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A proposito di Amleto...

...e degli assassini prossimi venturi. Su "Amleto", lo spettacolo andato in scena a Bolzano per la regia di Flora Sarrubbo (con gli attori del corso “Giovani in Scena”).
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Foto: Claudio Montresor

di Claudio Montresor

Giovedì sera, funestato dal caraibico meteo bizzarro nostrano, è andata in scena, presso la sala polifunzionale di via del Ronco a Bolzano, la quarta replica, dopo la prima di questo giugno al Teatro Stabile e la ripresa successiva a Laives, dello spettacolo “Amleto”. Il lavoro, per la regia di Flora Sarrubbo, attrice regista e pedagoga teatrale, vede sul palco numerosi ragazzi di tutta la regione, reduci dal corso “Giovani in Scena”, organizzato da molti anni ormai da Teatro Stabile e Provincia Autonoma di Bolzano. Gli spettatori, ricoverati causa tempaccio nella sala coperta, hanno assistito numerosi e non privi di un certo stupore, a qualcosa di più che ad un semplice saggio di fine corso.

Gli attori immobili già tutti in scena, l’assolo cantato di un pezzo di antica musica danese, lirico e irriconoscibile, un gigantesco orologio proiettato sullo sfondo annunciano, fin dall’esordio, che il teatro può alle volte tentare di esser altro dalla pedante riproposizione di un testo, anche grandioso come quello shakespeariano. Sugli scudi, o per meglio dire per terra e sul carrello mortuario della spesa utilizzato per portare le ossa del buffone di corte Yorick (forse lo spettro della merce che ci insegue imperterrito in ogni supermercato del globo), impegnati in una sorta di battaglia contro il tempo che ci incalza col suo ticchettio durante tutta la piéce, i due Amleti. Già, perché qui gli Amleti son due: uno più isterico, femminino, fisico, l’altro più guascone, ironico, maschile, quasi un Athos trasportato in Danimarca. E questo doppio ingaggia, contro se stesso, ma soprattutto contro la storia, il tempo (forse il nostro tempo?) un duello che dura per tutto lo spettacolo; ma lo scontro è vano, la vendetta tramata e sempre rimandata di Amleto non salva nessuno. Non c’è spazio per l’amore di Ofelia, non serve brutalizzare la madre-regina. Rimane solo il povero Orazio a contemplare una scena, o che è dir lo stesso, una platea, di morti. E’ il tempo che noi tentiamo di ammazzare che invece ci ammazza e ammazza (i più avveduti avranno ricordato Carmelo Bene); ce lo ricordano due enormi ghigliottine-orologio che incessanti battono il tempo scenico al ritmo di Steve Reich. La storia, anche la nostra, non solo quella del principe di Danimarca, si risolve “in strepito e furia che nulla vogliono dire”.

Con un sapiente uso delle luci, dei microfoni, del playback questo gruppo di giovani ci restituisce la dimensione spettrale del mondo, questa catena interminabile di corpi freddi, di assassini e di assassinati, di crimini dai quali siamo senza sosta circondati. E ci ritroviamo quindi come i personaggi della corte, con movenze di bambole a molla, dominati dall’incedere della storia, cortigiani ubriachi nelle libagioni, sudditi impegnati nel festeggiare il monarca assassino Claudio, fastidiati dai tanti Poloni, la cui logica fallace servile e cacofonica ci sovrasta (come nel lavoro shakespeariano di Stoppard). Ma se è vero che non si sfugge alla volgarità della storia, il tentativo di rompere il tempo e di sparare sugli orologi, di invertire il corso degli eventi e di arrestare il progresso sembra un compito, o un destino, non eludibile per chi non voglia arrendersi al ruolo di attonito becchino.