Società | VIAGGIO

Un gioco a casa loro

Un'esperienza di viaggio controcorrente per conoscere quello che avviene nei mondi degli altri.
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
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Foto: Immagine dal web

Dal 28 luglio al 2 agosto ho trascorso sei giorni lungo i confini fra Serbia, Bosnia, Croazia e Ungheria per monitorare i percorsi dei migranti e le condizioni dei campi per rifugiati in Serbia.

Sono stati più di 3000 i chilometri percorsi esplorando la rotta balcanica e le sue incoerenze in una sorta di macabro "safari": le giornate infatti passavano a bordo di una macchina, sempre in moto fra un "refugees camp" e l'altro.

Dai finestrini però niente baobab o leoni in vista, sono bastate poche ore perché i miei occhi si abituassero a cercare in mezzo ai campi coltivati fili elettrificati, torrette di guardia, panni stesi al vento, attraverso quello che per l'Europa dovrebbe apparire come un inquietante deja-vu.

In Serbia sono stati allestiti 17 Lager ufficiali, a cui si aggiungono diverse "jungle", aree autorganizzate solitamente lungo i confini, da cui quotidianamente decine di persone tentano l'attraversamento di una frontiera, quasi sempre con esito negativo.

Secondo i dati di UNHCR (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) e Save the children attualmente ci sono circa 4500 migranti bloccati in Serbia, dei quali circa la metà è composta da minori, di cui il 20% non è accompagnato da un adulto di riferimento.

Se come alle elementari mi chiedessero "la cosa che mi ha colpito di più" di questi giorni serbi, ungheresi e croati, penserei sicuramente alla giornata passata nella jungle di Šid, al confine fra Serbia e Croazia.

Un non-luogo, un paese in cui ogni centimetro quadrato era occupato da oggetti, persone e sopratutto infinita immondizia, e ciononostante aveva tutta l'aria di essere disabitato. Proprio qui, pochi giorni dopo il mio rientro in Italia un giovane algerino si è suicidato gettandosi contro il treno in corsa che collega Šid e la città croata di Tovarnik.

Io e i miei 6 compagni di viaggio eravamo chiaramente degli estranei e i migranti ci avvicinavano spesso, per chiedere soldi o altri aiuti, ed è qui che abbiamo percepito cosa significa "chiudere" un confine secondo la polizia di frontiera, come se questa "legittima" difesa giustificasse qualsiasi mezzo.

I migranti chiamano "the game" il tentativo di attraversare illegalmente un confine chiuso, ma i rischi di questo gioco sono maledettamente reali: sul sito dell'UNHCR si susseguono quotidianamente denunce di violenze da parte della polizia: ossa rotte, docce gelate, pestaggi accompagnati dal furto di soldi e cellulari.

Ciononostante quasi tutti provano il gioco, perché la via legale per entrare nell'Unione europea da alcuni mesi è riservata esclusivamente a famiglie e minori, i quali comunque sono costretti ad attese snervanti, che in diversi casi si risolvono con il pagamento di una quota per accelerare i tempi.

Nel campo di Principovac, che abbiamo visitato il 30 luglio, erano ospitate sopratutto famiglie, i cui bambini ci hanno subito raggiunti fuori dalla recinzione, incuriositi dalla nostra presenza.

La maggiore fra le ragazzine conosceva qualche parola d'inglese e mi ha chiesto come mi chiamavo per cercarmi su Facebook, "Elisa Caneve", le ho detto esitando e dopo pochi secondi il gruppetto di bambine mi ringraziava ripetendo a pappagallo il mio nome e correndo a dirlo ai loro genitori, come se questo davvero potesse essergli d'aiuto. Mi sentivo nauseata e la stessa sensazione si è presentata ad Adaševci, dove gli ospiti del campo ci hanno invitati ad entrare per bere del thè, e per un attimo non si è capito se il filo spinato tenesse dentro loro, o fuori noi. Dopo un breve e rumoroso consulto è spuntato da una baracca un ragazzo sorridente con in mano due bottiglie di succo, ci siamo seduti fuori, tutti, e mi sono commossa. Il succo però davvero era troppo, non potevo accettare di farmi offrire qualcosa da dei ragazzi della mia età, costretti a sopravvivere in una situazione simile nel silenzio dell'Europa, della mia Europa, in cui io, forse ancora più di loro, ripongo tante speranze che mai prima di questo viaggio avevano vacillato tanto. In un attimo reggevo già un bicchiere ricolmo di succo arancione, l'ho buttato giù ad occhi chiusi, come i sedicenni ingoiano shottini di vodka. In un attimo un ragazzo pakistano me l'ha riempito di nuovo, sorridendo della mia sete. Mi ha raccontato di essere stato riportato in Serbia dall'Italia perché a Belgrado avevano registrato le sue impronte digitali, ma la storia era complicata e lui non riusciva a spiegarsi, così ho cercato di cambiare discorso chiedendogli dove avesse vissuto in Italia. "Bolzano Bozen" mi dice, "conosci?". Ad Atmar, al suo assurdo bilinguismo, unica cosa che siamo riusciti a dargli, e alla sua voglia di tornare dedico questa poesia:

Credo nei tramonti

sopra distese di sacchi a pelo,

e nei campi coltivati a soia

con i finanziamenti dell'Unione Europea,

credo nelle finestre,

anche a quelle dei grattacieli,

che in lontananza riflettono

la luce del sole.

E credo perfino

nella dolorosa distanza

perché su questa Terra,

finalmente tonda,

se ti allontani troppo,

in fin dei conti ti avvicini.

Elisa Caneve