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“Liberiamoci dalla paura”

Dalla difficoltà di mettersi in gioco a quella di essere madre, via mare: dialogo con Katherina Longariva, facilitatrice, co-fondatrice di blufink e insegnante di yoga.
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Foto: Harald Hofer

Conobbi Katherina Longariva nel 2009, a un incontro informale al caffè Exil di Bolzano. Tema delloStammtisch” era la democrazia diretta: pochi mesi dopo si sarebbe svolto il primo referendum provinciale nella storia dell'Alto Adige. Nel 2011, con Katharina Erlacher, Longariva ha fondato la cooperativa sociale blufink che di lì a pochi anni avrebbe accompagnato il percorso di elaborazione di una nuova legge provinciale sulla partecipazione – prima esperienza a sua volta “partecipativa” per il Landtag – e la Convenzione per la riforma dello Statuto. In queste settimane, blufink organizza uno dei suoi eventi più conosciuti: la “conflict kitchen”. Una dozzina tra relatrici ed esperti, seduti a coppie su tavoli differenti, affrontano il tema della serata da diversi punti di vista – con un piatto caldo e un moderatore a seguire lo scambio (anche acceso) di opinioni, esperienze, idee. Chiunque è libero di porre domande e spostarsi di tavolo. Prossimo appuntamento martedì 17 ottobre sul tema pesce.

Salto.bz: In cosa consiste esattamente il vostro lavoro, qual è la vostra vocazione?
Katherina Longariva: (ride) Questa sicuramente è la domanda più difficile, facciamo difficoltà a rispondere. All'inizio, alla fondazione di blufink, abbiamo cercato di definirci e di comunicarlo, ma alla fine abbiamo lasciato perdere e ci siamo messe a lavorare, a fare. Quando incontro le persone e negli small talk mi chiedono “hey, che lavoro fai?”, devo fare un lungo discorso per spiegare quello che realizziamo, i progetti concreti, cosa ci anima nel nostro impegno. Ma dopo un po' vedo le persone annoiarsi: in una situazione serale, vorrebbero sapere in una frase quello che fai. Ho iniziato a dire che sono “moderatrice”, “imprenditrice”, che “lavoro nel sociale”.

Formulo meglio la domanda: come definirebbe il “tandem” con Katharina Erlacher?
Con Katharina mi sento in un “flusso”: ci capiamo anche senza parlarci. Noi ci definiamo “facilitatrici” di processi di cambiamento sociale, ecologico ed economico, e blufink è la nostra cornice creativa. Da un lato c'è una parte più imprenditoriale, dove offriamo servizi – quali moderazioni, consulenze, Prozessbegleitungen. Dall'altra abbiamo i nostri progetti che portiamo avanti: proviamo nuovi formati, promuoviamo temi che ci interessano. Col tempo siamo diventate un punto di riferimento: le persone vengono da noi con temi e idee concrete da realizzare, vogliono cambiare qualcosa nel loro ambito sociale. Noi le mettiamo in contatto, le “colleghiamo” a persone, organizzazioni, gruppi che hanno altre competenze. Creiamo un Netzwerk. Da 6 anni ci piace far nascere nuove sinergie, supportare iniziative nell'ambito del social change. E il bello del nostro lavoro è proprio imparare dal confronto con altre persone.

Facciamo incontrare persone diverse che vogliono portare avanti qualcosa. Però manca la collaborazione su più livelli: politica, società civile organizzata, cittadinanza. E se manca la volontà, le sinergie non vengono messe in atto.

La “conflict kitchen” è una combinazione di persone che vogliono cambiare qualcosa, tutt'altro che scontata: una situazione che si crea grazie alla vostra facilitazione, mettendo assieme realtà apparentemente molto diverse tra loro. Una cosa insolita  e un vostro punto di forza, non crede?
Però manca la collaborazione su più livelli: politica, amministrazione, associazioni e società civile organizzata, la cittadinanza tutta. Osserviamo come il potenziale dei gruppi di persone spesso non venga valorizzato. Un esempio concreto è l'accoglienza dei profughi e rifugiati: ci sono associazioni di volontariato, che lavorano professionalmente mettendo le proprie competenze a disposizione, con la volontà di migliorare e cambiare le cose. La politica potrebbe “salire su questo carro” e utilizzare – letteralmente sfruttare – questo potenziale già esistente. Potrebbe dire “siete molto attivi, avete un'energia, qualcosa che vi spinge perché vi sta a cuore. Venite e ne parliamo”. E invece preferisce andargli contro. Noi cerchiamo di dare un piccolo contributo, mettendo assieme persone diverse. Ma questo è solo un passaggio, non basta dire “ne parliamo” e poi rimandarli a casa: se manca la volontà, le sinergie che si creano sul momento alla fine non vengono messe in atto.

Streitkultur, Zivilcourage, mehr Freiräume: come è cambiato il Sudtirolo da quando lavorate su queste parole chiave? La “cultura della discussione” è migliorata? A giudicare dal caso Malles non si direbbe. Eppure, il conflitto sull'uso dei pesticidi potrebbe essere proficuo.
Osservo che la cultura politica, e il tono attraverso il quale viene comunicata, è molto più basata sul dialogo e l'apertura. La Gesprächskultur è un primo passo: il rispetto reciproco e un'apertura (non solo mentale ma a livello di cuore) ad altri punti di vista. Mettersi nei panni degli altri, per capire l'altro: solo se mi apro riesco a conoscere, scoprire ed esplorare qualcosa di nuovo. Sto notando che le parole dialogo e partecipazione sono diventate parte del nostro quotidiano. Ma quando ci sono temi conflittuali che rappresentano delle sfide e delle criticità – e qui veniamo alla Konfliktkultur – questo entrare in dialogo con una certa apertura, spesso non lo vedo, non lo sento. Percepisco al contrario paura, chiusura, il timore di perdere qualcosa, il difendere la propria posizione.

Le parole dialogo e partecipazione sono entrate nel nostro linguaggio quotidiano. Ma percepisco ancora paura, chiusura, l'assenza di uno scambio onesto, che apprenda dalle critiche.

Questo atteggiamento si è visto anche nei percorsi partecipativi della Provincia?
Nel processo sulla democrazia diretta in poche occasioni le persone si sono mostrate come sono, si sono aperte. Creare “qualcosa di nuovo” vuol dire lasciare la propria posizione, che però non significa tradire la propria identità o perdere i propri valori, ma essere curiosi verso un'esperienza nuova. Nel sistema politico manca un'apertura alla critica, uno scambio onesto, l'apprendere dalle critiche viste in maniera positiva. Se c'è un problema, questo non viene discusso apertamente, non vengono coinvolte le persone, invitate a partecipare, integrate nei percorsi amministrativi – che siano leggi o progetti. Sul modo di lavorare, non vedo alcun cambiamento. Si può parlare di Gesprächskultur, di spazi di dialogo, ma ciò di cui abbiamo bisogno è un altro modo di collaborare con quanti hanno opinioni totalmente diverse dalle nostre. Che vuol dire: entrare in relazione.

La visione futura per un Sudtirolo innovativo? Un luogo dove le persone vogliono venire a vivere. Serve una “cultura della libertà” e una “cultura del fallimento”, come negli USA.

Da questo punto di vista, il Sudtirolo non sembra un contesto assai “innovativo”.
Parliamo tantissimo di innovazione a livello di progetti, ma manca l'innovazione sociale, per trovare nuove metodologie. L'essere “innovativi” ha molto a che fare con la cultura del posto. Possiamo provare a essere più innovativi, ma dovremmo lavorare di più su una nostra “cultura della libertà”, nella quale le persone si sentano libere di esprimere le proprie idee e critiche. Viviamo in una democrazia, non dobbiamo avere paura di dire la nostra! Se vogliamo un Sudtirolo innovativo, che sia attrattivo anche per i giovani – e non solo per gli over-60 che vengono in vacanza – va creata un'atmosfera culturale di apertura e valorizzazione. Non basta la Gastfreundlichkeit turistica.

Cosa frena questa visione del futuro? Si ha forse timore della libertà, di lanciarsi senza il paracadute delle istituzioni? Ha già citato più volte il termine “paura”.
Ho fatto un corso di un anno vicino a New York. Una cosa che mi piace degli americani, pur tra le molte negative, è questa failure-culture, la “cultura del fallimento” e dell'ammettere gli errori. Fa parte delle start-up e delle imprese: negli USA non puoi diventare CEO di una compagnia se non hai visto fallire un'azienda almeno una volta. Puoi andare avanti solo se commetti errori, e se impari dagli errori. Il fallire è una chance, e pure le critiche sono un'opportunità. In Sudtirolo spesso ci si sente aggrediti e attaccati personalmente: dai fatti si scivola sul piano personale. È la cultura del doversi difendere. Nonostante tutto, permane l'idea dell'essere “bravi in tutto”, “ombelico del mondo” – come diceva il compianto mio professore Christoph H. von Hartungen. Ribadisco, è una questione di atteggiamento personale da cambiare, e di una cultura da creare. L'Alto Adige ha le dimensioni del quartiere di una grande metropoli. Un piccolo territorio può essere un vantaggio.

Ma allora di cosa hanno veramente paura i sudtirolesi?
Non voglio trarre facili conclusioni sociologiche. Ma una delle cose che non riesco a capire – e non è solo legata all'Alto Adige – è la paura dell'islamizzazione. Un mio amico lavora in Cina, alla filiale di un'azienda sudtirolese, e sono andata a trovarlo. Se si guarda a cosa sta facendo la Cina, a livello mondiale, ecco: di questa nuova egemonia dovremmo avere “timore”. La Cina sta invadendo il mondo – effettivamente più da un punto di vista economico, mentre la presunta “islamizzazione” è un fattore culturale. L'abbiamo vista anche nel “Forum dei 100” della Convenzione per l'Autonomia, la paura di perdere l'identità, o la propria cultura. Dà noia quel restare sempre sugli stessi temi ridondanti, che ritornano sempre: perdiamo un sacco di energia portando i soliti temi sul tavolo. Temi che nella società forse non esistono neanche più, se non a un altro livello.

Nella Convenzione per l'Autonomia abbiamo visto la paura di perdere la propria identità, la propria cultura – così come piccolissimi passi di avvicinamento. Ci vuole un lavoro a un livello più emozionale, che vada più in profondità.

O forse viviamo ancora in società separate, non solo per lingua o cultura...
Alle presidenziali americane, alcune ricerche hanno dimostrato che gli elettori di Clinton e quelli di Trump in molti casi non si incontreranno mai nella loro vita. Restando sul piano globale/locale, anche in Alto Adige le persone vivono nei loro bubbles, con chi ha le stesse idee e i medesimi interessi. Questa per me è una sfida: come blufink vediamo che è veramente molto difficile creare dei momenti in cui persone di diversi bubbles si incontrino. Nell'ottica di un cambiamento sociale positivo, che porti a una vita più libera e sostenibile, portare persone molto diverse a incontrarsi tra loro – come nell'esempio della conflict kitchen – funziona sino a un certo punto. Non basta portarli assieme per poco tempo: ci vuole un lavoro più intenso, più legato al corpo, con metodologie che vanno più in profondità. Ed è quello che sto esplorando negli ultimi due anni.

Lo stesso discorso vale per la Convenzione sullo Statuto d'Autonomia?
Nel “Forum dei 100” moderavo il gruppo sulla cultura. C'erano persone di lingua tedesca – come gli Schützen – e altre di lingua italiana: tra loro ci sono stati piccolissimi momenti di avvicinamento. Ma ciò di cui ci sarebbe stato davvero bisogno è un lavoro profondo sulla storia condivisa: lavorare insieme sulle nostre radici passando da un livello solo “mentale” – fatto di fredde argomentazioni – a un livello più “emozionale”, dove creare possibilità di apertura, lasciare le proprie posizioni e incontrarsi come persone. Stiamo cercando di capire quale sarebbe il format più adatto.

La nostra società è sempre più legata alla cultura della paura, rafforzata dai media. Se invece di inseguire la cronaca nera dessero maggiore spazio alle positive news...

Blufink promosse a suo tempo delle Stadtrundgänge, tour guidati sul consumo consapevole – e “passeggiate antiviolenza”. Da un paio d'anni a questa parte, a Bolzano non si fa altro che parlare di “degrado” e violenza. C'è davvero questo improvviso bisogno di sicurezza?
Mi ripeto: la nostra società è sempre più legata alla cultura della paura, rafforzata dai media. Se solo portassero l'80% delle buone notizie, le positive news, un tipo di informazione che rappresenti il lato positivo della nostra vita... Mi pare che i media campino con le notizie negative, la cronaca nera, il “cercare di fare notizia”. Io non mi sono mai sentita insicura a Bolzano, eppure vivo vicino alla stazione. Ma sento molte persone che hanno paura la notte. Il Comune ha preferito investire in telecamere piuttosto che in un'opera di sensibilizzazione. Sono decisioni politiche

Da qualche mese è diventata madre di Leo. Come è cambiata la sua vita?
È un'esperienza nuova, che prima avevo solo sentito nominare. Vedo effettivamente la difficoltà, come donna, di conciliare il lavoro con il bambino – ovvero con tutti i “ruoli” attribuiti a una donna. In un certo senso, sto esplorando solo ora cosa significa essere donna, tutt'al più per chi ha difficoltà economiche o è ragazza madre. È un tema che sta maturando in me, legato al “gender” – e a come sono stata educata. Anche se i miei genitori non hanno mai fatto differenze tra me e mio fratello.

Da quando sono mamma la mia vita è cambiata. Penso ai miei genitori: da mio padre ho preso il radicamento e l'amore per la montagna, da mia madre il pensiero critico e il senso di libertà.

Il rapporto con i propri genitori cambia, quando a nostra volta siamo padri e madri?
Personalmente, sto cominciando a riflettere anche sulla morte dei miei genitori, e su cosa loro mi hanno tramandato. Mio padre mi ha trasmesso l'amore per le montagne, perciò mi sento molto radicata su questo territorio, riesco a capire il lato “patriottico” dell'Heimatbegriff, che difatti è molto territoriale. Questa terra con le montagne fa parte delle mie radici. Altra cosa che mi ha insegnato è godersi il momento, la bellezza, il cibo buono, un panorama. Mia madre mi ha dato il pensiero critico e aperto, nonché il lavorare creativo con le mani. E il senso per la libertà.

Oltre che facilitatrice, è anche insegnante di yoga. Cosa porta lo yoga nella sua vita?
Il lavoro corporeo è una risorsa di energia, che mi ha aiutato a radicarmi ancora di più in me stessa. Negli ultimi sei anni sono cresciuta, ho trovato la pace interiore, più radicamento, ho dato fiducia al mio corpo. Chi “lavora sul corpo” con queste pratiche di meditazione, agisce sulle proprie paure, va oltre i propri limiti ed esplora cosa vi sta dietro. Il tema della paura è un tema individuale. Lavorare sulle criticità, lasciare la comfort zone e andare oltre, nella zona di rischio, dove ci sono cose che non ti piacciono fare – come questa intervista... ma la faccio proprio perché non mi piace, per crescere. Si tratta di andare oltre i propri limiti, per scoprire chi possiamo essere come persone.

La paura è un tema individuale. Crescere significa lasciare la comfort zone, esplorare e andare oltre i propri limiti. Come rispondere a questa intervista...

Può essere un antidoto anche alla paura “sudtirolese” di cui parlavamo?
Nello yoga ci sono i chakra: il primo chakra è legato alle cose materiali, alle nostre radici, al legame di fiducia coi propri genitori. Quando le persone hanno molta paura, bisogna lavorare su quel chakra: si tratta di persone insicure, che hanno paura di perdere la propria identità, di non avere un'appartenenza. Mi sono venuti in mente gli Schützen... scherzosamente, forse gli suggerirei un lavoro di yoga del primo chakra. (ride)

I politici non conoscono abbastanza se stessi?
In generale, sarebbe importante che le persone si chiedessero di più chi sono e cosa vogliono portare al mondo. Soprattutto chi si trova in posizioni di leadership dovrebbe lavorare a qualcosa che ha senso per loro, e sull'autocritica, sul miglioramento e sviluppo di se. E se senti un conflitto interiore, o un blocco, ci sono esercizi del corpo – anche veloci – tramite cui entri in questo sentimento e il corpo ti aiuta a liberartene e andare oltre. Negli USA li utilizzano pure nelle aziende... Ma se mi immagino di lavorare su questo con i politici locali... (ride) è un po' difficile.

Ai politici locali consiglierei un lavoro di yoga sul primo chakra.

Una difficoltà intimamente legata al tema del potere.
Il potere spesso cambia le persone. Ma il potere in sé, come il conflitto, non è una cosa negativa. E qui torniamo alla Konfliktkultur. In ogni conflitto è insito anche il seme per nuove opportunità e soluzioni. Vedere il conflitto come un'opportunità non vuol dire che debba per forza esserlo, però è importante riconoscerlo ed entrare in maniera aperta nel conflitto. Il lavoro del “mediatore / mediatrice di conflitti” è un po' questo. E a livello culturale sarebbe una grande svolta.

Ha intenzione di restare in Sudtirolo?
Ho vissuto in parecchi paesi, e quando ho deciso di tornare è stata una scelta consapevole: come base l'Alto Adige mi piace molto. Ma vorrei sempre di più lavorare all'estero. Come blufink facciamo parte d'una comunità internazionale attiva nelle pratiche di cambiamento sociale. Il “lavorare sul locale pensando al globale” è ormai sempre più un “lavorare globale pensando locale”.

Preferisco il mare o la montagna? Mi piacciono entrambi.

Nella sua presentazione sul sito di blufink si legge: “Katherina Longariva ist ein See”. Quanto è importante per lei l'elemento acquatico?
Quando mi chiedono se preferisco il mare o la montagna, rispondo: tutti e due. Mi piace il mare, è sempre stato importante nella mia vita. Quando ero bambina, il miglior amico di mio padre aveva una barca a vela e abbiamo navigato molto. Ho fatto nuoto e snorkeling. Ma l'abbondanza di pesce, così come mi era stata raccontata, non esisteva più. Di recente ho fatto immersioni in Asia e c'era ben poco da vedere. La perdita di biodiversità è enorme. E tutto ciò che gettiamo “via” in realtà finisce in mare, la discarica del mondo: ci finiscono ormoni, glifosato, plastica e micro-plastiche. È un tema globale, connesso a quello del cambiamento climatico.

Per questo avete scelto di affrontare il tema “pesca” alla prossima conflict kitchen?
Sì, esatto. Come ospiti avremo, tra gli altri, l'etnologo Josef Pfattner – che per decenni ha lavorato in ambito umanitario tra Africa, Medio Oriente e Kosovo – il quale ci parlerà del nesso locale/globale connesso alle problematiche delle risorse naturali. Poi il biologo marino Martin Prader, l'attivista vegana Magdalena Gschnitzer, il pescatore Oumar Kande dal Senegal, la pescivendola Michela Pes... ma ora mi scusi, Leo ha deciso che è arrivato il momento di terminare l'intervista.