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Quando il fascismo salvò Walther

La statua del poeta von der Vogelweide: Tolomei voleva toglierla, Roma disse no per i rapporti con la Germania. Di Michele racconta i prefetti nella dittatura.
Piazza Walther
Foto: upi

Ci fu un momento, verso la fine degli anni Venti, in cui Ettore Tolomei, l’alfiere dell’italianizzazione in Alto Adige, pretese dal governo fascista la rimozione della statua nella piazza centrale di Bolzano dedicata al poeta medievale tedesco, considerato dai nazionalisti italiani il simbolo del pangermanesimo. Il ministero degli esteri, preoccupato per i rapporti con la Germania e l’Austria, che attraverso la stampa e settori della politica non mancavano di criticare la politica fascista sui sudtirolesi, disse no. “Walther” fu salvato per alcuni anni, venendo rimosso negli anni Trenta e ricollocato a guerra finita. 

È una delle vicende che fanno parte della ricostruzione fatta da Andrea Di Michele, storico e archivista, su “I prefetti e fascismo in Alto Adige”, ovvero sull’articolazione periferica dello Stato mussoliniano in regione e sui rapporti con gli esponenti del Pnf locale. Il ricercatore della Libera università di Bolzano interviene nella biblioteca comunale di Trento durante il secondo incontro del ciclo promosso da Csseo e Museo storico del Trentino. 

Nella ricostruzione emergono le frizioni tra il movimento fascista locale, con i suoi esponenti più fanatici, che pretendevano dal governo fascista un’attenzione esclusiva per l’Alto Adige «italiano», e la figura prefettizia. Un’istituzione che storicamente rappresenta l’amministrazione centralizzata dello Stato, introdotta in Italia nel periodo napoleonico, adottata dal Regno piemontese e successivamente d’Italia. Nelle terre “irredente”, l’allora Venezia tridentina e la regione di Trieste, arrivò dopo la presa di potere di Benito Mussolini. Il quale si affidò ai prefetti, rappresentanti nelle province dello Stato centrale fascista - e che negli anni Venti erano per lo più funzionari di carriera degli Interni -, per dare esecuzione alle politiche decise dal duce del fascismo. Nella cosiddetta “normalizzazione”, con un potere ancora da consolidare, Mussolini se ne servì per tenere a freno i ras locali del movimento fascista che avrebbero potuto minare la sua leadership. Dove il Pnf però era debole l’opposizione tra “il federale” – il capo del Pnf sul territorio – e il prefetto fu poco marcata. È il caso del Sud Italia e appunto del Trentino Alto Adige. 

"Tolomei è visto in Alto Adige come il diavolo e l’identificazione stessa del fascismo, ma non fu così"

Non mancarono dunque le contese tra le due figure. Ne è solo un esempio l’episodio di Tolomei, esponente del nazionalismo, commissario alla lingua e cultura dell’Alto Adige ancora con i governi liberali post 1918, poi senatore e autore dei provvedimenti per l’italianizzazione – odiatissimi dai sudtirolesi – negli anni Venti; molto meno influente invece negli anni Trenta. “Tolomei è visto in Alto Adige come il diavolo e l’identificazione stessa del fascismo – nota Di Michele -, ma non fu così. Ebbe un grosso peso negli anni Venti, quando i suoi provvedimenti avallati dal Gran consiglio del fascismo vennero subito attuati dal prefetto in carica, ma già sul finire del decennio, con la creazione della Provincia di Bolzano nel 1927, la sua influenza andò diradandosi.

Mussolini iniziò a chiamarlo “La suocera” perché faceva continue pressioni, chiedendo che l’Alto Adige fosse al centro dell’attenzione di Roma. Il regime però aveva altre priorità. Le frizioni tra i prefetti e i capi del fascismo locale, che non fu mai un movimento radicato, si spiegano con le oscillazioni delle direttive nazionali. Quando la priorità veniva data ai rapporti con Germania e Austria il governo diceva di ammorbidire la politica di “snazionalizzazione” dei sudtirolesi. Fu il caso della statua in piazza Walther”.

Il ricercatore racconta altre opposizioni tra i due capisaldi del regime. Si evince la predilezione di Mussolini per l’articolazione statale, nell’ottica del potere e della centralizzazione. Negli anni Trenta però avvenne la “fascistizzazione” dei prefetti: non più funzionari di carriera ma esponenti del partito. 

“Con la creazione della Provincia – riprende Di Michele – venne nominato prefetto Umberto Ricci, un funzionario di carriera che veniva dalle zone di confine, il quale si scontrò con l’allora federale Alfredo Giarratana, direttore del quotidiano La provincia di Bolzano, che considerava le sue direttive troppo blande. Il risultato fu che per non umiliarli entrambi vennero trasferiti tutti e due. Ma lo stesso non successe dal 1933 al 1940, con il lungo mandato del prefetto Giuseppe Mastromattei, che guidò l’intervento più pesante nella zona industriale di Bolzano con l’arrivo di migliaia di operai dal resto d’Italia e la creazione di nuovi quartieri. Il federale Marcello Tallarigo lo accusò di sottovalutare l’infiltrazione del movimento nazista in Alto Adige, esagerando la polemica e passando all’azione: ci furono infatti scontri locali con i sudtirolesi. Tallarigo venne mandato via. Questo non cambiò il fatto che Mastromattei sottovalutò il fenomeno. Venne allontanato in seguito al risultato delle Opzioni, quando il 90% dei sudtirolesi optò per il ritorno in Germania. La propaganda fascista minimizzò il dato che fu uno smacco per il governo”.

Circa l’infiltrazione del nazismo, dal 1938 in poi, si assistette a un’intensificazione del fenomeno. “I testi delle scuole clandestine provenivano dal Reich e veicolavano quelle idee. Ci furono episodi di danneggiamenti alle caserme dei carabinieri e contro la bandiera italiana, di cui la stampa fascista non parlava”.

Di Michele si avvia a conclusione: “L’esame della figura del prefetto indica come il fascismo mette in piedi una dittatura con mezzi diversi, servendosi di figure amministrative preesistenti piegate a interessi di regime”.