Cultura | Salto Weekend

Retaggi sul corpo

I piedi delle cinesi erano minuscoli così come i girovita delle occidentali “di vespa”. Espressioni di tradizioni o retaggi che lasciano i loro segni sui corpi femminili?
Foto3
Foto: upi

Susan Sontag ne “Davanti al dolore degli altri” (nottetempo, 2003) spiega come “assistere da spettatori alle calamità che avvengono in un altro paese sia una caratteristica ed essenziale esperienza moderna”. Racconta anche che “le informazioni su quel che accade altrove […] mettono in risalto i conflitti e la violenza […] di fronte ai quali reagiamo con compassione, indignazione, curiosità o approvazione, man mano che ciascuna miseria ci si para davanti agli occhi”. Nello stesso libro viene affrontata la questione della “caccia all’immagine più drammatica” considerata come una tendenza del tutto normale in una cultura in cui lo shock è diventato uno dei più importanti criteri di valore.
Queste pagine di Sontag mi sono tornate alla mente nel momento in cui mi sono avvicinata al fenomeno del loto d’oro, termine con il quale si indicano i piedi fasciati delle donne cinesi. Il fatto che abbia ricordato questi passaggi è dovuto al mio sconcerto davanti alle raffigurazioni – fotografie o disegni – delle piante e delle dita dei piedi deformate. Uno sconcerto, il mio, carico di giudizio nei confronti di un’usanza ritenuta erroneamente diversa rispetto ad alcune pratiche perpetrate in Occidente anche in tempi contemporanei. Questo sguardo giudicante ha però mostrato quasi subito la sua miopia: il punto non è quello che era fatto in Cina, ma quello che veniva e viene fatto ovunque sui corpi. C’è forse differenza tra il costringere un piede intorno a delle fasce e il costringere il busto intorno a un corsetto oltre all’organo interessato? Eppure gli scatti di Cameron Hack, che ha intervistato e fotografato quattro delle ultime testimoni della tradizione del loto d’oro, mi hanno colpito molto più di qualsiasi vitino di vespa. Compreso quello sfoggiato da Kim Kardashian in occasione del Met Gala del 2019 dove indossò un abito così stretto in vita da provocarle forti dolori e “rientranze” sulla schiena e a livello dello stomaco.


L’inizio della tradizione della fasciatura dei piedi – chiamata anche “loto d’oro” per l’andatura oscillante che fa acquisire – potrebbe (il condizionale è d’obbligo per la moltitudine di fonti divergenti) risalire al regno di Li Yü (961-75). In onore dell’imperatore, la concubina favorita, Fanciulla Soave, si fasciò i piedi con della seta bianca in modo che le punte assomigliassero alle estremità della falce lunare e danzò al centro di un loto d’oro alto un metro e ottanta tempestato di perle. Che tale narrazione sia quella corretta o meno, ciò che è indubbio è che i piedi di loto si diffusero prima tra la nobiltà e poi tra gli strati sociali più bassi rappresentando l’apice della femminilità fino agli anni Quaranta del Novecento sebbene il divieto della pratica fosse stato sancito nel 1912. Una fascia larga circa cinque centimetri e lunga circa tre metri veniva fissata alla parte interna del collo del piede, poi veniva passata con forza sulle dita a eccezione dell’alluce in modo tale da piegarle sotto la pianta. Si passava poi la benda attorno al calcagno così da avvicinare il più possibile il tallone e le dita. Il procedimento, ripetuto fino all’utilizzo dell’intera fascia, era solitamente eseguito dalla madre alla figlia quando quest’ultima era ancora piccola (tra i quattro e gli otto anni) con l’auspicio che la lunghezza dei piedi rimanesse tra i sette e i dodici centimetri. La sessualizzazione del piede bendato è strettamente legata al controllo della vita delle donne; secondo le antiche norme cinesi, le donne non dovevano lavorare: mani e piedi piccoli, così come una vita esile, indicavano un’impossibilità a sopportare sforzi fisici. Il piede grande, e dunque l’abilità di movimento, diventa così indice di povertà, una caratteristica quest’ultima che con il passare degli anni muta tanto che la maggiore resistenza all’interruzione della pratica della fasciatura si è assistita nelle aree più rurali del paese.


Senza voler soffermarmi sulle parti più scabrose di tale tradizione – infezioni, cancrene oltre a deformazioni permanenti – è interessante sapere che Fang Hsün, probabilmente lo pseudonimo di un aristocratico che scrisse circa trecento anni fa saggi molto noti in lode della fasciatura dei piedi enumerò cinquantotto varietà di loti umani. Se “petalo di loto”, “luna nuova”, “arco armonioso”, “virgulto di bambù”, “castagna d’acqua” erano i termini dati ai modelli principali, rotondità, morbidezza ed eleganza erano le tre qualità più rare di un piede che se gracile raffreddava la passione di chi lo guardava, mentre se troppo robusto comprometteva la femminilità. È sempre Fang Hsün a fissare le nove categorie di bellezza: qualità divina (né grassa né magra), qualità meravigliosa (debole ed esile), qualità immortale (ossa diritte, disarticolate), cosa preziosa (alta ma con pianta del piede larga e sproporzionata), cosa pura (troppo lunga ed esile), cosa seducente (grassa e piccola), cosa sproporzionata (stretta ma non sufficientemente arcuata), cosa ordinaria (grassa e piuttosto volgare), cosa falsa (calcagni larghi).
Leggendo questa classificazione mi è venuto in mente il modo in cui vengono indicate i vari tipi di fisici: a pera, fianchi e glutei più voluminosi rispetto al busto; a mela, gambe e braccia sottili mentre addome, fianchi e seno abbondanti; a rettangolo, poco seno, punto vita poco segnato, fianchi e spalle più o meno della stessa larghezza. Se oggi quando si fa uno dei numerosi test di body shape presenti online, si spera di essere una “donna rettangolo” con un fisico androgino e tonico così come spesso richiesto dai canoni della moda, un tempo si preferiva il corpo a clessidra. Strumento principe per rimodellare la vita è il corsetto, un capo rigido con lacci da legare sulla schiena creato nel 1500 con la precisa funzione di comprimere il punto vita. Il motivo che ha spinto le donne a indossare quello che in tempi recenti è stato definito uno “strumento di tortura” è la volontà di mantenere una postura eretta e il desiderio di attenersi agli standard di bellezza del momento: nel XVI secolo il corpo ideale vuole un torso allungato e conico e il corsetto arrivava dunque fino ai fianchi; nel XVII secolo il corsetto si accorcia così da avere una silhouette più corta e a clessidra; nel XIX secolo il corpetto è così stretto da alzare il seno e ottenere una forma a “s”. Fatto con una struttura di fili metallici, o ossa di balena, o stecche di legno, realizzato in seta, guarnito in pizzo o in raso, ogni bustino – per colpa dell’allacciatura sulla schiena e della struttura rigida – era causa di svenimenti, difficoltà respiratorie, malformazioni ossee, disagi, questi ultimi, sopportati e giustificati per il risultato finale: una vita di vespa esattamente come il piede piccolo.


A quanto pare il detto “se bella vuoi apparire, un poco devi soffrire” non solo ha origini antichissime, ma sembra non voler morire. È di qualche anno fa l’ondata di popolarità del Waist Trainer, un bustino elasticizzato in latex senza lacci e senza stecche rigide apprezzato dalle sorelle Kardashian che si sono mostrate sui social con indosso il corsetto. Il Waist Trainer avrebbe l’obiettivo di trasformare il corpo portando a un rimodellamento del girovita: è sufficiente indossare il bustino di qualche centimetro più stretto della propria circonferenza e con il tempo stringerlo fino alla misura desiderata. Come caratteristica vantaggiosa è menzionata la diminuzione del senso di fame, una condizione determinata dalla costante compressione sullo stomaco che rende faticoso l’atto del mangiare. Citare la contemporanea moda del Waist Trainer potrebbe aiutare a orientarsi nella complessa questione “tradizione o tortura”, “usanza o violenza patriarcale”, “moda o repressione”. Oggigiorno, scegliere di indossare un bustino modellante sembrerebbe essere una libera scelta individuale di seguire i dettami della moda, un’ingenuità che trascura come anche il proprio desiderio di aderire a certi canoni sia profondamente influenzato da norme culturali che attribuiscono valore alla magrezza e che non sono estranee all’oggettificazione del corpo femminile frutto del dominio maschile. Pratiche tradizionali e pratiche contemporanee si mostrano così molto più simmetriche di quello che spesso si tende a pensare: la Cina dei piedi fasciati, l’Occidente del corsetto e la contemporaneità del Waist Trainer raccontano di tre società che hanno bisogno di rendere il corpo femminile il corpo di una vittima per restituirgli un senso sociale.