Società | Riflessione

La sindrome dello scorpione

Cosa hanno a che fare gli scorpioni con le proteste e i sacrifici degli "ultimi".
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.

Il 23 novembre scorso sei profughi al confine fra Macedonia - Grecia si sono cuciti la bocca in segno di protesta contro le barriere. La stessa cosa è successa nel 2014 con i profughi dentro i CIE e nel gennaio del 2011 in Kyrgyzstan, quando 400 detenuti hanno cucito con ago e filo le bocche in segno di protesta contro le continue violenze e le condizioni disumane nelle carceri. In merito al caso del Kyrgyzstan nessun segnale risolutivo è partito dai palazzi della politica e la protesta delle bocche cucite del CIE di due anni fa ha fatto molta fatica a ottenere dei risultati. Come se non bastasse, la complessità mediocre con la quale la cosa venne in seguito trattata dalla politica italiana, rischiò di far perdere il filo per via della propaganda malefica della stampa. Protagonista, un "ex bocca cucita", un palestinese di 31 anni, con piccoli precedenti penali, che venne arrestato mentre, ubriaco, scaraventava a destra e a manca motociclette e bidoni. Il caso, per niente chiaro nelle sue sottigliezze colorite, occupò così tanto le pagine della cronaca da oscurare una protesta legittima e disperata. Le ultime bocche cucite, ahimé, non sono che una escalation dei sacrifici nella storia del mondo degli immigrati e niente in confronto ai sacrifici più estremi attuati negli ultimi decenni; migliaia e migliaia di cadaveri, vite precipitate nei fondali del mare e sotto piccole dune di sabbia. Persone che in questi giorni  rischiano di morire di fame e al freddo e che difficilmente troveranno lo spazio meritato nelle testate dei media. Come difficilmente troveranno spazio i profughi che devono entrare in Danimarca a partire dal prossimo 26 gennaio.

Non scorderò mai i resti di 99 albanesi diventati cibo per i pesci, il famigerato naufragio della motovedetta Kater I Rades il 28 marzo del 1997. Tra le vittime il fratello di una mia amica, la quale, ogni 28 marzo, piangeva in silenzio e di nascosto mentre spolverava le camere di un piccolo albergo, in un piccolo paesino di Trento. Persone costrette a morire annegate e accompagnate nella loro terribile fine dal disprezzo della ex senatrice Irene Pivetti:

Anche se mi dispiace per i morti...gli albanesi mi fanno schifo lo stesso!”.

La protesta da parte di una persona o di un gruppo di persone svantaggiate, purché giusta, non avrà mai l'esito sperato se queste non vengono affiancate da personaggi cosiddetti Very Important Person, grandi politici, attori, artisti, sociologi e filosofi. Percorrere con i profughi campi, fiumi e deserti per settimane, mesi e anni, supportando i respingimenti da una parte del mondo all'altra, dormire per terra con dei bimbi aggrappati al petto. Purtroppo ho il dubbio che se San Francesco d'Assisi non fosse stato figlio di nobile famiglia, le sue critiche alla chiesa non avrebbero avuto l'eco che ebbero realmente. Se al posto di Nelson Mandela ci fosse stato un benestante e potente uomo bianco che combatteva per i diritti dei neri probabilmente non avrebbe trascorso 27 anni della sua vita in carcere. Mi viene in mente l’esempio del prete rivoluzionario argentino Carlo Mugika, figlio di una famiglia conosciuta e ricca di Buenos Aires. Egli trascorse la sua vita tra guerre e battaglie nelle zone più disagiate dell'Argentina e divenne un bersaglio sia della sua chiesa sia del mondo anticomunista.
E infatti l'11 maggio 1974 venne assassinato dall'argentino fascista Rodolfo Almiron. Non morì subito, e dopo che fu ricoverato, prima di spirare, le sue ultime parole rivolte a un'infermiera furono: Ora, più che mai dobbiamo essere con la gente!”.

E dentro “la gente” giace la cosiddetta sindrome dello scorpione, la sindrome dell'Io che resistendo invano e in condizioni sfavorevoli consegna il suo corpo nelle mani della sua stessa guerra che diventa il suo esecutore. Lo scorpione è immune al suo veleno ma non al bruciore del fuoco. Il corpo in quanto macchina portatrice del guerriero, impazzisce, va in tilt. Chi lo dirige smette di interagire con l'esterno, e desiste dal credere e sperare in una via d'uscita riversando su di sé tutto il disagio, facendosi del male fino alla morte.

I sacrifici e le proteste degli ultimi spesso richiamano le sofferenze dello scorpione che combatte dentro il cerchio di fuoco e man mano che questo si stringe, scaglia inconsciamente la sua arma su di sé. Ma, diversamente da come sembra, non muore suicida ma bruciato, senza via di scampo e da eroe solitario.