Cultura | Salto Afternoon

La vita al di là della realtà

Presentata a Bolzano la traduzione del libro “Micòl” di W. Mittich, che prolunga la vita della protagonista dei “Finzi Contini” fino a lambire il nostro tempo.
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Foto: Foto: Salto.bz

“Era bella Micòl da giovane in shorts e maglietta di cotone, sembrava così libera, sportiva, moderna, soprattutto libera, azzurri gli occhi, di un azzurro scandinavo, la pelle color miele, e dallo scollo della maglietta brilla di tanto in tanto il piccolo sciaddài, l'amuleto rotondo in oro”. Il ritratto che Waltraud Mittich ha compiuto di uno dei personaggi più noti della letteratura italiana del Novecento si sovrappone e prosegue la rimembranza coltivata da generazioni di lettori. Micòl, l'ebrea appartenente alla famiglia dei Finzi Contini: giovane, bella, intelligente, loquace, amante della letteratura (in particolare Emily Dickinson) e dei làttimi, i piccoli soprammobili di vetro di Murano dei quali era collezionista. Ma perché ricamare sul già detto, perché immaginarsi una fine diversa da quella già definita da Giorgio Bassani, secondo il quale dall'hortus conclusus della sua grande storia ferrarese l'unica evasione concepibile fu il terribile annuncio di fumo del genocidio, della devastazione?

Cosa sarebbe successo se Micòl fosse sopravvissuta al campo di concentramento?

In prima battuta possiamo trovare una spiegazione nella fascinazione di una scrittura che dialoga solo con altra scrittura, eppure ne cerca anche i bordi, cerca altri mondi, come i cerchi d'acqua di un lago rarefatto (anch'esso simbolo di passato e memoria) dipinto da Nicolas de Staël – pittore che non a caso fu scelto dall'editore Einaudi (o da Bassani stesso?) per impreziosire la prima edizione del libro, che è del 1962 – cercano la riva del presente. Cosa sarebbe successo, insomma, se Micòl fosse sopravvissuta al campo di concentramento? Come raccontare ciò che non è accaduto ma avrebbe potuto accadere, come rendere testimonianza di questa possibilità, posto che la letteratura consista proprio nel rendere possibile ciò che appare impossibile?

Un avvertimento, ha ricordato Brunamaria Dal Lago Veneri durante la presentazione del libro (Edizioni Alphabeta Verlag, tradotto da Giovanna Ianeselli e Stefano Zangrando) al Centro Trevi di Bolzano, è già contenuto nella parola “ebreo”, ‘ivrì, che significa “al di là”, “oltre”, “stare dall'altra parte”. Uno stare dall'altra parte che non coincide affatto con l'isolamento dal mondo e dalla società, ma diventa al contrario un immergersi in esso e in essa, per testimoniare un comportamento differente. Uno dei possibili modi di testimoniare questa differenza è proprio quello scelto dalla Mittich, con un linguaggio frammentario che ricorda la prosa di Marguerite Duras, per comporre il mosaico esistenziale della vita di Micòl dopo la sua prima morte letteraria: chiedere giustizia e praticare la solidarietà nelle zone del mondo in cui la tragedia del popolo ebraico si rispecchia in altre tragedie, dove insomma il sangue non smette di scorrere fuori da ogni giardino.

Una "madrelingua a buon mercato", nella continuità del narrare

Il giardino dei Finzi Contini”, così Mittich, “non poteva restare confinato nello scrigno di un'appartenenza culturale circoscritta all'esperienza italiana, alla lingua italiana. Tante persone, anche qui in Sudtirolo, mi hanno raccontato di aver letto ed amato il libro leggendolo nella loro madrelingua”. Nel capitolo “L'italiano, lingua madre – madrelingua – lingua donna” si racconta di una Micòl incantata (incatenata) dalla melodia leggera di una canzone di Iva Zanicchi che parla di un “fiume amaro”: “È un fiume amaro dentro me, il sangue della mia ferita, ma ancor di più è amaro il bacio che sulla bocca tua mi ferisce ancor”. Amara è allora la lingua madre ascoltata nell'esilio (non importa se volontario, ogni esilio è in primo luogo un esilio nel tempo), una “madrelingua a buon mercato” ricostruita grazie a una distanza che implica necessariamente una traduzione. Traduzione da lingua a lingua, e quindi da tempo a tempo, da narratore a narratrice, nella continuità del narrare.

Waltraud Mittich confessa peraltro apertamente, a pagina 48 del suo libro, il motivo della sua scelta: “Di certi libri [la narratrice] s'innamorò. Il giardino dei Finzi Contini è uno di questi. Mondi prosaici come quello dell'infanzia della narratrice, ma anche mondi totalmente razionalizzati come quello odierno, lasciano poco spazio all'assurdo, agli anfratti inconosciuti. Questo e molto altro si fa spazio in noi mentre leggiamo libri meravigliosi, e può avere effetti terapeutici”. Accedendo in modo “assurdo” al futuro negatogli dalla storia che l'ha generata, la nuova Micòl si configura così a guisa di cura e scrittura, non tradendo ciò che è stata (“qualcuno ha persino pensato che il mio fosse un tentativo revisionista, pensate un po'...”), ma cercando di mostrare quello che ella “sarebbe potuta diventare” in una vita altrettanto immaginaria, in una vita al di là della sua realtà, e forse, proprio per questo, riemersa adesso al centro della nostra.