Ambiente | salto gespräch

"Sopra le nuvole ho trovato me stesso"

Il fotografo Luca Matassoni racconta i bivacchi di montagna, rifugio di tutti, per tutti e dove si riscopre quel senso di comunità che pensavamo essere andato perduto.
Sopra le nuvole
Foto: Luca Matassoni

Quando parli con Luca Matassoni riaffiora nella mente uno straordinario Robin Williams che ritto in piedi su una cattedra incitava i propri studenti a cambiare lo sguardo, ad osservare le cose da angolazioni e prospettive diverse, andando oltre quanto era stato già scritto per trovare finalmente la propria voce perchè "il mondo appare diverso da quassù". Il giovane fotografo roveretano non si accontenta di una cattedra, fa ancora meglio e sale, sale ancora, fino al punto che sono le nuvole a dover alzare il proprio sguardo per poterlo vedere. Ed è lì, sopra quel manto di bambagia e da quella nuova prospettiva che inizia il suo racconto fotografico, incentrato sui due elementi principali che caratterizzano la “vita” del bivacco di montagna: la costruzione fisica e le storie delle persone che decidono di frequentarlo, compresa la sua.

 

salto.bz: Nel cuore di Luca Matassoni, quale passione ha cominciato ad ardere per prima? Quella per la montagna o quella per la fotografia?

Luca Matassoni: Direi senza dubbio quella per la montagna. Da Rovereto, luogo in cui sono nato e cresciuto, ho sempre potuto raggiungerla facilmente e così ho fatto sin da piccolo. La fotografia inizia più tardi, durante il periodo del liceo classico e raggiunge le fasi più mature frequentando l’Accademia delle belle Arti a Milano. Ma non ho mai dimenticato quello stato d’animo che ha da sempre accompagnato le mie escursioni in montagna e le notti passate in bivacco, e così, anche in maniera abbastanza naturale, è nato il progetto fotografico “Sopra le Nuvole”, che tra le altre cose ha fatto parte anche della mia tesi finale.

A quando risale la tua prima esperienza in un bivacco? E perchè questi luoghi di montagna hanno assunto un’importanza tale da diventare i protagonisti di un progetto fotografico?

La prima esperienza è arrivata nel 2015. Con alcuni amici abbiamo deciso di fare un’uscita e raggiungere il bivacco della Madonnina, sulla Vigolana. Quell’esperienza ci ha segnato e in me ha fatto scattare qualcosa di nuovo, che non pensavo fosse possibile provare. Insomma ti ritrovi catapultato in un contesto unico e impossibile da ricreare nella vita di tutti giorni. È come vivere un’altra dimensione, anzi vivi proprio una dimensione a parte, che sta lassù, in alto, staccata da tutto il resto e separata da spazi sterminati dove rimani solo tu, il silenzio e i compagni di bivacco, che possono essere quelli con i quali sei partito o persone nuove, che hai conosciuto lì e ti ritrovi a condividerne isolato il tempo e lo spazio che ti circonda.


Uno spazio, il bivacco, che è di tutti ma al tempo stesso non è di nessuno…

È uno degli elementi più affascinanti di questi luoghi che io amo definirli come un contenitore, un punto di raccolta. È uno spazio che è lì da decenni, se ne trovano di diverse dimensioni e tipologie ma si caratterizzano tutti per la loro essenzialità. Di solito al loro interno trovi un tavolo, delle panche, quando sei fortunato una stufa e dei letti e quello che devi fare tu è adattarlo in base alle tue esigenze del momento. La cosa bella è che personalizzando quella piccola stanza, perché di una stanza alla fine stiamo parlando, ogni persona lascia un pezzettino di sé, della propria storia e del proprio passaggio.

Quali tra gli aspetti di quelli che tu stesso definisci “estensione dell’ambiente alpino costruito dall’uomo a misura d’uomo” cerchi di cogliere maggiormente con la fotografia?

Attraverso la documentazione fotografica ho cercato di indagare il rapporto che intercorre in primis tra la struttura del bivacco e il territorio circostante. Quando parlo di estensione dell’ambiente alpino mi riferisco a quei bivacchi che vengono costruiti con le materie prime che si trovano nelle immediate vicinanze del luogo designato. In fondo sei a centinaia e centinaia di metri in quota, devi farti bastare quel poco che riesci a trasportare per erigerlo. In questi casi cerco di evidenziare la similitudine tra le rocce, il legno circostante e il rifugio stesso. A volte si mimetizzano a tal punto da essere difficili da vedere. Poi ci sono altre categorie opposte che io chiamo “scatole di latta” e che vengono letteralmente posizionate da un elicottero sulla piana, con un impatto a sua volta totalmente diverso.

Ed è per forza un qualcosa di negativo?

Mah, non direi. In fondo i bivacchi per definizione nascono per facilitare il cammino degli escursionisti e spesso vengono messi alla base di vie alpinistiche e sentieri particolarmente difficili che chiedono il pernotto, quindi ogni tanto diventano necessarie pure loro se non hai i mezzi e le possibilità ambientali per costruire un rifugio in loco. Però che sia una struttura di latta o di pietra alcune parole d’ordine non cambiano.

Ovvero?

Che sia un rifugio in mano al CAI o messo a disposizione da un privato c’è un assioma di fondo che sta alla base di tutto: tu che arrivi devi fare attenzione a chi verrà dopo di te, perchè se hai trovato il posto in ordine significa che qualcuno ha pensato a te. Quando entri in un bivacco è importante lasciarlo come vorresti venisse trovato. Se si usa la legna che si trova lì è perché qualcuno l’ha preparata e tu devi pensare e preoccuparti allo stesso modo.


Ed è sempre così?

Non sempre purtroppo. Tante volte arrivi in bivacchi in cui tutto è perfetto, altre volte la situazione è ben più caotica. Non mi piace usare il termine “educare” ma credo sia necessario trovare il modo giusto di trasmettere i valori della montagna, rispettare quei luoghi che sono beni comuni messi lì, a disposizione di tutti e dei quali puoi usufruire gratuitamente. In fondo basta davvero poco…

Sono accorgimenti che farebbero bene anche a bassa quota. Quali sono gli insegnamenti che ti ha trasmesso la montagna, e la vita in bivacco in particolare, e che sei stato in grado di riportare nella vita di tutti i giorni?

Una cosa che ho sempre trovato piacevole è quando arrivi in un bivacco e vedi che qualcuno ha lasciato del cibo per te, oppure degli utensili utili alla sopravvivenza. Il senso di fondo è fare in modo che una persona possa sostentarsi a prescindere di quello che ha nello zaino e, allo stesso tempo, se tu hai la possibilità di lasciarlo lo riponi nell’armadietto per chi verrà dopo di te. C’è una sorta di comunità solidale che si crea attorno a questi luoghi: quella persona che ha lasciato del cibo non sa chi sei e nemmeno tu saprai chi verrà dopo di te ed è questo il bello. Credo di aver trovato l’insegnamento più importante che mi porto a casa ogni volta.


Oltre all’architettura del bivacco ti sei soffermato in particolar modo anche sulle persone che lo attraversano. Che cosa hai trovato e che cosa hai voluto immortalare sulla pellicola?

In ogni bivacco c’è una traccia, un pezzetto di storia di ognuno che lì dentro ha trovato rifugio. C’è una matassa di affetti, legami che a un certo punto si sovrappongono fino a far diventare questi rifugi dei veri e propri musei. Anche in questo caso ognuno lascia qualcosa di sé. Spesso trovi incisioni, fotografie, foglietti sparsi su cui vengono riportati pensieri altrettanto sparsi. È un altro, l’ennesimo, tra i suoi aspetti più affascinanti. Apparentemente il bivacco è immobile, ma ogni volta che ci torni ne troverai uno diverso: qualcuno avrà lasciato qualcosa di suo che questo lo avrà reso unico rispetto a quello che era prima.


E tu cos’hai lasciato?

Detta così, a pochi metri sopra il livello del mare, potrebbe sembrare sciocco, ma quando ti ritrovi in un contesto come quello del bivacco invece, ecco che assume tutt’altri contorni. Ad ogni modo, una volta giunti a destinazione abbiamo scoperto che a circa 10 minuti di camminata si trovava una fonte d’acqua. Non era segnalata. Quando sei in montagna ritorni a quelli che sono i tuoi bisogni essenziali: mangiare, bere e riposarsi. A queste altezze l’acqua è spesso un problema e il nostro primo pensiero è stato fare una cosa banale che però, al tempo stesso, nessuno aveva fatto prima: prendere un foglio di carta, scrivere tutte le indicazioni per trovare la sorgente e appenderlo fisso sulla porta, in modo che fosse ben visibile a chiunque arrivasse dopo di noi e sempre nell’ottica della solidarietà e della reciprocità di cui parlavo prima.

Noto che parli sempre al plurale, l’esperienza del bivacco è una cosa che fai esclusivamente in gruppo o c’è spazio anche per l’avventura in solitaria?

In genere vado con gli amici, talvolta sono andato solo, tuttavia sei consapevole che potrai trovare qualcuno sul percorso se non direttamente alla meta. E in molti casi è stato così. Partire da solo ha i suoi rischi - il percorso va studiato bene e non deve essere particolarmente esposto ed impegnativo - ma anche i suoi pregi, sei portato maggiormente a socializzare e a confrontarti con le persone che conosci lungo il cammino. Poi è sempre divertente questa dimensione della promiscuità: parli cinque minuti con uno sconosciuto e ti ritrovi subito dopo a dormire con lui a pochi centimetri di distanza, lontano da tutto e tutti, solo voi. In realtà, in questi casi parti sì da solo ma non ti senti mai veramente solo. Una volta sono stato persino adottato in un certo senso da una famiglia, ricordo che aveva anche un cane. Ho cenato con loro e poi ci siamo coricati insieme. Non mi sono mai sentito come quell’elemento "in più" anche perchè quando vai a dormire in bivacco metti già in preventivo che troverai qualcuno e sai anche che potrebbe non andarti a genio ma, proprio per questo, bisogna adattare lo spirito. Questo non mi è mai successo in realtà. Credo che a 2000 metri si riesca ad entrare più in confidenza ed empatia con le persone che ti si trovano accanto, le stesse paure di tutti i giorni sembrano affievolirsi.


Qual è il ricordo a cui sei maggiormente affezionato?

Sicuramente la prima esperienza, quella del 2015, è stata emblematica ma è con il passare degli anni che ne ho capito davvero l’importanza. In realtà, sono molti i ricordi a cui sono affezionato, c’è uno stato mentale però a cui sono particolarmente legato, che è difficile da spiegare a una persona se non l’ha mai provato. In montagna, a queste condizioni, i tempi sono più distesi a tal punto che arrivi persino ad annoiarti ma attenzione, che questa non deve essere considerata come una cosa negativa. Accade che quando passi giorni con le stesse persone arrivi a un certo punto che non hai più niente da dire e stai in silenzio senza che nessuno si senta in imbarazzo o in dovere di spezzare questa quiete ed è con questo silenzio che arrivi a una comprensione più profonda delle persone che ti stanno intorno. Ma quello che è successo lì, sopra le nuvole, è che sono riuscito davvero a trovare me stesso e conoscere chi sono veramente.

Il tuo modo di vivere l’ambiente alpino è un qualcosa di molto diverso rispetto all’offerta turistica predominante: basti pensare agli stessi impianti di risalita o a quei giganteschi e lussuosi alberghi con annessa spa, che richiamano un modello di montagna alquanto addomesticato dall'essere umano...

Sono due proposte completamente diverse e che si fondano su approcci che stanno a loro volta agli antipodi. Da un lato si vuole prendere il turismo e l’idea di vacanza e portarli in montagna: si fanno gli impianti e si creano tutte quelle strutture che possono ospitare i turisti nella maniera più confortevole possibile. In questo modo è la montagna che viene adattata alle esigenze del turista e questo è assolutamente invasivo. Quello che cambia è la mentalità. Io non vado in montagna per fare il turista, non mi metto in cammino per trovare le comodità di cui posso godere ogni giorno. Vado in montagna sostanzialmente per soffrire, per essere scomodo, per tornare ad avere fame e avere sete, per confrontarmi con me stesso e con le persone che si trovano sul mio cammino. Non è una vacanza, è un’esperienza, un qualcosa che ti devi conquistare. Sarà pur faticoso ma è quello che ne fa valere davvero la pena.
 

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Alessandro Stenico Dom, 07/11/2021 - 21:30

lungo alte vie oppure come punto d'appoggio prima di una salita, mi sono servito spesso di una brandina in un bivacco, di metallo come al G.Messner in val di Vizze oppure al Musatti alle Marmarole, di legno al Brenninger sull'altavia di Fundres, di muratura sulla via del sale in Liguria e in un infinità di altri luoghi sulle Alpi o sulle isole, bei ricordi anche per le scomodità: cimici nei materassi e nelle coperte, topi che si nascondevano, oppure compagnia troppo chiassosa e nell'insicurezza di trovare le brandine occupate mi portavo anche una tendina, comunque tutto meglio di un rifugio a più stelle nei mega rifugi con troppi posti letto. Con l'andare degli anni apprezzo comunque le comodità, nelle piccole strutture alpine, la cucina tipica, ogni regione alpina offre un piatto tipico non troppo sofisticato, fino ad ora il Piemonte è stata la regione alpina che ha saputo coniugare al meglio accoglienza e gastronomia con semplicità.

Dom, 07/11/2021 - 21:30 Collegamento permanente