Società | Gastbeitrag

Criticare le rimozioni

Il dialogo inedito tra Martha Ebner e Leopold Steurer è stata un’occasione straordinaria. Perché l’autocritica è un passo necessario per una “sana” cultura della memoria.
Martha Ebner, Poldi Steurer
Foto: Ludwig Thalheimer ff/salto.bz

Questo articolo prende spunto dall’intervista doppia, „Ein Lehrer, wie der Herr Steurer“, realizzata da Florian Kronbichler per il settimanale ff: il confronto tra Martha Ebner e Leopold Steurer, tra la testimone e lo storico, è interessante per i contenuti, ma ancor più per l’opportunità di riflessione critica sulla cultura della memoria di una parte del gruppo linguistico tedesco.

Particolarmente importante è anche la disponibilità del testo in italiano (si può leggere qui): spesso ciascun gruppo linguistico discute al suo interno, sulle proprie riviste e nei propri spazi, le memorie di quel periodo. È invece importante uno sguardo trasversale, perché anche i silenzi incrociati – con l’accusa reciproca cui gli “italiani” sarebbero interessati a minimizzare i danni del fascismo, mentre i “tedeschi” la loro complicità con il nazismo –, sono la causa di una incomunicabilità sul passato che continua da quasi settant’anni.

 

 

La cultura della memoria

 

Esiste una memoria collettiva? La riflessione intorno a questa domanda ha avuto un importante teorico in Maurice Halbwachs, sociologo francese. Le sue opere più rilevanti verranno pubblicate postume dalla figlia, visto che l’autore era stato deportato e poi ucciso a Buchenwald: nel 1980 sarà la traduzione in inglese di La mémoire collective, “The collective memory”, a dare nuova linfa a questo campo di studi. Tra i molti nuovi termini e concetti sviluppati, Erinnerungskultur – cultura della memoria – ha avuto particolare successo. Secondo Aleida Assmann, che insieme al marito Jan Assmann ha coniato questo termine, cultura della memoria ha almeno tre significati.1

La cultura della memoria è la “Aneignung der Vergangenheit durch eine Gruppe”, l’appropriazione del passato da parte di un gruppo

Il primo riguarda la pluralizzazione e la maggiore intensità dell’approccio al passato, perché la riflessione sulla memoria non è più solo appannaggio degli specialisti come storici o archivisti, ma è un tema sviluppato anche da persone comuni, gruppi e istituzioni.

Il secondo spiega invece lo sviluppo delle culture della memoria attraverso la “Aneignung der Vergangenheit durch eine Gruppe”, l’appropriazione del passato da parte di un gruppo. A differenza della politica della memoria, generalmente intesa come un processo “top-down” – una “strumentalizzazione” dall’alto verso il basso, attraverso pratiche e istituzioni –, la cultura della memoria viene invece descritta come strumento di costruzione dell’identità di un gruppo, della sua capacità di orientarsi nel tempo. A sua volta, questa cultura può essere fatta di ricordi e miti, rielaborazioni coscienti e appropriazioni indebite, silenzi e dimenticanze interessate o salvifiche.

L’ultimo significato intende invece rilevare il cambiamento nella percezione di sé e dei propri valori occorsa negli ultimi decenni: una svolta etica della cultura della memoria in direzione di un discorso incentrato sulle vittime, non per riprodurre tesi vittimiste ma per assumerne il punto di vista. In questo modo, una cultura della memoria può rendere giustizia ai perseguitati rompendo il muro di silenzio e omissioni.

“chi era stato effettivamente vittima del nazionalsocialismo, i Dableiber, i disertori, gli obiettori di coscienza, i deportati veniva nuovamente isolato o attaccato”

 

Le memorie del Sudtirolo

 

Le politiche e le culture della memoria fanno quindi parte della vita quotidiana: se ne fa esperienza in positivo, come senso di appartenenza al “proprio” gruppo basato su un passato comune, o ritenuto tale; in negativo, rilevando la distanza dalle memorie degli altri. L’esempio immediato cui pensa immediatamente unə sudtirolesə è la distanza tra i distretti etnici della memoria, le differenti memorie sviluppate dai principali gruppi linguistici – tedesco, italiano e ladino –, spesso contrastanti e sempre concorrenti nel rappresentare il passato comune.2 Ma vi sono altri gruppi, di recente arrivo, per i quali la “memoria generazionale” non è legata al territorio e quanto vi accadde nel Novecento. Rimandando ad altra sede il confronto tra queste memorie, poche settimane fa è uscita un’importante intervista che affronta anche il tema dell’Erinnerungskultur di un gruppo specifico, che per estensione potremmo definire “il gruppo linguistico tedesco”. Questo non è e non sarà mai un monolite, perché l’utilizzo di una lingua non esaurisce l’identità di una persona e quindi tutte le sue appartenenze.

 

 

L’articolo di Florian Kronbichler per il settimanale ff, “Ein Lehrer, wie der Herr Steurer”, è particolarmente rilevante proprio perché la rielaborazione del passato viene discussa tra una testimone d’eccezione e tra le figure centrali di un sistema politico-mediatico interessato al silenzio, Martha Ebner, e uno degli storici che ha più contribuito al rinnovamento della ricerca e del rapporto critico con il passato in Sudtirolo, Leopold Steurer. Nonostante né all’interno della SVP né sui media Athesia la storia non venga più riletta (solo) con le lenti del Canonico Michael Gamper e degli appartenenti alla Wehrmachtsgeneration, sono ancora troppo rare le occasioni di autocritica rispetto alla visione vittimista a lungo tempo dominante – dove chi era stato effettivamente vittima del nazionalsocialismo, i Dableiber, i disertori, gli obiettori di coscienza, i deportati veniva nuovamente isolato o attaccato, mentre tutto il discorso pubblico veniva occupato da persone più o meno conniventi con il Terzo Reich e dai soli crimini del fascismo contro i sudtirolesi.

 

Opfermythos

 

Se in Italia si guarda con generale invidia all’esemplare rapporto tedesco con il proprio passato, questo si è sviluppato non dalla (parziale) denazificazione e dai processi di Norimberga, ma a partire da una serie di eventi occorsi tra l’emergere del movimento studentesco del ’68 e gli anni ’90. Alcune tappe fondamentali, che hanno contribuito al vivace e a tratti drammatico dibattito pubblico sul “passato che non passa”, sono state la trasmissione della serie tv americana Holocaust, la genuflessione di Willy Brandt a Varsavia, l’Historikerstreit tra Ernst Nolte e Jürgen Habermas (tra gli altri), la pubblicazione di “Verrat auf Deutsch” di Erich Kuby e la Wehrmachtsaustellung, la mostra sui crimini della Wehrmacht. Se alcuni dei miti incrinati da questi eventi avevano una forte influenza anche in Sudtirolo, un ruolo ancora più rilevante lo aveva l’Opferthese austriaca.

Questa tesi vittimista si basava sulla Dichiarazione di Mosca delle potenze alleate, che nel 1943 definivano l’Austria “das erste freie Land, das der typischen Angriffspolitik Hitlers zum Opfer fallen sollte”, il primo paese libero vittima della politica aggressiva di Hitler. Se quindi si trattava di invasione ed occupazione, ogni compartecipazione alle politiche del nazionalsocialismo e alla guerra era stata coercitiva. Secondo Heidemarie Uhl, è possibile distinguere due varianti di questo mito, operanti successivamente: inizialmente era “antifascista”, per cui si sottolineava l’impegno antinazista e patriottico di chi cercò di opporre resistenza; dopo questa prima fase, il proprio status di vittima del nazionalsocialismo tedesco viene utilizzato solo in politica estera, mentre internamente la guerra fredda porta all’accrescersi dei sentimenti anticomunisti.3 In modo simile a quanto stava accadendo in Italia, la lotta resistenziale diventa un argomento scomodo per via del ruolo delle formazioni “rosse”, anche perché diventa politicamente rilevante reintegrare gli “Ehemaligen” nel corpo politico e amministrativo dello Stato, facendo così fallire la denazificazione della società austriaca.4

 

 

Quello di Kurt Waldheim è stato il caso emblematico di questa (auto)assoluzione generalizzata. Già diplomatico, ministro degli esteri e segretario generale dell’ONU, la candidatura a Bundespräsident portò alla luce il suo profondo coinvolgimento nel nazionalsocialismo, nella Wehrmacht e la possibilità avesse preso parte a crimini di guerra. Anche se sarà poi eletto e si rifiuterà di dimettersi, il dibattito intorno al “caso Waldheim” ha profondamente cambiato il rapporto degli austriaci con la propria storia – dentro e fuori le stanze degli specialisti.

 

L’unità del gruppo etnico

 

A lungo e in parte ancora oggi, anche in Sudtirolo le memorie del periodo delle due dittature sono state caratterizzate da un’impostazione vittimista, che in modo simile all’Opfermythos austriaco doveva costituire la base della legittimazione politica. “La vittima è l’eroe del nostro tempo”, scrive Davide Giglioli, che continua notando come definirsi tale garantisca innocenza “al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto.”5

Non è un caso che il primo punto programmatico della neonata SVP, firmato il 12 maggio 1945 dopo la riunione fondativa di pochi giorni prima, inizi proprio parlando di “Unterdrückung durch Faschismus und Nationalsozialismus”: non si può chiaramente negare tale oppressione, di cui proprio alcuni dei firmatari avevano fatto esperienza diretta – come Friedl Volgger, già attivista Dableiber e poi deportato a Dachau –, ma le due dittature verranno caratterizzate solamente come esterne. Come nel caso austriaco, la prima variante della tesi vittimista è profondamente antifascista, come dimostra lo stesso Volgger che sulla rivista di partito “Volksbote” fa un primo bilancio delle vittime sudtirolesi del nazionalsocialismo.

Comincia così la lunga stagione della Wehrmachtsgeneration, nella SVP e nei media Athesia, dove nel tempo moltissimi ex nazionalsocialisti o soldati della Wehrmacht troveranno impieghi più o meno continuativi

Esaurita però la necessità di legittimarsi come soggetto politico agli occhi degli alleati, tale antifascismo perderà progressivamente la carica antinazista. Con l’imporsi dell’“Einheitsgedanke” del canonico Michael Gamper, per il quale dovevano essere ignorati i motivi di litigio all’interno del gruppo linguistico tedesco per presentarsi compatti di fronte agli avversari politici, si darà il via libera al cambio di linea politico e mediatico. Comincia così la lunga stagione della Wehrmachtsgeneration, nella SVP e nei media Athesia, dove nel tempo moltissimi ex nazionalsocialisti o soldati della Wehrmacht troveranno impieghi più o meno continuativi, a partire dal “campione” della Wehrmachtsgeneration Josef Rampold, il commentatore che si firmava come Mister X. e poi divenuto caporedattore della Dolomiten tra il 1981 e il 1995.

Personaggi come Volgger potranno avere un ruolo solo conformandosi al discorso dominante, tanto che lo storico Leo Hillebrand lo definisce il “barometro politico” del gruppo linguistico tedesco, i cui articoli possono essere considerati «zum Synonym für die Instrumentalisierung brisanter Bereiche der Südtiroler Zeitgeschichte für unmittelbar politische Zwecke».6 Altri antinazisti si saranno sostituiti dai loro ruoli politici, come Erich Ammonn, alcuni subiranno una vera e propria damnatio memoriae come Hans Egarter, ma anche personaggi meno in vista verranno isolati e disprezzati dai loro compaesani a causa delle loro scelte, come Franz Thaler.

 

 

 

“Wir haben Verdrängt”

 

Ecco spiegata l’importanza dell’intervista a Ebner e Steurer. Da una parte il “giovane storico di sinistra”, come lo definiva Rampold nella speranza di sminuirne gli argomenti, dall’altra la “gamperiana” (Hillebrand 2002) che ha contribuito in modo decisivo alle fortune di Athesia e della sua famiglia, che ne prese il controllo dall’“Onkele”, il canonico Michael Gamper.

Intorno al 75° compleanno di Steurer è stato più volte detto che se Claus Gatterer è stato il “padre” della rielaborazione della storia contemporanea del Sudtirolo, “Poldi” ne è stato il pungolo e l’artefice – per il suo ruolo di rompighiaccio che ha aperto una via percorribile da tantə altrə, che insieme e dopo di lui hanno cambiato la storiografia locale. In Sudtirolo la locale “disputa degli storici” affonda le sue radici nei libri di Gatterer del 1968-69, “Im Kampf gegen Rom” e “Schöne Welt, böse Leute”, ma è tra il 1980 e il 1981 che comincia la svolta nella ricerca storica, quando Steurer pubblica la sua tesi di dottorato “Südtirol zwischen Rom und Berlin. 1919–1939” e cura il cosiddetto “Optionsföhn”.

Steurer è anche un gregario, come nel caso delle polemiche intorno all’intervista su Rai Uno a Reinhold Messner. Riferendosi alle opzioni, aveva affermato di pensare che “nessun popolo ha tradito tanto la Heimat quanto gli altoatesini”: per questo motivo sarà attaccato in numerose lettere sulla Dolomiten, che ufficialmente non prende posizione. Ma lo stesso caporedattore Rampold sarà protagonista di un incontro-scontro con Messner in diretta sulla Rai locale, dove lo scalatore arriverà armato di un grosso faldone di documenti forniti da un insider, il giovane Steurer appena tornato da Vienna.

 

 

Nel 1986 un testo di Steurer intitolato „Undeutsch und jüdisch : Streiflichter zum Antisemitismus in Tirol” aprirà una discussione che secondo i colleghi Steinacher e Pallaver ha avuto “eine ähnliche ‚Eisbrecherfunktion‛ wie in Österreich 1988 das Gedenkjahr an den Anschluss”, una funzione rompighiaccio rispetto al passato simile a quella del 45° anniversario dell’Anschluss.7 In un contributo veniva infatti sollevata la problematicità dell’intitolazione del liceo scientifico in lingua tedesca di Bolzano a Raimund von Klebelsberg, avvenuta cinque anni prima e dove Steurer insegnava. Il brissinese era stato un geologo molto conosciuto, per lungo tempo professore universitario e in due distinti periodi rettore dell’università di Innsbruck, prima nell’anno accademico 1933/1934 e poi dal 1° dicembre 1942 fino alla fine del secondo conflitto mondiale. Non solo aveva ricoperto la carica durante il nazionalsocialismo, ma era stato anche compartecipe della vicenda della Rosa Bianca: uno dei resistenti assassinati il 22 febbraio 1943 era Christoph Probst, studente di medicina ad Innsbruck, che il giorno stesso verrà escluso dagli studi dal rettore Klebelsberg (solo nel 2019 sarà riabilitato e simbolicamente reimmatricolato). Convinto nazionalista tedesco e antisemita, membro del NSDAP e complice del nazionalsocialismo, i critici sostenevano non potesse essere un buon esempio per gli studenti. Anche in questo caso, il dibattito sarà caratterizzato da feroci attacchi sulle pagine della Dolomiten e una sostanziale inazione politica, finché le continue insistenze di studenti e insegnanti non porteranno alla rimozione della denominazione nel 2000: a venticinque anni dalla fine del conflitto era ancora possibile intitolare una scuola ad una persona compromessa con il nazismo, ma erano stati necessari ulteriori quindici anni per rimediare.

Nonostante negli anni 2000 la casa editrice Athesia abbia timidamente intrapreso una direzione diversa nel rapporto con il passato, questa non è mai stata discussa pubblicamente

 

Un cambio di linea

 

Al pensionamento di Rampold, sarà uno dei figli di Toni e Martha Ebner a prendere in mano la direzione della Dolomiten, anche se il cambiamento di linea editoriale non avverrà immediatamente, come dimostrano due articoli a distanza di vent’anni.8

Nel 1995, il neo caporedattore Toni Ebner jr. introduce un articolo di Edmund Theil su Via Rasella scrivendo che “con questo articolo si vuole dare un contributo contro l’oblio [sul passato], in modo che non ci sia mai un’altra guerra”. L’autore Edmund Theil non era però un ricercatore o un soggetto neutro, capace di una descrizione obiettiva: era profondamente coinvolto nei fatti, ma dall’altra parte, perché si trovava a Roma in qualità di militare al seguito dell’occupante, distaccato all’ufficio di propaganda insieme a Bossi-Fedrigotti, altra penna saltuaria della Dolomiten. Il suo “contributo contro l’oblio” si limita quindi a ripetere i ritornelli antipartigiani che da cinquant’anni caratterizzavano gli articoli della Dolomiten e della Volksbote sugli eventi del 23 e 24 marzo 1944 a Roma, arrivando anche a difendere Erich Priebke, da poco sotto processo per la strage delle Fosse Ardeatine.

 

 

Il secondo episodio avviene nel 2009, quando il caporedattore pubblica un editoriale per criticare Oswald Ellecosta, vicesindaco di Bolzano che aveva definito non il 25 aprile 1945, ma l’8 settembre 1943 come giornata della Liberazione per il Sudtirolo: non la data simbolo della Resistenza contro il nazifascismo, ma il giorno in cui la Wehrmacht occupava il Sudtirolo e il resto dello Stivale. Con il titolo “Ab in die Mottenkiste”, Toni Ebner jr. chiarisce da subito che si tratta di idee antiquate e superate, inaccettabili proprio per il ruolo di complicità che anche molti sudtirolesi ebbero – cita la deportazione degli ebrei sudtirolesi, la repressione degli avversari politici e la partecipazione al fronte dei Dableiber, puniti per la loro opzione contraria al Terzo Reich, episodi su cui per lungo tempo si era mantenuto un silenzio interessato.

Se negli anni 2000 la casa editrice Athesia ha timidamente intrapreso una direzione diversa nel rapporto con il passato, questa non è mai stata discussa pubblicamente: l’intervista di Kronbichler è una delle rare occasioni in cui emerge una pur blanda autocritica da parte di Martha Ebner. Sono articoli e momenti come questi a contribuire ad un sano rapporto con il passato, perché come scrive Nicola Gallerano:

«il non far passare il passato, l’attivazione di una memoria critica, è condizione di una politica diversa, che elabori il lutto di quel passato. Come ha scritto Agnes Haller, si può dimenticare autenticamente solo se prima si è autenticamente ricordato.»9

 

 

1] La definizione si trova in: Aleida Assmann, Das neue Unbehagen an der Erinnerungskultur : Eine Intervention, München 2013, 32f. Della stessa autrice si consiglia inoltre: A. Assmann, Der lange Schatten der Vergangenheit : Erinnerungskultur und Geschichtspolitik, München 2006; A. Assmann, Il sogno europeo : Quattro lezioni dalla storia, Rovereto 2021.

2] Il concetto di “distretti etnici della memoria” è di Hans Heiss e Hannes Obermair in: Heiss/Obermair, Culture della memoria in contrasto : L’esempio della città di Bolzano-Bozen dal 2000 al 2010, In: Hannes Obermair/Sabrina Michielli (A cura di), Erinnerungskulturen des 20. Jahrhunderts im Vergleich : Culture della memoria del Novecento a confronto, Trento 2014, 19-36.

3] Heidemarie Uhl, Vom „ersten Opfer“ zum Land der unbewältigten Vergangenheit: Österreich im Kontext der Transformationen des europäischen Gedächtnisses, in: Volkhard Knigge/Hans-Joachim Veen/Ulrich Mählert/Franz-Josef Schlichting (A cura di), Arbeit am europäischen Gedächtnis : Diktaturerfahrung und Demokratieentwicklung, Köln-Weimar-Wien 2011, 27-46.

4] Sul simile percorso della memoria della Resistenza in Italia: Filippo Focardi, La guerra della memoria : La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 ad oggi, Bari-Roma 2005.

5] Daniele Giglioli, Critica della vittima : Un esperimento con l'etica, Milano 2014.

6] L’autore inserisce questa valutazione in un contributo che affronta il generale silenzio calato su Hans Egarter dalla fine degli anni ’40. Leo Hillebrand, Ausgegrenzt, verdrängt, rehabilitiert: Hans Egarter und der Südtiroler Widerstand in der öffentlichen Wahrnehmung von 1945 bis heute, In: Skolast 54 (2009) 2, 40-49, 47f.

7] Il testo di Steinacher e Pallaver si trova nella pubblicazione in occasione del 60° compleanno di Steurer: Gerald Steinacher/Günther Pallaver, Leopold Steurer: Historiker zwischen Forschung und Einmischung, In: Christoph von Hartungen, Hans Heiss, Günther Pallaver, Carlo Romeo, Martha Verdorfer (A cura di): Demokratie und Erinnerung : Südtirol – Italien – Österreich, Innsbruck/Wien/Bozen 2006.
Il testo di Steurer si trova invece in: „Die Geschichte der Juden in Tirol von den Anfängen im Mittelalter bis in die neueste Zeit“, Sturzflüge, 5. Jg., Nr. 15/16, 1986, S. 41–66.

8] I due articoli: Das Blutbad in der Via Rasella, Dolomiten 23.03.1995; Ab in die Mottenkiste!, Dolomiten 28.04.2009

9] Nicola Gallerano, Storia e uso pubblico della storia, In: Nicola Gallerano, Le verità della storia : Scritti sull’uso pubblico del passato, Roma 1997, 37-57, 49f.