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Il viaggiatore leggero

Matthias Canapini è un reporter e scrittore marchigiano. Dalla Siria al Brennero è alla ricerca di storie di frontiera con taccuino e macchina fotografica.
Matthias Canapini
Foto: Matthias Canapini

salto.bz: Matthias, 26 anni, di Fano (Marche), tu sei un reporter di viaggio e di guerra, giornalista, scrittore, fotografo e molto altro. Racconti le storie che raccogli. Ti è mai capitato di interferire con gli eventi che hai poi raccontato nei tuoi libri? O sei solo un osservatore?

Matthias Canapini: Sono più o meno sei o sette che ormai conduco questa vita, viaggiando via terra con taccuino e macchina fotografica e devo dire che...sì, mi è capitato. Una volta credo di essere diventato addirittura il protagonista di un particolare evento.

Era il 2015 e stavo viaggiando da Salonicco alla Croazia per seguire la rotta balcanica con una famiglia afghana e stavo facendo finta di essere un profugo, viaggiavo insieme a loro. Più ci si avvicinava al confine croato, più i controlli diventano pesanti e la polizia violenta. Ho ricevuto degli schiaffoni in testa, calci nel sedere, spinte. Non ci hanno proprio picchiato in senso stretto, però hanno fatto del male anche ai ragazzini che erano con me. Ci hanno umiliato in questo modo.

Un altro volta episodio è accaduto mentre seguivo le proteste contro il TAP in Salento, quando un poliziotto mi ha colpito con lo scudo, da dietro, mentre fotografavo le manifestazioni. Un'ultima volta poi a Gezi Park, Turchia, quando mi hanno ritirato il passaporto per alcune ore durante le proteste dei cittadini e mi hanno minacciato, dicevano che mi avrebbero messo in galera. Insomma, ho raccontato tutte queste esperienze negative in cui io ero protagonista, in realtà insieme ad altri. Anche se, alla fine, tutti i mondi ti si appiccicano addosso e se entri abbastanza in una storia, è ovvio che ne diventi parte tu stesso.

Hai viaggiato da Damasco a Lampedusa, dalla Turchia al Brennero. Hai trovato un minimo comune denominatore tra questi luoghi di frontiera?

Sarà anche un pensiero banale ma ho capito davvero che oltre ai numeri e alle percentuali siamo tutti uguali. Siamo persone che semplicemente vogliono vivere o - questo vale per alcuni - sopravvivere, in questo mondo pieno di storture. Per quanto le testimonianze possano essere lontane, i desideri e le aspirazioni di ognuno, almeno quelle basilari, sono tutte comuni. Poi quando si viaggia, si riesce a capire anche meglio la propria casa. Alla fine siamo tutti appesi a un filo. In realtà le frontiere sono strumenti inventati da noi per dividere il mondo artificialmente.

 

Durante i tuoi viaggi hai cercato solamente luoghi e storie di guerra o di dopoguerra? E cosa ti spinge a farlo, un'urgenza tua o altro?

La mia storia è questa. A diciannove anni, subito dopo il diploma, sono partito per la Bosnia e ho incontrato gli sminatori. Ovvero padri di famiglia che, una volta finita la guerra, bonificano i terreni dalle mine anti-uomo per permettere di coltivare ancora la terra. Sono partito con l'idea di ridare un nome e un volto a queste persone. E' importante, si ritorna a essere comunità.

Nella penna e nella macchina fotografica ho trovato alcuni strumenti per aiutare questo processo. Io ho sempre raccontato le retrovie del conflitto. Ho seguito sia guerre che sono ancora in corso, sia guerre passate. Ho seguito le conseguenze dell'eredità di Pol Pot, ma anche quelle delle armi chimiche sganciate dagli Usa in Vietnam, andando a cercare in prima persone le testimonianze.

"Il sacco a pelo, il taccuino, la macchina fotografica e i libri. Senza libri non riuscirei a viaggiare".

Rispetto al tuo approccio giornalistico - da reporter lento - secondo te che problema c'è oggi nell'informazione del giornalismo quotidiano, dai giornali ai telegiornali, passando per i reportage realizzati quasi in tempo reale?

Siamo sempre bombardati di notizie e di immagini. L'essere umano si aliena, non capisce più la realtà. Mi rinfacciano sempre di arrivare tardi o tardissimo nei posti, anche 40 anni dopo. Il fatto è che si pensa spesso una cosa non vera: se una cosa non accade più, allora non porta più con se delle conseguenze sul lungo termine.

Io vado a vedere quali sono le conseguenze degli eventi che tutti hanno dimenticato, perché non fanno più notizia. Voglio scrivere queste storie, quando si spengono i riflettori e il mondo scompare. Non si abbandonano le storie. In un mondo in cui il giornalismo si sta estinguendo, ciò che è importante è lo sguardo con cui si osserva il mondo.

 

Quando parti per un viaggio cosa ti porti dietro?

Il sacco a pelo, il taccuino, la macchina fotografica e i libri. Senza libri non riuscirei a viaggiare. Adesso leggo veramente di tutto, da saggi a reportage. Gli scritti di Terzani, Rumiz e Kapuscinski mi hanno formato e li leggo ancora. Rumiz tra l'altro ha scritto la prefazione a un mio libro, è stato un onore.

Tu come ti approcci alla scrittura, come ti rapporti con i tuoi ricordi?

Esco la mattina e la sera  già tutto quello che ho sul foglio, mischiando tutto quello che ho appuntato. Di solito faccio interviste. La fotografia invece è sempre secondaria. Essere rispettosi ed empatici è basilare per fare questo lavoro. Se c'è la possibilità di non disturbare, la foto non la faccio. Uno può fare la foto del secolo ma se la foto in questione invade la sfera della persona, ci si può anche sentire male e far star male qualcun altro. Se ci entro davvero tanto, in una storia, comincio a fare le fotografie. Una volta mi è capitato che in una zona di guerra venissi rimbrottato perché stavo fotografando la sofferenza di alcune persone. In quel momento me ne sono andato e ho chiesto scusa, per non disturbare ulteriormente.

"La mia vita mi trascina sempre in mezzo a delle storie molto forti e l'esigenza di tornare nelle Marche per rivedere qualche amico, farsi una birra e tirare due calci al pallone c'è sempre".

E quando sei tornato nelle Marche, subito dopo il terremoto del 2016, hai deciso che fosse necessario raccontare anche qualcosa di un posto che fosse più vicino a te, giusto?

A 23 anni dopo essere stato anche in Siria, ho avuto il bisogno di tornare a casa e riscoprirla viaggiando, camminare l'Italia, camminare e andare lento. Ero in Sud Italia quando è successo il terremoto. Allora ho deciso che avrei dovuto prendere lo zaino e raccontare quello che sarebbe accaduto dopo.

Sono tornato nel cratere ogni due settimane, circa. Sembrava uno scenario di guerra, non differente da quelli che ho visto dall'altra parte del mondo. Ho camminato dentro i monti Sibillini per raccontare la quotidianità dopo il terremoto. E' ancora un'emergenza, quella del terremoto, ma i giornali hanno spento le luci su quel posto. Le persone però hanno continuano a resistere, nonostante lo stato li abbia abbandonati. E' però importante appuntare i nomi, le storie.

 

Rugby. So che vuoi raccontare l'Italia con la palla ovale, in che senso?

Gioco a rugby da dodici anni e lo insegno anche. A un certo punto della mia vita ho deciso di unire questo sport alla scrittura. Da diverso tempo sto cercando di raccontare omofobia, disabilità e malattia mentale attraverso la palla ovale. Molti non lo sanno ma l'integrazione e la riabilitazione passano anche da questo sport, che crea un senso di squadra e di famiglia molto forte. E' tanto dura farlo da soli, la riabilitazione.

 

Di recente sei stato in Alto Adige, tra Bolzano e il Brennero. Il posto di frontiera ti ha ovviamente spinto a venire qui. Hai trovato quello che cercavi, storie interessanti da riportare?

Da maggio cerco le storie dei rifugiati che attraversano le rotte per raggiungere l'Europa. Ho cominciato da Ventimiglia, passando per Trieste e Udine, ho fatto la rotta balcanica al contrario e adesso sono qui. Ho parlato soprattutto con i volontari che si occupano di queste persone. Al Brennero non ho trovato storie perché è un confine ormai blindato. Però è stato importante percorrere alcune strade, battere certi sentieri e sudarseli, capire quali passi ci fossero dietro. Ho trovato molti elementi che parlavano quasi da soli. Ho trovato una coperta, una scarpa, una giacca strappata, un borsone con i viveri di sopravvivenza. C'erano foto di famiglia, portafogli. Questo progetto mi sta portando a indagare molti confini, esteriori e interiori.

 

Passiamo dall'altra parte del mondo. Come sei arrivato in Siria e cosa hai raccontato di quel posto?

Ci sono stato nel 2013. Siamo entrati clandestinamente, appoggiati da un'associazione di Monza che aiuta ancora le persone che fuggono da Aleppo ogni giorno. Portano beni di prima necessità, offrono protezione. Ho visto i campi degli sfollati alla fine del mondo. Nei due viaggi che ho fatto ho cercato prima di tutto di dare una mano e poi di raccontare le storie che ho appreso. Dalla macchina fotografica sono poi uscire fuori delle foto che hanno girato un po' l'Italia grazie a una mostra organizzata per raccogliere fondi.

A volte senti mai la voglia disperata di tornare a casa, a Fano?

Sì. La mia vita mi trascina sempre in mezzo a delle storie molto forti e l'esigenza di tornare nelle Marche per rivedere qualche amico, farsi una birra e tirare due calci al pallone, c'è sempre. Ho incontrato tanti reporter che hanno visto cose terribili e loro mi hanno detto che questa è una vita che non si può fare per molto tempo. Forse solo per quindici anni, neanche. Perché? Perché questa - come tante altre cose - è una ricerca inesausta di un "dunque" che non arrivi mai a scoprire. Il mondo è un casino. A volte serve avere un posto sicuro dove poter appoggiare lo zaino, fermarsi, e pensare.