Società | Malattia mentale

Breve storia della dignità

A 40 anni dalla Legge Basaglia che abolì i manicomi Merano ricorda la figura dello psichiatra veneziano con dibattito, film e libro di cui pubblichiamo un estratto.
Basaglia, Franco
Foto: upi

“È stato in grado, a differenza di tanti all’epoca che forse pure si rendevano conto dell’orrore del manicomio, di assumersi delle responsabilità molto gravose, perché Basaglia si è mosso, aprendo porte, attivandosi anche in mancanza di una legislazione”. Così parlava del suo maestro e mentore lo psichiatra salernitano Peppe Dell’Acqua. La legge (180) arrivò il 13 maggio 1978, 40 anni fa; regolamentò il Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) e istituì i servizi di igiene mentale pubblici, ma soprattutto sancì la chiusura degli ospedali psichiatrici. Manicomi che all'epoca erano 98 e in cui erano rinchiuse 89mila persone “affette per qualunque causa da alienazione mentale”, tenute in condizioni spesso impietose, lasciate nella sporcizia e subendo trattamenti - considerati terapeutici - con le camicie di forza e l’elettroshock. Fra i ricoverati c’erano omosessuali e prostitute ma anche bambini, non esistevano infatti limiti di età per il ricovero, era sufficiente un certificato medico che dichiarasse il bambino pericoloso per sé o per gli altri, anche se il piccolo era semplicemente iperattivo o soffriva di disturbi dell’apprendimento. Dal 1913 al 1974 nel manicomio Santa Maria della Pietà di Roma furono internati 293 bambini con meno di 4 anni, e 2.468 tra i 5 e i 14 anni. Va detto che non tutti i manicomi chiusero subito, mancavano del resto strutture alternative o parenti a cui affidare i pazienti. La dismissione è andata avanti fino agli anni 2000.

La legge che porta il nome di Basaglia ebbe il merito di iniziare il processo di destigmatizzazione della malattia mentale e di restituire ai “matti” il diritto di cittadinanza e la dignità. La strada tuttavia è ancora lunga. Dopo la conquista, sudata, della chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) - sostituiti dalle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) -, ancora si parla di contenzione fisica, elettroshock (derubricato in verità a terapia elettroconvulsiva) e porte chiuse, anche e soprattutto in Alto Adige. Per quanto ancora?

 

Basaglia a Merano

 

“La legge Basaglia prevedeva la chiusura dei manicomi - si ricorda ancora Pergine, dove i pazienti venivano rinchiusi in condizioni parzialmente disumane e senza alcun diritto – per rimpiazzarli con servizi territoriali, vicini al luogo di residenza. Basaglia ha aperto le porte, fatto abbattere mura e manicomi – come simbolo per le mura nelle teste, che sono spesso ancor più difficili da ‘demolire’. Perché la paura di ‘essere pazzo’ in molte persone c’è sempre ancora ed è così grande da impedire loro di cercare tempestivamente aiuto”. A tratteggiare il quadro locale è la primaria del Servizio psichiatrico del Comprensorio sanitario di Merano, Verena Perwanger, la quale sottolinea anche la presenza di nuove sfide, fra cui le cure psichiatriche con background migratorio o la violenza giovanile.

Stasera presso il centro di riabilitazione “Casa Basaglia” a Sinigo si celebrano i 40 anni dalla legge 180 portando sul tavolo del dibattito domande di stringente priorità in termini di cura della malattia mentale: qual è la situazione in Alto Adige a distanza di 40 anni dalla riforma della psichiatria? Cos’è stato fatto? Come deve proseguire lo sviluppo?. La serata (l’entrata è libera) inizia alle ore 20:30 con il film documentario in lingua italiana “La favola del serpente”, a seguire la presentazione del libro “All’ombra dei ciliegi giapponesi – Gorizia 61” di Antonio Slavic (anche lui per anni sostenitore di Franco Basaglia), uscito ieri per la Collana 180 – Archivio critico della salute mentale e che sarà presentato al Salone del Libro di Torino. In chiusura seguirà una discussione su questi temi con rappresentanti degli interessati, familiari ed esperti.

 

La favola del serpente (La fable du Serpent) Pirkko Peltonen 1968 

 

“Il libro di Slavich è il modo che ha scelto la nostra casa editrice di ricordare questo anniversario, con la volontà di portare al grande pubblico una narrazione, tra l’altro autobiografica e in ‘presa diretta’, che andasse all’origine di questa storia. Una scelta che nasce anche dal desiderio di dare sempre nuovi strumenti di conoscenza e comprensione alle nuove generazioni, soprattutto quelle nate dopo il '78”, dichiara Aldo Mazza, direttore delle Edizioni Alphabeta Verlag che dal 2012 hanno inserito nel proprio catalogo la Collana 180. Si tratta, appunto, di un testo autobiografico inedito che è una testimonianza diretta dei primissimi mesi e anni del lavoro di Basaglia a Gorizia. Il racconto si snoda, infatti, tra il 1959 il 1968 e raccoglie le prime emozioni, le paure, le incertezze e le speranze di due uomini soli che si ritrovano nel manicomio di Gorizia accomunati a un impensabile progetto di cambiamento. Eccone un estratto: 

 

Dal capitolo “La solitudine di Basaglia”

 

Le grandi imprese, anche quelle piene di significati e destinate a risuonare a lungo nel tempo, inclusa quella goriziana, hanno spesso un inizio modesto, quasi minimalista. L’epos si è via via dipanato intorno a persone in carne e ossa, non a icone, sempre buone, sapienti e coraggiose; persone che hanno pensato e tentato la loro strada, magari per successive prove ed errori, cercando di capire la situazione concreta e determinata nella quale si sono calati o cacciati, e facendo poi quanto possibile e doveroso per trasformare la realtà, per sé e per gli altri, in qualcosa di più e di diverso rispetto alle accomodanti aspettative generali. 

Con questo stato d’animo deve essersi presentato Franco Basaglia alla direzione dell’ospedale psichiatrico provinciale di Gorizia il mattino del 16 novembre 1961. Qualche traccia di uno dei pochi insegnamenti del suo maestro Belloni – “prima di tutto evitare le grane” – rimaneva nel suo riserbo poco loquace, “ticcoso”, timido e cortese, ma nel contempo un po’ freddo, nell’accogliere l’omaggio dei maggiorenti dell’ospedale.

Gli venne incontro l’ispettore-capo Michele Pecorari, più curvo che mai: in fondo si trattava del nuovo direttore! E le gerarchie e i relativi poteri erano tenuti in gran conto nel manicomio, tanto più che il potere del direttore doveva servire a legittimare a cascata i poteri di ciascuno dei sottoposti nella gerarchia. Seguendo fiducioso il rito, Pecorari sottopose al direttore il registro delle contenzioni disposte dai medici (o semplicemente praticate dagli infermieri) il giorno precedente, per la firma di autorizzazione. Basaglia lo guardò con aria perplessa e interrogativa, e dopo un indugio che dovette sembrare assai lungo agli astanti disse semplicemente: “E mi, no firmo!”. L’effetto fu quello di uno sparo nel buio: addio al prudente insegnamento di Belloni. […]

Nel corso di quel primo giro a passo di corsa per i reparti maschili e femminili, Basaglia vide abbastanza da ribadire e confermare, nella maniera più esplicita, il divieto di legare chiunque, ai letti, ai termosifoni o agli alberi. Si chiuse nel suo ufficio. E che altro poteva fare, così, solo? Cos’altro poteva disporre, ordinare, comandare, strepitare? Come usare in modo ben finalizzato, e per una giusta causa, l’enorme potere formale che la legge di allora conferiva ai direttori di manicomio? Un po’ come nel caso delle contenzioni: poteva sì ritirare le deleghe in bianco, ma non poteva fare tutto da solo. Ne parlò a colazione con l’assessore Marchesini; raccontò le sue pene ai primari venuti dall’ospedale civile, che gli avevano organizzato una cena di benvenuto. Più tardi, nelle sue stanze d’albergo, un Basaglia insonne decise che non poteva fare la fine del predecessore Canor, e che in qualche modo doveva reagire, magari a muso duro.