbiate, di caste e ingiustizie, di credenze accompagnate da contraddizioni: voglio parlarvi dell’India. O meglio, voglio parlarvi di quella piccola parte dell’India che io ho conosciuto.

Sono andata in India poco più di un anno fa, sono partita a fine febbraio dell’anno scorso. Era da un po’ che l’India mi “chiamava” ma fino ad allora non mi ero sentita pronta: l’India è un paese a sé, l’India è pericolosa, l’India è meravigliosa, l’India è l’India, o la odi o la ami. A quale credere tra tutte queste affermazioni?

Sentivo il richiamo di questo paese già da qualche anno: una delle cose che avevo bisogno di fare una volta trovato il coraggio di andarci, era quella di cercare una guesthouse dalla quale molti anni prima uno zio lontano aveva spedito una lettera a mia nonna (sua sorella). Una guesthouse dove questo zio aveva vissuto per un periodo. Volevo trovare qualcosa che mi riconducesse a lui, a quello zio che avevo sempre ammirato e che mi aveva affascinata con il suo stile di vita da vagabondo, visto quasi solo in foto stampate su carta lucida. In quelle foto mi era sembrato lui stesso un indiano. Pelle color olivastro, capello lungo e nero, baffo ordinato. Era come se in qualche modo mi sentissi legata a lui, l'unico di tutta la famiglia che aveva passato gran parte della sua vita viaggiando. Pensavo, e penso tutt'ora, che in qualche modo questa voglia mi sia stata tramandata proprio lui. La genetica aveva fatto uno strano scherzo, non aveva seguito una linea logica, era saltata dal fratello di mia nonna a me, scavalcando una generazione e sconvolgendo la naturale linea genealogica. Non mi nonna, non mia mamma, non un mio cugino: io. E quella mia voglia di fargli domande (non viveva nella mia stessa città) era precipitata con un rumore sordo ma assordante quando, tristemente, questo zio aveva lasciato la vita terrena. L'unica cosa che mi rimaneva era una foto, una lettera e un indirizzo da subito inserito nella lista (scritta su un libro che mi aveva portato dall’India lui stesso quando ero piccola)  delle cose da fare assolutamente una volta arrivata a Jaipur: trovare questa guesthuose.

Che questo sia stato solo un pretesto, una scusa o un motivo in più per andare in India, poco importa. Zaino e passaporto erano pronti, il visto l'avevo ottenuto, non riuscivo più a trattenere quel mix di sensazioni che accompagnavano l’idea di partire: era arrivato il momento di conoscere quella terra misteriosa.

L’arrivo all’aeroporto di Nuova Dehli è stato un preambolo di quello che mi aspettava fuori da quelle alte vetrate, grandi finestre che da lì a poco mi avrebbero catapultata in un Paese che pensavo di essere pronta a conoscere e che si è rivelato diverso da tutto ciò che avevo conosciuto fino a quel momento. Pensavo che paesi limitrofi, come per esempio il Myanmar che avevo già avuto la fortuna di conoscere, avrebbero fatto da filtro al mio avvicinamento con la cultura di questo Paese, ma mi sbagliavo. L’India è riuscita a stupirmi ogni giorno, in bene e in male, e con il tempo sono finalmente riuscita a dare un senso alla frase “o la ami o la odi”. In verità, credo sia più corretto dire: ogni giorno l’India ti mette davanti un motivo per odiarla e un motivo per amarla.