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Vittime e carnefici

Una recensione dell'ultimo capitolo del libro "Storie dal nuovo mondo", dell'autore bolzanino Daniele Rielli.
Daniele Rielli
Foto: Quit the Doner

Vi siete mai chiesti perché la superstrada Merano-Bolzano non corre dritta, ma “si snoda sinuosa seguendo il percorso del fiume Adige, nonostante l'assenza di ostacoli naturali”? La domanda su questa strada atipica “con pochi uguali al mondo” se l'è posta Daniele Rielli per svelare subito l'arcano: “non si potevano tagliare a metà i campi di mele dei tedeschi, intoccabili e infatti intoccati.” In una società normale si sarebbe costruita una retta a quattro corsie dal punto a al punto b, immagina il Nostro ispirato da galileiano rigore, con sopra- e sottopassaggi quanti ne servono, altro che bordeggiare il fiume e i campi...

Basta questo ragionamento, involontariamente comico, per capire dove si colloca Io che ho attraversato l'Alto Adige, decimo e ultimo saggio della raccolta Storie dal nuovo mondo, firmata dall'autore bolzanino per i prestigiosi tipi di Adelphi. Si colloca nella peggiore tradizione agitatoria: quella che non sa distinguere e differenziare, perché è incapace di immaginare che ci possano essere altre ragioni, oltre a quelle che si ritengono le proprie.

Per Rielli, autore in bianco e nero, tutto si riduce a due soggetti. I sudtirolesi o, più genericamente, i tedeschi: “popolo tradizionalista, religioso e conservatore”, dal “cuore oscuro e razzista”, “ispirati dalle forze ancestrali dell'etnia, del sangue e della terra”, inclini a “un pragmatismo quasi brutale, un'organizzazione montanara dell'esistenza”, a un “raffinato sadismo etnico”, a un “bisogno di calore simbolico e nazionalista in luogo di quello umano” e per finire ghiotti di canederli: tiè! Dall'altro lato ci sono gli italiani che “non contano niente”, dalla “natura invisibile, quasi transeunte” (sic!), costretti “dentro una gabbia etnica”, privati “per legge e per decreto etnico di quasi tutte le cariche dirigenziali e della maggior parte dei posti di lavoro pubblici”, trattati da “cittadini di serie B”. Il giudizio conclusivo è devastante e a prenderlo sul serio, l'Italia, l'Europa e tutto il mondo civile dovrebbero occupare militarmente la provincia per portarvi un minimo grado di civiltà. Secondo Rielli viviamo infatti in un “sistema di apartheid etnica” (o apartheid “morbida”, quando l'autore è indulgente), un “sistema illiberale posto nel cuore dell'Europa”, dove “ci si rifà sempre al mondo tedesco” (finanche nella scelta delle prese elettriche nei locali dell'università, finanche nel ricostruire il liceo Carducci di Bolzano) e dove “la follia è una pratica su base quotidiana”, basato sull”etnia, il sangue e il suolo”, “ultimo parco naturale delle etnie”, con un “elevato grado di razzismo”, contraddistinto da una “concezione dichiaratamente razziale della comunità” e da “scientifico razzismo”.

Bisognerebbe prendersi la pazienza di smontare queste teorie, mostrando l'ignoranza delle cose e il pregiudizio culturale da cui nascono. Ho tentato di farlo anni fa nel mio libro “Spaesati”, ma oggi mi cascano le braccia. Anche perché Rielli rimastica considerazioni altrui, eleggendo a sua Bibbia il libro “Sangue e suolo”: forse il peggiore tra i tanti dedicati all'Alto Adige/Südtirol e certamente il peggiore tra quelli scritti da Sebastiano Vassalli. Scegliersi un maestro per rilanciarne le teorie: è davvero questo il compito di una persona che vuole vivere del proprio lavoro intellettuale? “Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza”, esortava quel filosofo, ponendo l'accento su “tua propria” (non quella degli altri). E' però doveroso aggiungere almeno una considerazione sull'analisi di Vassalli-Rielli. Essa è di segno uguale (anche se di contenuto opposto) a quella degli oltranzisti dell'altra parte. Noi siamo vittime, gli altri carnefici: sentenza egualmente condivisibile da entrambe le parti in conflitto. Chi non sa o non vuole distinguere, finisce inevitabilmente per cadere nel “noi” e “loro”, identificandosi con quella visione “etnica” della società che tanto vorrebbe condannare e superare.

A conclusione del suo saggio Rielli si chiede, col tono di chi dopo tanto ragionare arriva al disincanto, se sia alla fine impossibile “per le persone reali, nel mondo reale” uscire dalle “tradizioni, i retaggi, le culture di appartenenza”, per spegnere finalmente anche in Alto Adige/Südtirol i focolai dei contrapposti nazionalismi. La risposta c'è ed è questa: superare i retaggi delle appartenenze, imparare l'arte dello stare insieme è possibile. E' faticoso, ma possibile. Come primo passo si potrebbe smettere di usare le parole per fare gli incendiari.