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Cultura | Avvenne domani

La "zona grigia" dell'arte

Rivive in una mostra l'atelier che illustrò nazismo e fascismo

"Seduto nel suo imponente ufficio a Palazzo Venezia a Roma, Benito Mussolini, ormai da otto anni al potere, meditava sul carattere della sua rivoluzione: ogni rivoluzione crea nuove forme politiche, nuovi miti e nuovi riti ed ora era necessario utilizzare le vecchie tradizioni adattandole ai nuovi scopi. Si dovevano inventare nuove feste, nuovi gesti e forme che a loro volta sarebbero dovuti diventare nuovamente tradizione".

Questa frase è tratta dal volume "La nazionalizzazione delle masse", pubblicato nel 1974 dallo studioso tedesco di origine ebraica George L. Mosse, considerato ormai uno dei più attenti osservatori dei fenomeni di carattere culturale, sociale e filosofico che hanno contraddistinto le dittature, quella nazista e quella fascista in particolare, nell'Europa del novecento.

Una frase e un libro, considerato tra l'altro da un altro grande storico come Renzo de Felice come una delle opere fondamentali per la comprensione del fenomeno storico del nazifascismo, che tornano alla mente, inevitabilmente, nel momento in cui ci si appresta ad affrontare la mostra allestita a Castel Tirolo e intitolata, per l'appunto, "Miti delle dittature".

È un viaggio, quello nelle sezioni delle quali si articola questa esposizione, curata con le consuete competenza e passione da Hannes Obermair, che provoca un senso di inquietudine per i riferimenti continui che ci vengono proposti sui tempi presenti, sullo smarrimento che sembra aver colto il mondo contemporaneo, ricacciato indietro di qualche decennio.

Ad attraversare, con un filo rosso, intero percorso della rassegna c'è innanzitutto il tema dell'arte come strumento di eccezionale potenza al servizio del mito che le dittature fascista e nazista, ma discorsi analoghi potrebbero essere fatti per molti altri regimi autoritari, costruiscono attorno alle loro simbologie e soprattutto attorno alla figura dei loro capi.

Non a caso la prima testimonianza nella quale il visitatore si imbatte è costituita da un breve frammento di un Cinegiornale Luce del 1938 che illustra la visita di Benito Mussolini all'esposizione degli artisti altoatesini trentini organizzata a Roma. Seguono le testimonianze dello zelo con cui pittori e scultori, anche di schiatta sudtirolese, si dedicarono all'esaltazione del regime e soprattutto della figura del Duce. È quella che Obermair definisce come una "zona grigia" sulla quale, dal dopoguerra in poi, si è preferito stendere uno dei tanti veli di oblio che coprono le verità scomode e imbarazzanti di quegli anni. Una verità che resta impressa indelebilmente del grande bassorilievo di esaltazione nella storia del fascismo scolpito dal sudtirolese Piffrader e che oggi ci viene restituito, in piazza del tribunale a Bolzano, con la didascalia di una frase celeberrima di Hannah Arendt.

Non c'è, però, solo la costruzione del mito del Capo supremo, mandato dal destino a guidare il popolo verso gloriosi e sanguinosi destini. L'arte è anche al servizio delle parole d'ordine, come quella sui valori indefettibili della famiglia, con la donna esaltata nel ruolo di feconda riproduttrice di carne da mandare al macello.

È una carrellata di opere che sottolineano, esaltandoli, anche i momenti più tragici come quello nel quale ai sudtirolesi venne imposto di scegliere, con le opzioni, tra la propria cultura e la propria terra. Ci sono momenti nei quali neppure l'impeto didascalico imposto dai regimi riesce però a celare il dramma intimo. Ecco allora i volti segnati dei soldati fronte di Stalingrado, ecco lo sguardo atterrito di chi deve lasciare, per un destino incerto, le montagne da sempre vissute come una casa.

Nell'ultima sala, quasi a voler significare che non tutto è stato travolto dagli spietati apparati propagandistici di Roma e Berlino, le opere di artisti sudtirolesi considerate, secondo la dizione ufficiale dall'epoca, come arte degenerata, bandite, nascoste e riemerse alla luce, come alcuni dei loro autori, dopo la grande tempesta.

È una mostra da vedere, quella di Castel Tirolo, ed è particolarmente importante che sia stata allestita proprio tra le mura che rappresentano il simbolo ancestrale della storia altoatesina. Perché quelle vicende, che a volte qualcuno preferirebbe lasciare nell'ombra, sono una parte essenziale di ciò che siamo stati e di ciò che siamo.