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La normalità della crisi

Da tempo ci siamo abituati all’idea che stiamo vivendo in un mondo pieno di pericoli, in cui è necessario essere sempre pronti a fronteggiare catastrofi di qualche tipo.
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Una sorta di “nuova normalità”, che consiste nel rendere normale lo stato di eccezione. Questa retorica sulla nuova forma della normalità rischia di farci dimenticare, però, che è sempre stato così: gli umani, che sono agenti dotati di razionalità limitata (bounded rationality [begrenzte Rationalität], come la chiama Herbert Simon), non sono in grado di prevedere il corso futuro degli eventi. Anche disponendo di molte informazioni su ciò che accade nell’ambiente, non c’è modo di analizzarle tutte; a un certo punto si deve decidere, e si spera di ottenere un risultato soddisfacente. Ciò vale nella vita dei singoli individui, ma vale anche per il comportamento di grandi organizzazioni, siano esse imprese o stati. I limiti della nostra razionalità – limiti dati dall’impossibilità strutturale di prevedere il futuro in base a ciò che sappiamo oggi di ciò che accade intorno a noi – rendono necessaria la routine. Di fronte all’inatteso, ci si affida alla routine. Si fronteggia il nuovo adottando misure già note, che in precedenza hanno funzionato bene in casi simili. Da qui il fatto che, anche quando si subiscono le catastrofi più terribili, ci si comporta adattandosi alle conseguenze, pur indesiderate, prodotte dall’evento catastrofico stesso.

Siamo giunti al punto che molti temono che lo strapotere delle big companies possa addirittura mettere in pericolo la stessa vita delle democrazie così come le abbiamo conosciute fino ad oggi.

Di fronte alle pandemie, ci si trova del tutto impreparati, per definizione, e si fa quel che si fa sempre in questi casi: si aspetta che passi, e si spera che arrivi presto un vaccino. Chi prima della pandemia aveva paura di morire, ora avrà ancora più paura; chi prima della pandemia metteva in conto il fatto che vivere è sempre una faccenda pericolosa, continuerà a godersi la vita, nonostante il fatto che la pericolosità del virus è molto alta. Quando c’è una profonda crisi economica, chi prima della crisi poteva permettersi spese sontuarie, continuerà a vivere nel lusso, chi prima si barcamenava alla meno peggio continuerà a tirare la cinghia, o, se ha perso il lavoro, cercherà un lavoro meno remunerativo del precedente. E così via. È importante rendersi conto di quanto lentamente mutino gli orizzonti esperienziali degli umani nel corso della storia. E questo non per arrivare poi a dire “niente di nuovo sotto il sole”, ma per capire quanto sia complicato e difficile mettere in moto processi collettivi che portino al cambiamento in una qualche sfera della vita umana. 

 

Nella situazione attuale, tutto ciò risulta particolarmente evidente. Le difficoltà che molti abitanti del pianeta (soprattutto nella parte più ricca e prospera di esso) incontrano nella propria vita hanno una qualche relazione, diretta o indiretta, con la distruzione della logica di mercato che da molto tempo domina nel mondo della produzione dei servizi. Le grandi compagnie di questo settore agiscono in un regime di dichiarato monopolio, distruggendo la concorrenza. Non sempre ciò avviene legalmente, attraverso fusioni (la grande compagnia che compra quella più piccola, per eliminarne il potenziale concorrenziale). Ormai si registrano molti casi in cui le grandi compagnie ricorrono a minacce e a mezzi illegali per distruggere i concorrenti. Siamo giunti al punto che molti temono che lo strapotere delle big companies possa addirittura mettere in pericolo la stessa vita delle democrazie così come le abbiamo conosciute fino ad oggi. Lo attesta bene il report del Congresso americano “Investigation of Competition in Digital Markets”, frutto dei lavori della sottocommissione Anti-trust diretti dal membro del Congresso David Cicilline (RI). Senza mezzi termini, qui si ribadisce il fatto che l’implementazione di severe norme anti-trust sarebbe il solo modo per impedire che Amazon, Facebook e le altre grandi aziende che operano nel World Wide Web riescano a influenzare le decisioni collettive attraverso la capacità che hanno di “entrare” nelle vite di tutti noi. Ma quanto detto in riferimento ai giganti che dominano il mondo digitale vale anche per le grandi compagnie che operano nel settore farmaceutico e in quello agroalimentare. In questi settori pochi colossi dominano il mondo sia della produzione che della distribuzione, con gravi conseguenze sulle decisioni collettive. Ora, è possibile invertire la rotta e fare in modo che gli attori politici – ovvero gli stati nazione – ritornino a fare quello che ci si aspetta facciano, ovvero che operino quali regolatori del mercato? È insomma possibile che i mercati tornino ad essere quello che si voleva fossero, ovvero luoghi in cui tanti attori agiscono in base alle regole della concorrenza (le leggi anti-trust servono a questo, infatti, cioè a rendere possibile la concorrenza)? Certo che è possibile. Un esempio, tratto dalla storia statunitense: la Standard Oil all’inizio del 900 dominava il 90% del mercato e poi una sentenza della Corte Suprema, nel 1911, ne decretò lo scioglimento e la suddivisione in trenta gruppi più piccoli. Casi di questo genere certo non mancano. Ma, in virtù di quell’inerzia sistemica che rende così difficili i cambiamenti, bisogna constatare che, generalmente, una volta che un processo si è messo in moto, frenarlo o dirigerlo in una direzione diversa comporta costi molto alti – un po’ come cambiare abitudini a livello individuale. Tanto più che il mantra secondo cui l’economia procede secondo le sue inesorabili leggi, quasi fossero leggi naturali, si è imposto a tutti i livelli nella mentalità collettiva delle democrazie occidentali.

Il punto è che la grande concentrazione di ricchezze nelle mani di pochi attori, così come la decisione di non implementare le leggi anti-trust, è la logica risposta a un imperativo ineludibile: ridurre la complessità del sistema globale.

Ed è vero che cambiamenti sistemici sono possibili solo se, a monte, vi è un cambiamento della mentalità, delle strutture del sentire, dei modi di pensare insomma. Lo spazio di manovra che è stato concesso alle big companies da molti decenni a questa parte è ormai molto ampio, immaginare che queste facciano un passo indietro e rinuncino a parte dell’autonomia acquisita sarebbe ridicolo. Ed è altrettanto difficile immaginare uno scenario in cui una presa di coscienza collettiva, che si traduce poi in concrete scelte politiche e in leggi votate da Parlamenti, porti a limitare l’influenza dei grandi attori della produzione e distribuzione di beni e servizi. Tuttavia, per quanto possa sembrare irrealistica, questa è la sola via percorribile: infatti non esiste la società, ma esistono solo individui che si aggregano per agire negli spazi ove avviene l’azione politica, o quella economica. Tali spazi si trovano in un costante rapporto di interpenetrazione, per quanto ognuno sia governato da leggi e regole proprie (chiedere a un’impresa di ridurre i propri profitti sarebbe ridicolo; ma sarebbe altrettanto grave chiedere a uno stato di non esercitare la propria sovranità). In virtù di tale interpenetrazione, è possibile sia che i giganti dell’economia influenzino le decisioni prese dagli attori politici, sia che le decisioni politiche pongano dei limiti all’azione delle grandi corporations. Finora quest’ultima possibilità non si è verificata, e noi tutti ne paghiamo le conseguenze. La prima, e la più evidente, conseguenza è data dalle cosiddette crisi economiche. Dico “cosiddette” perché queste – sia quella che seguì alla crisi finanziaria del 2008, sia quella che farà seguito alla pandemia – non sono primariamente battute d’arresto nello sviluppo produttivo e commerciale, ma sono soprattutto grandi trasferimenti di ricchezza dalle mani di alcuni alle mani di altri – e questi ultimi, i beneficiari delle cosiddette crisi, anche prima di esse non se la passavano affatto male. Di fronte a tale stato di cose, esprimere giudizi moralistici sull’avidità dei ricchi e delle grandi imprese sarebbe fuori luogo. Il punto è che la grande concentrazione di ricchezze nelle mani di pochi attori, così come la decisione di non implementare le leggi anti-trust, è la logica risposta a un imperativo ineludibile: ridurre la complessità del sistema globale. L’autopoiesi di un sistema in cui operano pochi attori avviene secondo schemi più lineari e maneggevoli. Questo stato di cose si capisce meglio se si considera che di fronte ai paesi del ricco occidente si presenta un concorrente di enormi proporzioni, il quale persegue una politica di lenta ma decisa espansione: la Cina. Favorire grandi concentrazioni oligopolistiche presenta un indubbio vantaggio competitivo, se si deve confrontarsi con un gigante come la Cina. Non si deve dimenticare che la politica espansionistica della Cina, per ora ancora agli albori, avviene sul terreno economico. Ma si tratta di un terreno in realtà in cui la Cina opera con intenti strategici, ovvero geopolitici. E del resto, la geoeconomia non mai stata davvero distinguibile dalla geopolitica. Dunque, lamentare i danni che le grandi concentrazioni oligopolistiche provocano a tutti noi, inermi cittadini delle democrazie occidentali, serve forse a poco. La politica interna, da questo punto di vista, non esiste, esistono solo gli imperativi dettati dalla geopolitica. Presentarsi nello scenario globale muniti della forza d’urto rappresentata da grandi concentrazioni societarie aiuta l’Occidente a competere con la Cina, su un terreno in cui distinguere gli aspetti strategici da quelli economici è impossibile. Rendersi conto di tutto ciò aiuta a capire la “normalità” in cui viviamo. Ma aiuta a capire anche che, se dobbiamo sopportare il potere che viene esercitato sulle nostre vite dalle grandi corporations per ragioni geopolitiche, dovremmo far in modo che ne valga la pena: dovremmo cioè far in modo che non scompaiano quei valori democratici che hanno da sempre segnato la storia e cultura della parte del mondo in cui viviamo. Sarebbe infatti un vero disastro se, per permettere alle imprese dei paesi ricchi e democratici di essere competitive e forti nell’arena globale (un’arena in cui, ripeto, di fatto l’elemento geopolitico non è distinguibile da quello geoeconomico), si dovesse rinunciare a mantenere in vita i fondamenti della democrazia. L’assetto dei paesi democratici si è retto finora su un presupposto di fondo che sarebbe suicida mettere in discussione, ovvero: la libertà di fare impresa, che produce inevitabili diseguaglianze, può essere compensata dal fatto che, nello spazio politico, i cittadini godono di alcune libertà fondamentali (libertà che possono essere esercitate solo se, grazie ad adeguate misure di welfare, un individuo non rischia di finire nella miseria). Oggi questo presupposto rischia di venir messo in discussione in modo definitivo se si decide che il diritto delle grandi corporations di espandersi senza limiti vale più della vita dignitosa dei singoli cittadini.

SALTO in collaborazione con: Kulturelemente