Economia | ENI

Corruzione internazionale

Secondo la magistratura italiana il colosso ENI avrebbe messo in atto pratiche corruttive in Algeria, Nigeria e Congo Brazzaville. La Guardia di Finanza indaga
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Foto: eni
Lunedì 2 gennaio 2017 le azioni ENI scambiate sul mercato della Borsa di Milano valevano 15,64 euro; la quotazione del 13 settembre, invece, è pari a 13,56 euro, il 13% in meno. La multinazionale italiana ha cumulato tra il 2015 ed il 2016 un rosso di oltre 10 miliardi di euro. ENI, spiega il sito aziendale, è comunque "considerata una delle supermajor globali del settore Oil & Gas, e opera in 73 Paesi".
Sono almeno tre, al momento, quelli in cui secondo la magistratura l'azienda italiana - che è controllata di fatto dal ministero dell’Economia, che detiene il 30,10% delle azioni in forza della partecipazione detenuta sia direttamente sia attraverso Cassa Depositi e Prestiti - avrebbe messo in atto pratiche corruttive, e precisamente Algeria, Nigeria e Congo Brazzaville. Quest'ultima, secondo un articolo dell'Espresso, è annotata nell'ultimo bilancio semestrale della compagnia. "Poche righe, scritte in linguaggio tecnico, per spiegare che lo scorso 6 luglio la la Guardia di Finanza ha notificato alla multinazionale un'informazione di garanzia che qualifica Eni come società indagata per corruzione internazionale" spiega il settimanale.
 
Salto.bz ha chiesto ad Antonio Tricarico, direttore di programma di Re:Common, organizzazione non governativa che realizza campagne e ricerche in ambito finanza, ambiente e sviluppo, di commentare la notizia. "Le statistiche ci dicono che i due settori di norma più corrotti a livello globale sono quello delle armi e quello del petrolio. Esiste però, a mio avviso, una speficità dell'ENI: se noi prendiamo i dati della SEC, della Consob americana, e paragoniamo l'esposizione in termini di indagini in corso delle principali major petrolifere, vediamo che ENI è coinvolta in un numero maggiore di indagini -sottolinea Tricarico-. Non credo che questo sia legato ad un accanimento della Procura di Milano, e lo dimostrerebbe anche la decisione dell'economista Luigi Zingales, che si sarebbe dimesso dal consiglio d'amministrazione (nel luglio del 2015, ndr) proprio per forti divergenze sulla gestione di questo aspetto. A me non risulta che niente di simile sia successo in altre compagnie petrolifere".
 
Già nel 2010, ricorda Tricarico, una controllata ENI era stata coinvolta in un caso di corruzione di fronte alla giustizia USA, per il "caso" Bonny Island in Nigeria. "Dopo la chiusura del procedimento, la società aveva due anni in cui mettere in piedi una efficiente rete anti corruzione, ma secondo l'accusa della Procura di Milano impegnata nell'inchiesta denominata 'OPL245', in quegli anni e sempre in Nigeria l'aziena stava realizzando un episodio di corruzione ancora più grande di Bonny Island".
 
Ad alimentare il rischio corruzione, secondo l'esponente di Re:Common, è una "competizione sempre più grande nella ricerca di nuovi giacimenti, poiché il valore delle società petrolifere si basa sulle stime delle riserva: OPL245, ad esempio, farebbe aumentare quasi del 50% il volume di quelle di ENI. La frontiera petrolifera non esplorata, lasciando stare per un momento i problemi ambientali e quelli legati ai cambiamenti climatici, si trovano in Paesi con uno stato di diritto limitato, problemi cronici di corruzione ed economie che dipendono dal petrolio. Le ultime grandi scoperte di ENI, così, si concentrano Kazakhstan, Egitto, Nigeria e Mozambico. Non è una giustificazione, però, affermare che c'è una tradizione di corruzione, e quindi le imprese sono tenute a pagare".
 
A chiudere il cerchio, resta un problema di fondo: "La sfida è quella di una trasformazione del business, come sembra stia facendo ENEL. Nel caso dell'Oil&Gas, nel momento in cui tu continui ad esplorare super mega giacimenti, è inutile annunciare di voler disseminare le piattaforme di pannelli solari. Gli investimenti sulle rinnovabili di ENI restano marginali, e soprattutto non sono compatibili con il core business. Che almeno fino al 2050 non è destinato a cambiare -conclude Tricarico-, nonostante l'Accordo di Parigi".