Società | L'intervista

Non è uno sport per donne, dicevano

Desireé Righi, capitano del CF Südtirol, sul riscatto del calcio femminile, il boom di popolarità delle azzurre ai Mondiali, i pregiudizi, le bambole e i palloni.
Righi, Sabatino
Foto: Righi

“Era ora”. Due parole, un’esclamazione liberatoria quella di Desireé Righi, 27enne capitano del CF Südtirol, che dà la misura di quanto il calcio femminile, sotto la pressa di un'infaticabile voglia di riscatto, aspettasse il giusto riconoscimento. Merito delle azzurre impegnate nei mondiali di Francia 2019 che stanno tenendo incollati allo schermo gli italiani. In particolare il match con il Brasile, disputato martedì scorso, 18 giugno, e trasmesso in diretta su Rai 1 (la prima volta nella storia della televisione pubblica per una partita femminile), è stato il programma più visto, con 7,3 milioni di spettatori.

 

 

L’Italia, seppur sconfitta, è riuscita a mantenere il primo posto nel girone qualificandosi agli ottavi di finale, e adesso dovrà vedersela con la Cina. “Secondo me - azzarda con ottimismo il difensore centrale della squadra altoatesina che quest’anno ha vinto il campionato di serie C - ce la possiamo fare, nonostante tutto”.

 

Nonostante cosa, Righi?

Desireé Righi: Beh, nonostante siano vent’anni che manchiamo dal campionato mondiale e nonostante il fatto che restiamo delle “dilettanti” (visto che sono solo le divisioni maschili a essere professionistiche), con tutti gli svantaggi del caso. 

Niente tutele pensionistiche né sanitarie, per esempio?

Esatto, e molte giocatrici devono avere un doppio lavoro per poterci stare dentro. Io gioco in una squadra di provincia e lavoro in un albergo, mi alleno 3 volte alla settimana e in più c'è la partita, devo riuscire a incastrare tutto, per noi purtroppo il calcio è di fatto un hobby.

Questo però non succede in paesi come gli Stati Uniti, la Germania e la Francia, dove il calcio femminile è più accreditato.

In Italia la serie A femminile è ancora un campionato dilettantistico, un’assurdità. Dico che è tempo di investire in questo movimento delle donne ma credo anche che siamo sulla buona strada, perché i grandi club, come l’Inter e la Juventus, hanno la loro declinazione femminile e più popolarità significa auspicabilmente anche più sostegno economico. In America il calcio in rosa è addirittura più considerato di quello maschile, essere professioniste significa potersi permettere di giocare solo a calcio, allenarsi e concentrarsi unicamente su quello. Per noi, in Italia, ciò è un lusso. Ecco, l’ottima performance dell’Italia ai Mondiali vale doppio per questo motivo, siamo forti anche se non siamo professioniste. Ed è un bene che grazie a questa competizione le ragazze vengano osservate anche all'estero, visto il loro valore.

In America il calcio in rosa è addirittura più considerato di quello maschile, essere professioniste significa potersi permettere di giocare solo a calcio, allenarsi e concentrarsi unicamente su quello. Per noi, in Italia, ciò è un lusso

E gli italiani? Stanno scoprendo finalmente il calcio femminile o è solo un “fuoco di paglia”?

Credo si stiano innamorando del calcio femminile e aggiungo: era ora. Le donne sono brave a giocare e danno l’anima, ed è anche un bel calcio da vedere il nostro, ovviamente non è così veloce come quello maschile ma abbiamo una buona tecnica e la tattica di gioco non ci manca. Pensiamo anche alla brasiliana che ha segnato il rigore all’Italia, Marta Vieira de Silva. Ha stabilito il nuovo record di reti in un Mondiale, che sia maschile o femminile. 17 gol, uno in più rispetto al campione tedesco Miroslav Klose. O pensiamo a Debinha, che ha sfiorato un bellissimo gol di tacco, o alla nostra Giuliani che l’ha parato con un'incredibile prontezza di riflessi. 

 

 

Lei ha giocato in passato contro alcune delle azzurre che stanno inseguendo oggi la Coppa del Mondo, non è così?

Ricordo una partita molto difficile quando eravamo in serie A qualche anno fa, il CF Südtirol contro il Brescia dove militavano allora Girelli, Sabatino, Bonansea, già bravissime. Mi ruppi il malleolo quella volta, ma mi ripresi piuttosto in fretta, grazie al mio preparatore atletico tornai a correre due mesi dopo.

È ora che le persone ci vedano come giocatrici di calcio e basta

C’è ancora molto pregiudizio nei confronti del calcio femminile?

Direi di sì, ed è una cosa molto triste. Mettiamo in questo sport lo stesso impegno dei nostri colleghi maschi, ma veniamo ancora guardate con una certa circospezione. È ora che le persone ci vedano come giocatrici di calcio e basta. Anche perché quando ci guardano giocare restano tutti stupiti, nessuno ride più delle “femmine che giocano a calcio”, il punto è proprio quello, che la gente dovrebbe venire di più alle partite, così si smontano i pregiudizi.

In provincia è ancora più dura?

Da una parte abbiamo molte squadre femminili, nelle valli, a Merano, Bolzano, Bressanone; c’è l’Unterland, c’è il CF Südtirol e via dicendo. Dall’altra è più difficile per noi altoatesine, rispetto alle altre, farci conoscere se non siamo in una lega importante. Quest’anno con la mia squadra abbiamo vinto il campionato di serie C e la prossima stagione giocheremo nella C interregionale, così potremo avere più chance di essere notate.

Alcune delle giocatrici di questo Mondiale hanno detto che da piccole staccavano la testa alle bambole e la usavano come fosse un pallone, lei faceva lo stesso?

Per un po’ ho giocato volentieri con le bambole e giuro che non le ho decapitate [ride]. La passione per il pallone l’ho scoperta a 4 anni, avevo un vicino di casa con cui passavo tutto il tempo e un giorno mi disse che sarebbe entrato in una squadra di calcio. Io, che lo seguivo in ogni cosa che faceva, ho voluto provare. Prima di arrivare al Brixen a 14 anni e successivamente alla serie A con il CF Südtirol a 17, ho giocato in un team della val Passiria, dove sono nata. Avevo 13 anni, allora non esistevano molte squadre femminili e mi sono ritrovata a giocare con i maschi, non è stato facile farmi accettare all’inizio, ma poi non hanno più voluto lasciarmi andare.