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Il corpo della femmina

Veronica Pacini nel suo esordio letterario usa il corpo come mappa della geografia esistenziale.
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Foto: salto.bz/fandango libri

L’esordio letterario di Veronica Pacini è un romanzo di formazioni che sembra accogliere molto della vita dell’autrice. La protagonista de Il corpo della femmina, pubblicato da Fandango, si chiama Erica; la si incontra da bambina e la si accompagna durante tutte quelle esperienze che le permettono di conoscere il proprio corpo così da poterlo odiare. Per Erica il corpo non è solo il contenitore di una personalità che si sviluppa nel tempo, ma è lo strumento conoscitivo d’eccezione e il campo di battaglia dove sfogare eventuali frustrazioni. Ciò si traduce nella possibilità di tagliare la pelle per dare forma a un dolore quasi ancestrale e di martoriare il viso con la pressione dei polpastrelli e la forza penetrante delle unghie.

È attraverso la carne, intesa come mezzo esperienziale, che Pacini decide di raccontare il rapporto con la famiglia partendo dalla relazione a tratti violenta con la sorella maggiore. Quella di Erica è una famiglia che non mostra le tensioni relazionali: litigi, soprusi, intolleranze tracciano le dinamiche familiari eppure rimangono sempre nascosti dietro la facciata della falsa quiete. Quel nucleo composto dai genitori e dalle due sorelle accoglie tutti i tratti disfunzionali della famiglia tradizionale tra cui l’impossibilità di avanzare un’aperta e aspra critica alla propria famiglia. L’indisponibilità a mostrarsi onesti verso alcuni legami non coincide però con l’intima consapevolezza dei limiti di quegli stessi legami. Nel momento della morte della nonna – addio che Erica vive osservando, toccando, perlustrando il corpo rigido oramai senza vita – Erica conosce la vera personalità della parente. Durante l’ultima notte di veglia funebre, la protagonista scopre che la nonna fumava di nascosto e la chiamava “la nipote pensionata”. La leggera schiettezza della nonna restituisce una parvenza di realtà alla tipica bella famiglia di provincia, custode di piccoli segreti così taciuti da diventare inconfessabili.

Forse figlia di un certo perbenismo provinciale è anche la resistenza che Erica mostra nel buttarsi nelle situazioni. Lontana dalla piccola realtà d’origine, tra le strade di Bologna, Parigi, Bilbao Erica sembra non condividere con nessuno il suo dolore, il suo piacere, i suoi desideri: in quello che pare a tutti gli effetti un sistema di negazione, Erica si rifugia nel controllo ossessivo e nella punizione consolatoria. In una posizione di apparente distacco dalle cose della vita non c’è posto per il desiderio. La sessualità – faccia scoperta della pulsione – è per Erica una materia dove eccellere per il piacere altrui, una condotta da osservare tanto nell’astinenza quanto nella pratica: “Tenevo conto dei miei partner, una lista mentale che nell’allungarsi mi faceva sentire meno rotta. Non cercavo il piacere e nessuno di loro sembrava curarsene. Come i fedeli, credevano; come i fedeli peggiori, si accontentavano, per credere, del sentimento di pace che li invadeva dopo la funzione. Io mi prendevo da ciascuno un po’ di calore, un po’ di esperienza e una riga in più da mettere sulla lista. In cambio mi adoperavo per il piacere dell’altro, mi impegnavo nell’esecuzione di tecniche diverse e in una sinfonia di sospiri per essere ricordata come la migliore, e perché tutto finisse presto”.

Il corpo della femmina ha il pregio di raccontare la verità della protagonista. Erica può suscitare tenerezza o fastidio, in lei ci si può immedesimare oppure da lei ci si può allontanare, tensioni che le lettrici e i lettori possono provare perché Erica la si impara realmente a conoscere. Pacini non teme di soffermarsi sui dettagli dell’esistenza di Erica: con grande disponibilità riporta i suoi pensieri e le sue azioni dando vita a un libro che è a tratti poetico, a tratti diretto, a tratti, forse, autobiografico.